Ecuba/Secondo episodio
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Giunge Taltibio.
taltibio
O fanciulle troiane, ove si trova
Ecuba, che regina un dí fu d’Ilio?
coro
Vicina a te, che al suol supina giace,
Taltibio, e tutta è nel suo peplo avvolta.
taltibio
O Giove, che dirò? Forse che tu
sopra gli uomini vegli? O che tal fama
tu godi a torto, e che soltanto il caso
guida gli eventi dei mortali tutti?
Dei ricchissimi Frigi un dí signora
non fu costei? Non fu del felicissimo
Priamo consorte? Ed or, sotto le lancie
cadde tutta la rocca, ed essa, vecchia
schiava, senza piú figli, a terra giace,
e insozza nella polve il capo misero.
Ahimè, ahimè! Vecchio sono io, ma pure
possa io morir, prima ch’io piombi in qualche
vituperoso affanno! Or sorgi, o misera,
solleva il fianco e il capo candidissimo.
ecuba
Ahimè, chi sei, che il corpo mio giacere
non lasci? A che la doglia mia riscuoti?
taltibio
Taltibio io son, ministro son dei Dànai;
e Agamènnone, o donna, a te mi manda.
ecuba
O carissimo! Giungi per uccidere
anche me su la tomba? Hanno deciso
questo gli Achei? Dolcissime parole!
Affrettiamo, corriamo! O vecchio, guidami.
taltibio
lo ti chiamo, io son qui, perché tu, donna,
la morta figlia seppellisca. Entrambi
gli Atridi, e gli Achei tutti qui m’inviano.
ecuba
Che dici, ahimè! Non per condurmi a morte
giungi, bensí per annunciar sciagure.
T’hanno strappata dalla madre, e t’hanno
uccisa, o figlia; ed io, per la tua parte
orba sono di figli. O me tapina!
E come a morte la poneste? Forse
con riverenza? Oppur con violenza,
quasi nemica l’uccideste, o vecchio?
Cose ingrate dirai: pure favella.
taltibio
Donna, tu vuoi che a doppio io versi lagrime
per la pietà della tua figlia: ch’ora
queste pupille bagnerò, narrandoti
quella sciagura, e piansi presso al tumulo
quando morí. Presente era la turba
dell’esercito acheo tutta, raccolta
al sepolcro dinanzi, ove immolata
cader dovea la tua fanciulla. E il figlio
d’Achille per la man prese, e recò
sul tumulo alto Polissena; ed io
gli ero vicino. E giovinetti illustri
seguían, prescelti fra gli Achivi, pronti
i sobbalzi a frenar della fanciulla.
E preso un aureo calice ricolmo,
il figliuolo d’Achille, a sommo il braccio
lo sollevò, per offerire al morto
padre le libagioni. E a me fe’ segno
che silenzio bandissi agli Achei tutti.
Ed io, sui pie’ sursi fra lor, gridai:
«Tacete, Achei, taccia la turba tutta,
state muti, silenzio!» — E nella turba
alito piú non corse. E quegli disse:
«O di Pelèo figliuolo, o padre mio,
queste libagïoni incantatrici
da me gradisci, che i defunti attraggono.
Vieni, ché tu l’immacolato negro
sangue possa libar di questa vergine,
che l’esercito ed io doniamo a te.
Sii benigno con noi, fa’ tu che sciogliere
possiam le poppe, l’ancore, le gómene,
e che torniam dal suol d’Ilio alla patria,
avendo in sorte un prospero ritorno».
Parlò cosí, tutto pregò l’esercito.
Per l’elsa indi impugnò l’aurëa spada,
dalla guaina fuor la trasse, e segno
fece ai prescelti degli Argivi che
prendesser la fanciulla. Ed essa, come
se ne avvide, cosí mosse la voce:
«Voi che la mia città struggeste, Argivi,
di buon grado io morrò: nessun mi tocchi,
senza tremar la mia gola offrirò:
libera, in nome degli Dei, lasciatemi
a morte andar, sí ch’io libera muoia:
onta sarebbe a me fra i morti schiava
essere chiamata: ché regina io sono».
Il popolo levò grida di plauso.
E Agamènnone, il sire, impose ai giovani
che la fanciulla libera lasciassero.
Ed essa, udito dei signori l’ordine,
al sommo della spalla il peplo prese,
e sino a mezzo il fianco lo strappò,
vicino all’umbilico; e il petto e il seno
bellissimi mostrò, come di statua.
Ed il ginocchio al suol chinato, disse
parole piene di coraggio. «Vedi,
se questo seno vuoi colpire, giovine,
colpiscilo: se vuoi questa mia gola,
ecco offerta la gola». Ed ei, volendo
e non volendo insiem, per la pietà
della fanciulla, del respiro infine
le vie recise con la spada; e rivoli
ne sgorgarono. Ed ella, anche morendo,
gran riguardo a cader compostamente
ebbe, e celò quanto celare agli occhi
degli uomini conviene. E poi ch’emise,
per la piaga mortal, l’ultimo anelito,
diverso ufficio ebbero ognun gli Argivi.
Alcuni d’essi, con le mani frondi
spargean sulla defunta: altri, recando
ceppi di pino, alzavano una pira,
e chi nulla recava, udia rampogne
da chi recava: «Te ne stai cosí
a mani vuote, o sciagurato, e peplo
non rechi, o fregio alcuno a questa giovine?
Nulla doni a costei, ch’ebbe magnanimo
spirito, e grande cuor?» Questo dicevano
della tua figlia morta. Onde a me tu
sembri la donna avventurata piú
d’ogni altra, pei tuoi figli, e la piú misera.
coro
Pei Priamídi e per la mia città.
il Destino divampa in doglie orribili.
ecuba
Ignoro a qual di tanti mal che premono
debba, o figlia, affissarmi. Ove all’un d’essi
m’appigli, un altro nol consente, e súbito
un nuovo affanno mi distoglie, e mali
fa succedere a mali. Ed or, non posso
cancellar dalla mente il tuo martirio,
cosí ch’io non lo pianga; eppur, la nobile
tua fin, vieta del duolo a me l’eccesso.
Strana cosa non è? Quando una terra
sterile, arrisa è dai favor del cielo,
colma la spiga germina, e la fertile,
defraudata dei favori debiti,
cattivo arreca il frutto, Invece il tristo
fra gli uomini, altro mai non è che tristo,
e il buono buono, e non corrompe l’indole
per le sciagure, e onesto ognor si serba.
E la causa qual n’è? Forse i parenti,
o l’educazion? Questa, se buona,
insegna il bene; e chi conosce il bene,
anche conosce il mal, ché lo misura
col modulo del bene. Ah, ma che invano
saetta l’arco di mia mente!
a Taltibio.
Or tu
muovi, e agli Argivi imponi ciò: che niuno
tocchi la mia figliuola, e che la folla
tengan lungi da lei. Ché non conosce
freno la turba d’un immenso esercito,
e piú trista del fuoco è la licenza
della gente di mare; e chi non fa
male, è un dappoco.
Taltibio esce.
Ecuba si rivolge ad un’ancella.
Or tu prendi una brocca,
o vecchia ancella, e attingi e porta qui
acqua di mar, ch’io la mia figlia, sposa
e non sposa, fanciulla e non fanciulla,
con gli estremi lavacri asperga, e come
n’è degna, esponga. Ahimè, come n’è degna
non posso: come mi sarà possibile.
Che devo far? Qualche ornamento ad una
delle captive chiederò, che stanno
dinanzi a queste tende, a me vicine,
se dalla propria casa alcuna ai nuovi
padroni alcuna cosa abbia sottratta.
O della reggia mia parvenza, o case
un dí felici, e tu che un giorno avevi
tante ricchezze e tante meraviglie,
e tanti figli, o Priamo; oh me di pargoli
antica madre, come ora piú nulla
non siamo, privi dell’antico orgoglio!
E c’è fra noi chi superbisce ancora,
questi perché chiude ricchezze in casa,
quegli perché segno d’onore è fatto
tra i cittadini. E tutto è nulla, e vani
gli accorgimenti, del pensiero, e i vanti
son della lingua. Il piú felice è l’uomo
che giunge senza alcun malanno a sera.
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