Elettra (D'Annunzio)/Le città del silenzio (IV)
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LE CITTÀ DEL SILENZIO.
perugia.
I.
in cor m’entrò col rostro e con l’artiglio,
onde tutto il mio sangue acro e vermiglio
delle immortali tue vendette avvampa.
5Certo segnato fui della tua stampa
un dì, tra ferro e fuoco io fui tuo figlio:
ancor vivo, qual fecemi il Bonfiglio,
là sul muro ove Totila s’accampa.
Le catene spezzai nelle tue strade,
10precipitai gli uccisi per isfregio
dalle tue torri, usai spiedo e roncone.
Brillar vidi tra il rugghio delle spade
il mio sogno di re nell’occhio regio
di Braccio Fortebraccio da Montone.
II.
Dal Palagio non scendono, o Peroscia,
i tuoi Priori le solenni scale?
L’acqua, che ai gradi della Cattedrale
terse il sangue degli Oddi, ancora scroscia.
5Tace la piazza. Il Gonfalon s’affloscia.
Vento d’odio o d’amor più non l’assale?
Ecco Astorre Baglione, a Marte eguale,
che cavalca con l’asta in su la coscia!
Anco viene Gismondo a piè, con tanta
10levità che assimiglia presta lonza:
lo scolare alemanno i passi ammira;
e Grifonetto, il figlio d’Atalanta,
senza elmo, come il sole che l’abbronza
bello: valletti ha il Tradimento e l’Ira.
III.
Il magnifico Astorre a Porta Sole
mena la donna sua del sangue Ursino.
Monna Lavinia in veste d’oro fino
danza a suono di piffari e viuole.
5La mensa d’ogni frutto e fior redole,
reca d’ogni ragion confetti e vino.
In quell’ora il signor di Camerino
soffia a Carlo Barciglia sue parole.
E il gobbo invesca Filippo di Braccio.
10Mastro d’inganni è il bastardo: ei sghignazza
pensando a Giovan Pavolo e a Zenopia.
E, mentre Astorre nel fraterno abbraccio
sorride, su Peroscia che gavazza
versa una negra iddia la Cornucopia.
IV.
Dorme col suo bagascio Simonetto
che in vita non conobbe mai paura;
ed Astorre non sa che in sepoltura
è per mutarsi il nuzial suo letto.
5“Griffa! Griffa!„ Il perduto giovinetto
apre tutte le porte alla congiura.
Ecco primo il bastardo. Ei raffigura
il grande Astorre al grande ignudo petto.
Questi urla: “Misero Astorre che more
10commo poltrone!„ E spira sotto i colpi
ciechi d’Ottaviano dalla Corgna.
Ma Gian Pavolo, il suo vendicatore
che tornerà lione tra le volpi,
escito è in salvo per la Porta Borgna.
V.
Giacciono su la via come vil soma
gli occisi. Or qual potenza li fa sacri?
Nei corpi è la beltà dei simulacri
che custodisce l’almo suol di Roma.
5Sembrano infusi in un sublime aroma,
se ben privi de’ funebri lavacri.
Quasi letèi papaveri son gli acri
grumi, serto di porpora alla chioma.
Traggono allo spettacolo le genti,
10percosse di stupore. Il Maturanzio
sogna Achille Pelìde e il Telamonio.
Ma nella cerchia di quegli occhi intenti,
o Peroscia, è un divino testimonio:
talun nomato Rafaele Sanzio.
VI.
Coi fanti e con le lance alle Due Porte
Iovan Pavolo vien sul suo morello.
Nitrire ode il corsiero del fratello
tradito; e il cor gli rugge: “A morte! A morte!„
5Di repente rivolgesi la sorte.
"Addosso a Corgna! A me Monte Sperello!"
D’ogni banda cavalcano al macello
i partigiani in arme con le scorte.
Entra il gran falco da Sant’Ercolano
10e incontra il figlio d’Atalanta. “Addio,
traditore Grifone: sei pur qua!
Non t’ammazzo. Non vo’ metter la mano
io nel mio sangue. Vattene con Dio.„
E sprona innanzi a prender la città.
VII.
Cade reciso il bello infame fiore.
Filippo Cencie con Messer Gintile
l’abbatte in su le selci. “O Grifon vile,
or tu griffa se puoi, vil traditore.„
5Portato è in piazza su la bara, ad ore
ventidue, come Astorre! Il grido ostile
tacesi a un tratto. Ecco la giovenile
madre china sul figlio che si muore.
Ecco Atalanta, la viola aulente,
10ecco Zenopia, la soave rosa,
più belle nell’orror della gramaglia.
Inondano di pianto il moriente.
E intorno alla bellezza dolorosa
sospeso arde il furor della battaglia.
VIII.
Ben è che dal tuo vertice selvaggio
tu guardi a valle il sacro fiume nostro,
maschia Peroscia che con l’ugne e il rostro
sì togli preda e vendichi l’oltraggio.
5Dalla Lupa il tuo Grifo ebbe il retaggio.
Sempre il tuo sangue splende come l’ostro.
Per dardo in torre e per flagello in chiostro
sanguina fiammeggiando il tuo coraggio.
O Turrena, città pontificale,
10grande arce guelfa, al Papa e a Dio ribelle,
ligia al Sole, devota all’Aquilone,
non odi su la porta comunale,
nell’irto bronzo contra l’evo imbelle,
l’urlo del Grifo e il rugghio del Leone?
IX.
Assisi, nella tua pace profonda
l’anima sempre intesa alle sue mire
non s’allentò; ma sol si finse l’ire
del Tescio quando il greto aspro s’inonda.
5Torcesi la riviera sitibonda
che è bianca del furor del suo sitire.
Come fiamme anelanti di salire,
sorgon gli ulivi dalla torta sponda.
A lungo biancheggiar vidi, nel fresco
10fiato della preghiera vesperale,
le tortuosità desiderose.
Anche vidi la carne di Francesco,
affocata dal dèmone carnale,
sanguinar su le spine delle rose.
spoleto
ghibellina dal Guelfo tuo nemico,
né la grandezza di Teodorico
che pensosa nel vespro vi s’attarda,
5non la Borgia onde par che tu riarda
subitamente del trionfo antico,
né dal vasto acquedotto all’erto vico
segno romano ed orma longobarda
cerco, ma ne’ silenzii dell’Assunta
10l’arca di Fra Filippo che dai marmi
pallidi esala spiriti d’amore
mentre nel muro pio la sua defunta
Vergine, sciolta dalla morte, parmi
piegar sul petto dell’Annunciatore.
gubbio
che asil di Muse il bel monte d’Urbino
fece, l’asprezza tua nell’Apennino
guerreggiato temprò con la sua grazia.
5Or tristo e spoglio il tuo Palagio spazia
tra l’azzurro dell’aere e del lino.
Ma ne’ tuoi bronzi arcani il tuo destino
resiste alla barbarie che ti strazia.
E, se teco non più ridon le carte
10di Oderisi cui Dante sotto il pondo
vide andar chino tra la lenta greggia,
l’argilla incorruttibile per l’arte
di Mastro Giorgio splende; e in tutto il mondo
l’alta tua nominanza ne rosseggia.
spello.
delle tue donne alzate in su la Porta
di Venere? La Dea che non è morta
l’arco nudo t’adorna di fioretti.
5E par che il pafio pargolo saetti
nel sol novo ai precordii con accorta
ferocia strali dell’antica sorta,
come solea negli élegi perfetti.
Non l’amico di Cynthia oggi sospira
10 dai prati d’asfodelo i suoi patemi
campi che Ottavio diede al veterano?
Nelle tue torri imitan quella lira
i caldi vènti, mentre negli Inferni
sogna l’Umbria il Callimaco romano.
montefalco.
giovenilmente in te le belle mura,
ebro d’amor per ogni creatura
viva, fratello al Sol, come Francesco.
5Dolce come sul poggio il melo e il pesco,
chiara come il Clitunno alla pianura,
di fiori e d’acqua era la sua pintura,
beata dal sorriso di Francesco.
E l’azzurro non désti anche al tuo biondo
10Melanzio, e il verde? Verde d’arboscelli,
azzurro di colline, per gli altari;
sicché par che l’istesso ciel rischiari
la tua campagna e nel tuo cor profondo
l’anima che t’ornarono i pennelli.
narni.
su l’arca il senatore Pietro Cesi,
tal dormi tu su’ massi tuoi scoscesi
intorno al tuo Palagio comunale.
5Sogni il buon Nerva in ostro imperiale?
o Giovanni tra gli odii in Roma accesi?
Io di secoli, d’acque e d’elci intesi
murmure che dal Nar fino a te sale.
E vidi su la tua Piazza Priora,
10ove muto anco dura il cittadino
orgoglio, alzarsi una grand’ombra armata:
grande a cavallo il tuo Gattamelata,
sempiterno in quel bronzo fiorentino
che gli invidian lo Sforza ed il Caldora.
todi.
l’Aquila ai tuoi natali e il rosso Marte
ti visitò, se il marzio ferro or parte
con la forza de’ buoi le acclivi zolle.
5Ebro de’ cieli Iacopone, il folle
di Cristo, urge ne’ cantici; in disparte
alla sua Madre Dolorosa l’arte
del Bramante serena il tempio estolle.
Ma passa, ombra d’amor su la tua fronte
10che infoscan gli evi, la figlia d’Almonte,
il fior degli Atti, Barbara la Bella.
E l’inno del Minor si rinnovella:
“Amor amor, lo cor sì me se spezza!
Amor amor, tramme a la tua bellezza!„
orvieto.
I.
fondati nel tuo tufo che strapiomba,
sul tuo Pozzo che s’apre come tomba,
sul tuo Forte che ha mozzi i torrioni,
5su le strade ove l’erba assorda i suoni,
su l’orbe case, ovunque par che incomba
la Morte, e che s’attenda oggi la tromba
delle carnali resurrezioni.
Gli angeli formidabili di Luca
10domani soffieran nell’oricalco
l’ardente spiro del torace aperto.
Stanno sotterra, ove non è che luca,
oggi i Vescovi e il gregge. Solo un falco
stride rotando su pel ciel deserto.
II.
Uman prodigio dell’artier da Siena,
nel ciel deserto il Duomo solitario
risplende come nel reliquiario
il Corporal sanguigno di Bolsena.
5Di grandezze la sua fulva ombra è piena,
piena di Dio, piena dell’Avversario.
O Angelico, Ugolin di Prete Ilario,
Gentile, il respir vostro odesi appena!
Sola il vòto dei marmi bianchi e neri
10occupa e turba la tremenda ambascia
dell’artier da Cortona, come un vento.
Ruggegli nel gran cor Dante Alighieri;
e però di sì dure carni ei fascia
il Dolore la Forza e lo Spavento.
III.
Sfolgorati procombono i Perduti,
salgon gli Eletti a ber l’alme rugiade;
e gli Arcangeli snudano le spade
mentre i Musici toccano i leuti.
5Ma i re spirtali degli inconosciuti
mondi, Empedocle che le vie dell’Ade
sforza, l’amor dell’api e delle biade
Vergilio che apre al Teucro i regni muti,
e l’Alighier grifagno che con ira
10in foco in sangue in fanghe in ghiacce inerti
i peccatori abbrucia attuffa asserra,
cantano all’Uomo un inno senza lira
dall’alto; e il Tosco ha due volumi aperti,
Libro del Cielo e Libro della Terra.