Edipo Coloneo (Sofocle - Giusti)/Atto quarto/Scena IV
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Atto quarto - Scena III | Atto quarto - Scena V | ► |
SCENA IV.
ANTIGONE ISMENE EDIPO.
poi POLINICE
antigone.
Ecco a noi vien, s’io non m’inganno, o padre,
Lo stranier tutto solo, e largo pianto
Versa dagli occhi.
edipo.
E chi a noi vien?
antigone.
Colui,
Che il cor ne prediceva. — Polinice,
L’ài presente.
polinice.
Oh me misero! oh! sorelle,
Che mai farò? Degg’io prima i miei mali
Piangere, o quelli di cotesto mio
Cadente genitor, ch’io quì ritrovo
Con voi gittato in peregrina terra;
E in tali avvolto sozze vestimenta,
Che infettano le membra: oime! sul capo
Degli occhi orbato l’arruffata chioma
Sparge il vento; e conforme alle sue spoglie
Del suo misero corpo è forse il vitto.
O me tristo! ma tardi or lo comprendo,
O me il più tristo de’ mortali! Io giuro,
Padre, ch’io vengo a custodir tua vita,
A far sì che mestier più non ti sia
Di stranio cibo. — Ma, se è ver che assisa
Presso il trono di Giove è la virtute
Moderatrice degli affetti, e lui
In ogni opra governa, ella te pure
Rattempri, o padre, perocchè si puote
Emendar ma non torre error commesso. —
Or perchè taci? Parla, o padre, e altrove
Non rivolger la faccia. Alcuna cosa
Dir dunque non mi vuoi? Dunque mi scacci
Disonorato oimè! senza parole,
Senz’aprir la cagion di tua tant’ira?
Voi sue figlie, e voi, mie care sorelle,
Deh! v’adoprate a intenerir l'austero
Genitor taciturno; ond’ei non lasci
Senz’alcun detto me partir, che il Nume
Invocai supplichevole.
antigone.
A che vieni?
Infelice! a che mai? Parla; sovente
Voce di gaudio di pietà, di sdegno
Qualche parola anco dai muti elice.
polinice.
Ben mi consigli. Dirò dunque, e prima
Aita chiederò dal Dio, la cui
Ara testè lasciai, quando Tesèo
Mi concesse il poter securamente
E parlar ed udir; di tanto or voglio
Voi, ospiti, e voi mie dolci sorelle,
E te, padre, pregar. — Padre, ora sappi
La cagion per che venni. Esule io sono
Dal patrio suol, perchè sul trono avito,
Come d’anni maggior, sedermi io volli.
Eteòcle minor del regno in bando
Cacciommi; nè già vince egli di dritto
O di valor, ma gli animi sovverte
De’ cittadini. E di tai mali, o padre,
Siccome già dai vaticinj appresi,
Solo accagiono il tuo fato nimico.
Quindi ad Argo venuto in mio soccorso
Trassi il suocero Adrasto, e collegati
Meco quanti la terra Apia nutrica
Valorosi nell’arme. Così, mosso
Con sette duci il formidabil campo
Davanti a Tebe, o morirò da forte,
Se il mio morir fia giusto, o i miei nemici
Sterminerò. — Tai cose a te racconte,
La cagione dirò che quì m’addusse.
Vengo, o padre, sommesso a supplicarti
Per me stesso, e pe’ miei compagni armati,
Che in sette schiere e sette campi tutta
Assiser Tebe. È primo Anfiarao
Primo in brandir la valid’asta, e primo
Degli Auguri. Secondo il grande Enìde
L’Etolio eroe Tideo; terzo Eteòclo
Argivo. Il quarto Ippomedonte: e a noi
Talao lo manda il genitor suo stesso.
Il quinto è Capanèo, che tutta in breve
Dai fondamenti riversar si vanta
Di Cadmo la città. L’Arcade fero
D’Atalanta figliuol Partenopèo
Vien sesto, e prese della madre il nome
Quand’ella di Partène il nome avea.
Io poi tuo figlio, e, se non tuo, per certo
Figlio della sventura, e tuo creduto,
Forte d’Argivi esercito raccolsi
Sotto il muro di Tebe. Or dunque noi
Te per queste tue figlie, e per la tua
Vita, o padre, preghiam supplici tutti
L’ira a depor che contro me ti accende,
A vendicarmi del fratel, che in bando
Mandommi, e della patria mi privò.
Che se l’oracol di credenza è degno,
La vittoria starà dalla tua schiera.
Quindi io te per le sacre urne de’ fonti,
E per gli nostri Iddii, padre, scongiuro
Di placarti, e venir. Chè noi pur siamo
Mendichi e peregrini; io poi costretto
Io sono, al par di te, prendere scarso
Vitto da mani forestiere. E intanto
L’usurpatore entro la reggia stassi
Me misero! in tripudio, ed impudente
Noi deride; ma io, se tu m’ascolti,
Lo punirò; e, lui cacciando, in trono
Te meco riporrò. Di tanto io posso,
Se tu lo vuoi, vantarmi. Ove tu il nieghi,
Io son perduto.
coro.
Vuolsi aver riguardo
Al Re, che di venir gli diè fidanza;
Dagli, qual vuoi, risposta; indi sen vada.
edipo.
Se Tesèo stesso, non avesse, o vecchi,
Quà mandato costui, giusto estimando,
Ch’egli udir debba le risposte mie,
Mai non avrebbe mai della mia voce
Inteso il suono. Ma, poichè pur degno
N’è riputato, ei cose udrà che lieta
Non gli faranno più la vita. — Or dimmi
Dimmi, o sceleratissimo, allor quando
Tu lo scettro stringevi a te rapito
Or dal fratello, non cacciasti il padre,
Non esule il facesti e nol forzasti
A portar queste lacerate sozze
Vestimenta, cui guardi ora piangendo,
Or che caduto se’ nell’infinita
Miseria mia? Ma piangere non giova,
Che, fin ch’io vivo, tollerar m’è forza
Queste pene, e nel cor portar sepolte
Tue colpe contro il Padre. E chi gittommi
Se non tu, parricida, in tanti affanni?
Esule per te son, per te vagante
In altrui terra vo di giorno in giorno
Accattando la vita. Chè, se queste
Mie nutrici figliuole io non avessi
Generato, per te, da lungo tempo
Morto sarei. Oneste ànno di me cura.
Queste mi danno nutrimento, e meco
Travagliansi, non già come fanciulle,
Ma virilmente. E, tu, con Eteòcle,
Sangue d’Edipo no non siete. — Or m’odi:
Vindice un Dio ti guata e ti sta sopra.
Assalteranno i congiurati campi
Tebe; ma nullo avrà vittoria; e tu
Cadrai bruttato del tuo proprio sangue;
E cadrà dopo te l'empio fratello. —
Contro voi già invocai le furie orrende,
Ed oggi pur le invoco, e le richiamo
In mio soccorso, onde per voi si apprenda
A riverire i genitori, e a scherno
Non aver, empj! il vostro cieco padre.
Non così adoperar queste fanciulle.
E quindi il trono e il tuo seggio terranno
Le orrende Erinni, se per legge antica,
E, come fama vuol, di Giove al soglio
Giustizia siede. Or vanne, o maledetto,
Senza padre: il peggior di tutti i mali,
E il mio imprecar sul tuo capo si avveri.
Non vincerai coll'asta la natìa
Terra, nè in Argo più farai ritorno.
Morrai trafitto dal fratello, e morte
Al fratello darai, ch’esul ti rese.
Son questi i voti miei. Possa il paterno
Del Tartaro ingojarti orrido bujo,
Possano queste Dee, possa il feroce
Marte, che tanti in petto odj vi accese,
Tosto far pieni i miei desiri. Udisti
La mia risposta? Or vanne, e a tutta Tebe
Annunzia, e a’ fidi collegati, quale
Edipo ai figli suoi retaggio lassa.
coro.
Del venir tuo mal posso, o Polinice,
Allegrarmi. Va dunque e presto.
polinice.
Oh mia
Fatal sciagura! Oh mal viaggio! Oh miei
Compagni! E questo sarà dunque il fine
A che d’Argo io qua mossi? Oh me infelice!
Egli è tal ch’io non oso a miei compagni
Svelarlo, nè ritrarmi; ma la sorte
Deggio muto soffrir. Sorelle e figlie
Di questo cieco voi, che il fero udiste
Suo maledir, per Giove, ah! non vogliate
Pietà negarmi. E, s’avverrà che effetto
Abbia quanto ei predice, e a voi si dia
La patria riveder, mi concedete
Onor di tomba e di funerea prece;
E, come laude avete or della vostra
FilìalFonte/commento: Pagina:Edipo Coloneo.djvu/163 caritade, anco maggiore
Laude v’avrete del pietoso ufficio
Che un fratello vi chiede.
antigone.
O Polinice,
Io ten prego m’ascolta.
polinice.
O mia diletta
Antigone, di’ pur.
antigone.
Rimena in Argo
Le squadre, nè voler perder te stesso
E Tebe.
polinice.
Chiedi un’impossibil cosa.
Vuoi forse ch’io, qual da timor compreso,
Lasci la guerra?
antigone.
E che potrà giovarti
L'ira, ed aver la tua patria disfatta?
polinice.
Turpe è il fuggire, e più l’esser deriso
Da fratello minore.
antigone.
I vaticini
Ricordati del padre. Egli predice
Morte ad entrambi.
polinice.
Sì io li rammento;
Ma ritrarmi non posso.
antigone.
O me meschina!
E chi te seguirà quando sien conti
I paterni presagi?
polinice.
Io tacerolli:
Casi avversi non narra accorto duce;
Parla solo de’ lieti.
antigone.
E tu se’ fermo
Nel tuo proposto?
polinice.
Il son; nè tu potrai
Far ch’io mi cangi. E, sia pure l’impresa
Di tanta guerra, pe’ tremendi augùri
Del Padre e delle furie, a me funesta,
Non io mi rimarrò per tanto. A voi
Pace il Nume conceda, se pietade
Avrete di me estinto; poichè vivo
Più sperarla non posso. Or mi lasciate,
E il ciel vi mostri ognor felici. Vivo
Me più non rivedrete.
antigone.
Ahi sventurata!
polinice.
Non pianger no.
antigone.
E chi non piangerebbe
Te, mio caro fratel, che a certa morte
Consapevole corri?
polinice.
Uopo è morire?
Si mora dunque.
antigone.
Non al tuo consiglio
Al mio deh! cedi.
polinice.
Non voler ch’io faccia
Quel che non lice.
antigone.
Ahi! quanto sarò misera
Se ti perdo, o fratello!
polinice.
In man de’ Numi
Son le sorti mortali; e i Numi io prego
Di far felici i vostri dì; chè l'ira
Voi non mertate dell’avverso fato.