«O di Pelèo figliuolo, o padre mio,
queste libagïoni incantatrici
da me gradisci, che i defunti attraggono.
Vieni, ché tu l’immacolato negro
sangue possa libar di questa vergine,
che l’esercito ed io doniamo a te.
Sii benigno con noi, fa’ tu che sciogliere
possiam le poppe, l’ancore, le gómene,
e che torniam dal suol d’Ilio alla patria,
avendo in sorte un prospero ritorno».
Parlò cosí, tutto pregò l’esercito.
Per l’elsa indi impugnò l’aurëa spada,
dalla guaina fuor la trasse, e segno
fece ai prescelti degli Argivi che
prendesser la fanciulla. Ed essa, come
se ne avvide, cosí mosse la voce:
«Voi che la mia città struggeste, Argivi,
di buon grado io morrò: nessun mi tocchi,
senza tremar la mia gola offrirò:
libera, in nome degli Dei, lasciatemi
a morte andar, sí ch’io libera muoia:
onta sarebbe a me fra i morti schiava
essere chiamata: ché regina io sono».
Il popolo levò grida di plauso.
E Agamènnone, il sire, impose ai giovani
che la fanciulla libera lasciassero.
Ed essa, udito dei signori l’ordine,
al sommo della spalla il peplo prese,
e sino a mezzo il fianco lo strappò,
vicino all’umbilico; e il petto e il seno
bellissimi mostrò, come di statua.
Ed il ginocchio al suol chinato, disse
parole piene di coraggio. «Vedi,