Edgar Allan Pöe/La vita e le opere/V
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V.
Pöe, tanto nelle sue prose, quanto nelle sue poesie, ha sempre scelto temi melanconici. La sua vita avventurosa, la sua miseria, le sue sofferenze, eccitate dall’alcool, ed ingrandite anche più dallo spirito d’analisi, innato in lui, non potevano suggerirgli altro.
I suoi scritti non hanno una grande estensione, e si comprende! Componendo egli quasi sempre sotto l’impero di un’eccitazione nervosa, la cui durata non poteva essere prolungata al di là di un certo limite, l’eccitazione diveniva necessariamente la misura della inspirazione.
Le sue novelle hanno appunto la lunghezza bastante per agire sulla nostra immaginazione colla più grande intensità possibile, ed in esse l’emozione segue un crescendo così rapido, così continuo, che, nostro malgrado, ci troviamo costretti a seguire palpitanti, ad occhi sbarrati, senza riflettere, la fantasia dell’autore.
Con Pöe, nessun contrasto. Mai egli dipinse un carattere.
Un carattere, infatti, si compone d’una folla di elementi contraddittorii amalgamati e dominati da una facoltà più forte. Ora Edgardo Pöe non vede, non cerca che questa facoltà, il punto culminante dell’essere morale, ed una volta scopertolo vi si aggrappa convulsivamente. Egli elimina tutto il resto, e concerta sovr’esso la sua sorprendente, minuziosa analisi.
Così i suoi personaggi, più che creature viventi, sono veri e propri ossessi, tic nervosi vestiti da uomo, malati assorbiti dal loro male, o, meglio ancora, semplici casi patologici che agiscono e che ragionano.
Quasi tutti finiscono al delitto. Ma nel nostro autore il delitto non è mai la conseguenza della passione o dell’impeto; è il risultato necessario di una deformazione del cervello, di una depravazione del senso morale.
Leggete il Demone della perversità, il Gatto nero, il Barile d’amontillado, il Cuore rivelatore, William Wilson.
Lentamente calcolato, con un orribile sangue freddo, prodotto irresponsabile e pur volontario di uno stato particolare del delinquente, descritto, analizzato nei più minuti particolari, il delitto, quale ce lo dipinge lo scrittore americano, presenta uno spettacolo mostruoso e rivolta; si rimane atterriti di vedere la volontà al servizio della fatalità, la ragione al servizio della pazzia.
Compiuto poi il male, il delinquente prova un immenso sollievo; egli s’è sbarazzato, col suo atto, della terribile ossessione che gli turbava il cervello!...
Egli aveva le angosce della vertigine, subiva un pensiero terrorizzante che gli agghiacciava il midollo delle ossa, e lo penetrava delle feroci delizie del suo orrore.
Ha ceduto! il riposo incomincia: alla crisi nervosa succede la calma.
Nell’assassino di Pöe, una volta compiuto il delitto, non rimane più che l’artista fiero dell’abilità colla quale l’ha perpetrato.
In altri racconti, La lettera rubata, L’assassinio della via Morgue, Il Mistero di Maria Roget, Lo scarabeo d’oro, Hans Pfall non si scopre se non l’americano amante di trastullarsi colle difficoltà, se non il matematico divertentesi a risolver equazioni. Fatti possibili, particolari verosimili, della più grande realtà; un problema giudicato insolubile, complicato a piacimento, e poi trionfalmente svolto dall’analisi sola o da una serie di deduzioni logiche.
In altre novelle, Il re Peste, l’Hop Frog, La maschera e la morte rossa, non si saprebbe vedere che i sogni disordinati ed insani dell’ebbrezza diventata abitudine.
L’immaginazione in altre domina. Il poeta appoggiato sempre sul matematico, si lancia in ipotesi filosofiche e ci narra concezioni particolari sulla creazione e sull’altra vita.
Di queste è il Colloquio fra Monos ed Una. Assistiamo al dialogo di due anime dopo la morte.
Monos racconta, colle più minute particolarità, le sensazioni della tomba, la lenta trasformazione che si opera in compagnia dei vermi, tutto il passaggio dalla vita corporale all’altra vita che è detta la morte.
È sempre l’analisi esatta e precisa applicata al sogno. Pöe non crede alla brusca cessazione della vita. Per lui, finchè la forma persiste, una specie di esistenza latente dura ancora.
Quest’idea non poteva nascere che nel suo cervello. La vita nel seno della tomba aveva troppo di che attrarlo e questo tema conveniva meravigliosamente all’indole della sua immaginazione!
Non era dunque, sempre, l’agonia continua, insistente, la morte gustata, per anni ed anni, fra le tenebre e la putredine?
Quella è inoltre la tesi naturale e logica di una mente positiva, di uno spirito matematico che cerca fino all’ultimo la realtà e segue la vita finchè essa riveste una forma tangibile.
V’è poi un’altra specie di racconti in cui l’ispirazione, propriamente detta, del nostro autore non agisce che per una parte secondaria. Questi racconti si svolgono quasi tutti in fatti più o meno impossibili, presentati come realmente accaduti, e sono narrati con tanta serietà, con tale copia di particolari tecnici, che due di essi, La verità sul caso del signor Valdemar e La traversata dell’Atlantico in pallone, hanno, per qualche tempo, avuto il potere di ingannare il pubblico.
Ligeia, La rovina della Casa Usher, Il pozzo ed il Pendolo, Metzengerstein, Morella, Berenice sono, infine, la più alta espressione del genere Pöe.
Qui ci appare tutta la potenza di quella fissità dell’idea esclusiva di cui abbiamo parlato. Qui la malattia servita dall’analisi e dallo spirito matematico, esasperata dall’alcool, raggiunge il suo più alto grado e crea capolavori.
Le più acute sofferenze morali, i più raffinati tormenti fisici sono oggetto di finissimo studio. Sono pagine di psicologia dettate da un poeta.
Tutte le novelle di Edgardo Pöe sono brevi drammi senza azione.
Le Avventure di Arturo Gordon Pym non vi fanno eccezione.
L’autore ha voluto tentare un lungo romanzo d’avventure, un viaggio in mare; ma non ha potuto uscir fuori dalla cerchia delle sue preoccupazioni e delle sue visioni.
Anche qui sventurati sotterrati vivi, massacri, torture ed allucinazioni.
Se la sventura inspirava a Pöe il racconto lugubre, la novella terrorizzante, la concezione angosciosa, i rari periodi felici della sua vita davano al suo ingegno la facoltà di comporre anche scritti umoristici.
L’humour di Pöe può realmente dirsi di buona lega perchè scevro assolutamente (come, del resto, lo sono tutte le sue produzioni letterarie) di ogni impurità di concetti e di forma. La comicità vien fuori dall’analisi dei tipi creati, o dall’ambiente, o dal carattere dell’episodio stesso.
Così la Conversazione con una mummia, così l’Avventura a Gerusalemme, la Replica all’X, la Settimana delle tre domeniche, ecc., ed in fondo alla comicità v’è sempre un po’ di satira e molta filosofia.
In questo genere però, non molto usato dal nostro autore, Pöe, pure essendo del tutto originale ed abbastanza efficace, non raggiunge l’altezza delle altre sue dissimili produzioni.
Già si disse che Pöe fu critico profondo e competente e che la sua nervosità giungeva facilmente, e specie contro gli scribacchiatori ignoranti e presuntuosi, al sarcasmo; quasi all’ingiuria. È necessario aggiunger qui anche che, ad onta del suo grande acume e della vastissima sua erudizione (e forse anche a cagione di ciò), i suoi giudizi critici non furon sempre infallibili.
Soggettivista sempre ed impressionista, facile alle simpatie ed alle antipatie, egli non seppe, o non volle, come altri grandi critici (il Taine, il Guizot, il Carducci, il Bourget), rivivere negli altri.
Nell’analizzare le opere altrui non ha che un metodo: quello usato a comporre le proprie.
Quindi la violenza nella polemica, quindi l’accanimento morboso della discussione, anche quando l’opera o l’autore non meritavano che l’oblio.
Con certo anonimo che si firmava «Outis» giunse sino a personalità spiacevoli, discutendo lungamente se Longfellow era, o meno, un plagiario, e perdendosi poi in sottigliezze diffuse e talvolta triviali.
Di tale difetto risentono altre sue critiche sui Letterati di New-York e sulle Poetesse Americane, critiche che sollevarono intorno a Pöe un mondo di noie, di pettegolezzi e di contumelie.
Molto migliori sono invece:
L’Apologia del Macchiavelli «l’uomo dal pensiero profondo, dalla grande sagacità, dalla volontà indomita, senza rivali alla sua epoca per la conoscenza, se non del cuore umano, almeno del cuore italiano.» La recensione sul libro di Stephens, Incidenti di viaggio in Egitto, nell’Arabia Petrea ed in Terra Santa, ed un’altra grande quantità di studi, di polemiche, di osservazioni, di note, di articoli.
Il suo capolavoro nel genere è la predizione dello svolgimento e della conclusione del celebre romanzo del Dickens Barnaby Rudge, quando solo il principio della storia era stato pubblicato.
Da quello che appena era noto, Pöe aveva saputo, di induzione in induzione, ricostruire il lavoro di Dickens fino a divinarne la catastrofe finale.
I saggi poi sul Principio poetico, sulla Filosofia della composizione, sulla Criptografia, sulla Criptologia, sull’Antica poesia inglese, su Hood, su Shelley sono superbi e pieni di considerazioni profonde.
La penna di Pöe aveva orrore del convenzionale.
La dizione di queste sue opere, a seconda del tema, o strettamente scientifica o vagamente poetica, è sempre chiarissima, esatta; è l’induzione sempre piena di metodo e di logica, quantunque fuori d’ogni metodo conosciuto.
In tutto è l’arte, l’abilità prodigiosa di trarre da una proposizione evidente ed universalmente riconosciuta, vedute nuove e segrete; in tutte la parola che rapisce, che fa pensare, che fa sognare.