Edgar Allan Pöe/La vita e le opere/VI
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VI.
Le poesie di Pöe non sono molte, ma tutte d’una potenza suggestiva maravigliosa!
Non è, dice il Baudelaire, l’effusione ardente di Byron, la tristezza molle, armoniosa, distinta di Tennyson: è qualche cosa di profondo e di smagliante come il sogno e di perfetto come il cristallo.
In tutte egli ha cercato il superlativo; il superlativo della tristezza, della sonorità, della bellezza.
Chi sa sentire la poesia inglese può già gustare fin dalle prime composizioni giovanili di Pöe quell’accento extraterrestre, quella calma melanconica, quella solennità deliziosa che caratterizzerà più tardi ogni sua opera.
Niun poeta inglese ha cantato con maggior abbandono, con maggiore calore di Pöe, nessuno più di lui ha saputo trarre effetti più intensi dall’arte della parola, dalle combinazioni dei suoni e dei ritmi.
Per Pöe la poesia non è uno scopo, è una passione: è la creazione del bello pel puro amore del bello.
I suoi canti sono evocazioni, sono visioni, sono paradisi di profumi e di fiori, ricordi vaghi di vite anteriori, di plaghe lontane, O’Thaiti del sogno.
Ecco l’Addormentata, la bella morta, tutta candida sul letto di fiori, nella stanza strana, aperta ai misteri del plenilunio di giugno!
Ecco il cavaliere dell’Eldorado, l’eterno illuso che corre eternamente dietro un fantasma eternamente dileguantesi.
Ecco l’Eulalia dagli occhi di viola! Ecco Zante, l’isola dei giacinti, l’isola d’oro,
l’isola bella che dal più bel fiore
il più gentil di tutti i nomi ha tratto.
Ecco il giardino magico, le sognanti rose fra cui erra Elena...
Oh! a quei viali laggiù, in su quella mezza
notte di luglio non fu già un destino
arcano che mi trasse al tuo giardino
a respirar l’intima dolcezza
di quelle rose addormentate?
La Città sul mare sembra una visione apocalittica: è il regno della morte:
Ecco, la morte si è rizzato un trono
nell’ovest, in un’erema città
dove il povero, il ricco, il tristo, il buono
dormono il sonno dell’eternità.
Il Paese dei sogni, l’ultima Tule dove si giunge nel sonno...
per vie buie, dove a frotte
erran gli angeli del male
e un dimon che ha nome Notte
spia da un trono funerale,
è un paese fantastico dove il viatore, traverso un velo, può intravvedere ancora le ombre del passato.
Il Castello incantato è il simbolo della pazzia, il Verme conquistatore il simbolo della morte. La morte affascina sempre Pöe.
Ulalume come Annabel Lee, come Leonora sono Deprofundis sconsolati per un’amata perduta: in For Annie egli si immagina estinto e canta la tranquillità dalla bara poichè la febbre chiamata Vita è passata.
Persino nella Campane la nota funebre non manca ed il poeta dopo aver reso coll’arte mirabile di un contrappuntista il tintinnio dei sonagli delle slitte, e lo scampanio di una festa nuziale, fa tuonare a lugubri rintocchi le campane a martello e le campane da morto.
Oh! il rintocco ferreo e lento
della squilla funerale!
Che agonia!
che sottil malinconia
in quel ritmo sempre uguale!
Come a mezzo della notte
le campane così rotte
ci singhiozzano il memento!
E ogni voce che s’invola
dal metallo che hanno in gola
è un lamento!
Poesia singolarissima fra tutte, unica nel suo genere, è il Corvo. Poema misterioso, dice Baudelaire, che si svolge su una parola profonda e terribile come l’infinito, che mille labbra contratte hanno ripetuto ben mille volte: «mai più.»
È ben davvero quello il poema dell’insonnia e della disperazione! nulla vi manca, nè la violenza del colorito, nè la febbre delle idee, nè il ragionamento insano, nè il terrore dei vaneggiamenti, nè, persino, quella gaiezza bizzarra del dolore che lo rende anche più terribile.
L’arte di Pöe qui raggiunge il suo maximum. E tutti i suoi canti sono, così, fioriture inaudite, meravigliose di giardini superbi e malinconici, fantasmagorie di colori, nostalgie di crepuscoli, dove ogni essere ha un’anima, e le cose, le acque, le pietre, gli alberi, intendono, palpitano, vivono, hanno pensiero e sentimento.