Dracula/II
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CAPITOLO II.
Giornale di Jonathan Harker.
(Continuazione.)
5 maggio.
Il calesse si fermò ed il cocchiere m’aiutò a scendere; constatai che aveva un polso di acciaio. Prese i miei bagagli e li depose davanti ad una grande porta tarlata e con liste di ferro. Poi l’uomo risalì sul sedile, sferzò i cavalli e sparve dietro il castello. Aspettai. Nessuna traccia di campanello o di battente. Inutile chiamare; la mia voce non sarebbe penetrata attraverso quei muri massicci come quelli d’una fortezza. L’aspettativa mi parve lunga. Mille timori mi assalsero. In quale avventura m’ero imbarcato?
Non era una cosa banale per me, scrivanello di notaio, quel viaggio intrapreso per spiegare ad uno straniero in qual modo egli doveva trattare l’acquisto d’un possedimento in Inghilterra. Semplice scrivano, che dico? Mina protesterebbe indignata. Non avevo ottenuto pochi giorni prima della partenza il mio diploma di procuratore?
Mi sfregavo gli occhi e mi pizzicavo il braccio per essere sicuro di non sognare. Era un incubo certo e stavo per svegliami in casa mia, nella mia stanzetta di studente. Ma no!
Udii dietro la grande porta un rumore di passi pesanti. La chiave stridette nella serratura, l’enorme catenaccio venne tirato e la porta si aperse.
Davanti a me stava un vecchio dal mento accuratamente sbarbato e i lunghi baffi bianchi, vestito di nero da capo a piedi. Teneva in mano un’antica lampada d’argento e mi disse, accompagnando le parole con un gesto cortese:
— Siate il benvenuto in casa mia, signore.
Parlava nell’inglese più puro ma con una intonazione singolare.
Varcai la soglia ed egli mi prese bruscamente la mano. Trasalii al contatto gelido delle sue dita.
— Siate il benvenuto in casa mia — ripetè — entratevi liberamente, ripartitene sano e salvo e lasciatevi un po’ della gioia che vi portate.
Perchè ebbi in quel momento l’intuizione che forse il postiglione ed il mio interlocutore non facevano che una sola ed unica persona?
— Il conte Dràcula? — dissi salutando.
— Egli stesso, mister Harker. Entrate, vi prego, la notte è fresca e voi abbisognate di cibo e di riposo.
Depose la lampada entro una nicchia del muro e si caricò della mia valigia.
— Non permetterò — dissi, volendo prenderla.
— No, no, siete il mio ospite. Questa cura riguarda me, poichè i miei famigliari sono a letto.
Seguii il Conte lungo un corridoio, poi una scala di pietra, poi un secondo corridoio lastricato in capo al quale egli spinse una porta. Vidi con piacere una stanza ben rischiarata, una tavola servita per la cena e un gran fuoco di legna nel camino.
Il Conte richiuse la porta, attraversò la stanza e aperse una porticina che dava in una seconda stanza stretta e senza finestre dalla quale si accedeva ad una stanza grande e ben rischiarata:
un enorme fuoco di legna bruciava nel camino.
— Voi desiderate, io credo, fare un briciolo di toeletta. Vi lascio dunque — disse il mio ospite; quando sarete pronto, venite nella stanza attigua, troverete da cena.
Quell’accoglienza benevola dissipò i miei timori.
Mi accorsi d’avere una fame da lupo e sbrigai la mia toeletta. Il Conte mi aspettava nel locale attiguo.
— Mettetevi a tavola — disse — e scusate se non vi tengo compagnia. Ho già pranzato e non ceno mai.
Gli diedi la lettera che mister Hawkins m’aveva incaricato di consegnargli. La lesse gravemente e me la porse con un amabile sorriso.
Diedi con piacere un’occhiata agli elogi che il mio principale faceva di me:
«Mi duole che un attacco di gotta m’impedisca per qualche tempo di viaggiare. Ma sono lieto di potervi affermare che mister Harker mi sostituirà benissimo. Ho la massima fiducia in lui.
È energico e intelligente, discreto e silenzioso e vi darà tutte le informazioni e tutti i consigli da voi desiderati circa la questione che vi interessa.»
Il Conte stesso scoperse i piatti e fiutai non senza piacere l’odore di un eccellente pollo arrosto.
Un’insalata, del formaggio ed una bottiglia di vecchio Tokay completavano gradevolmente la mia cena, durante la quale il Conte mi interrogò sul mio viaggio. Quando fui satollo, ci insediammo accanto al fuoco ed accettai con riconoscenza il sigaro offertomi. Il Conte, da parte sua, si scusò di non fumare. Esaminai a bell’agio la sua fisionomia.
Aveva un naso aquilino, le narici assai dilatate, una gran fronte e una bella capigliatura che però si diradava sulle tempia. Aveva sopracciglia folte che si univano, una bocca crudele, e denti aguzzi che denotavano una straordinaria vitalità in un uomo della sua età. Il mento era marcato, le guance liscie. Ciò che maggiormente colpiva era il suo strano pallore.
Le mani pelose erano volgari, le dita allargate s’adornavano d’unghie lunghe e taglienti. A un dato momento si chinò verso di me e mi toccò col dito; non potei reprimere un brivido, nè dominare un senso di repulsione. Il Conte se n’accorse certo poichè si tirò indietro con un sorriso.
Seguì un breve silenzio.
Guardando verso la finestra, vidi che l’alba sorgeva. A un tratto, dalla valle salì il grido dei lupi. Gli occhi del Conte scintillarono.
— Ascoltate questa musica — disse con estasi.
Vide il mio stupore e aggiunse:
— Voialtri, cittadini, non potete capire le gioie dei cacciatori.
E, alzandosi: — Dovete essere stanco — disse — la vostra stanza vi aspetta. Alzatevi domani all’ora che vorrete, io sarò assente tutta la mattina.
Cortese, m’aperse egli stesso la porta della stanza.
Da quando sono solo, m’agitano i sentimenti più contraddittori; dubito, temo, tremo; mio malgrado provo presentimenti sinistri che non mi voglio confessare. Che il cielo mi protegga!
7 maggio.
Mi sono riposato bene in queste ultime ventiquattr’ore; mi svegliai tardi e non appena vestito mi recai nella stanza ove la vigilia avevo cenato.
Una piccola colazione mi aspettava, il caffè stava in caldo davanti al fuoco. Sulla tavola, c’era un biglietto con queste parole:
«Bisogna che m’assenti per alcune ore, non aspettatemi.»
Dopo il pasto, volli pregare il domestico di sparecchiare, ma non vidi nessun campanello.
È strana questa omissione: il Conte è così ricco!
Il vasellame è d’oro meravigliosamente cesellato, di un valore inestimabile: tende e tappezzerie sono in bellissima seta antica. (Ne vidi di simili ad Hampton Court). Ma non vidi specchi in nessuna stanza. Neppure sul mio tavolo da teletta.
Per farmi la barba ho dovuto servirmi dello specchietto del mio astuccio. Nessuna traccia di domestici.
Quand’ebbi finito questo pasto che non posso chiamare «la prima colazione» poich’era fra le cinque e le sei di sera, mi misi in cerca d’un libro. Apersi una porta e mi trovai in una biblioteca. Là, con mia grande gioia, scopersi una quantità di libri inglesi, di riviste e giornali rilegati. Sopra un tavolo, nel centro del locale, altre riviste inglesi ma molto antiche.
C’erano le opere più svariate riguardanti la politica, la storia, la geografia, la botanica, la geologia, il diritto inglese e fino il Bottin inglese.
Il Conte entrò in quel momento e amichevolmente m’augurò il buongiorno.
— Sono contento che abbiate scoperto la biblioteca, vi troverete di che interessarvi. Questi amici — disse posando la mano sopra i suoi vecchi libri — mi sono stati di grande aiuto. Attraverso loro, ho imparato a conoscere ed amare il vostro paese. Ma non parlo ancora correntemente la vostra lingua.
Protestai sinceramente.
— No, no — disse — a Londra vedrebbero bene che sono uno straniero, un boiardo! Spero che vorrete fermarvi qualche tempo con me affinchè io possa perfezionarmi nella lingua inglese prima di prendere possesso della terra che il vostro principale, Pietro Hawkins, m’ha ben voluto comperare nei dintorni di Londra.
— Volentierissimo.
Lo pregai d’autorizzarmi a venire qualche volta ad insediarmi in quella biblioteca.
— Potete circolare a piacer vostro nel castello, tranne, beninteso, là dove le porte sono chiuse a chiave. Siamo in Transilvania, sapete, e molte cose forse vi stupiranno — aggiunse vedendo la mia aria di meraviglia.
Incoraggiato dalla sua franchezza, gli chiesi il significalo delle fiamme turchine che avevamo scorto la vigilia, il postiglione ed io.
— Si pretende — disse — che la vigilia di San Giorgio una fiamma turchina appare nel punto in cui è sepolto un tesoro. Ora, è assolutamente certo che dei tesori sono sepolti nella regione. Per secoli e secoli, i Valacchi, i Sassoni e i Turchi combatterono su questo suolo volta a volta reso fertile dal sangue dei patrioti o degli invasori. Quando gli Austriaci e gli Ungheresi invasero il paese, il popolo si fece massacrare dopo aver sepolto tutte le sue ricchezze.
— Perchè dunque i paesani nella notte di San Giorgio non cercano questi tesori?
— Perchè sono tutti paurosi — disse il Conte con un sorriso crudele. — Si tappano in casa e non ne li fareste uscire nemmeno per un impero. Ma parlatemi piuttosto di Londra e della mia futura dimora.
Andai nella mia stanza alla ricerca delle carte e dalla porta rimasta aperta udii un rumore di stoviglie smosse. Quando tornai, vidi che la tavola era stata sparecchiata ed il fuoco acceso.
Le lampade rischiaravano ora la biblioteca ed il Conte, steso sopra un divano, sfogliava l’orario delle ferrovie inglesi. Stesi sul tavolo le mie carte e gli mostrai i piani e i preventivi. Le sue parole mi provarono che n’era al corrente al par di me. Gliene feci l’osservazione.
— Non è naturale? — disse. — Quando sarò laggiù, il mio amico Jonathan Harker non sarà più al mio fianco per darmi i ragguagli, poiché sarà a Exeter, vale a dire a parecchi chilometri di là, accanto al suo collega Pietro Hawkins.
Completai dunque le informazioni concernenti il suo nuovo dominio del Purfleet; egli mise le firme ed io, sotto la sua dettatura, scrissi l’ordine d’acquisto ad Hawkins.
— In qual modo avete scoperto quel possedimento? — mi chiese. — E com’è?
— Lo scopersi a caso. Durante un’escursione, un cartello «da vendere» attirò i miei sguardi. Il parco è circondato da un alto muro di pietre da intaglio non fu più curato da molti anni. Le porte sono di vecchia quercia e di ferro arrugginito. Il possedimento si chiama Carfax. Dev’essere una corruzione della parola «quattro-facce» poiché la casa è quadrata. Dei begli alberi molto vecchi oscurano i locali. Davanti al castello, c’è un laghetto donde parte un ruscello che serpeggia attraverso il dominio. La casa è grande e di parecchi stili: ha poche finestre e tutte munite di sbarre di ferro. Questo torrione confina con la cappella: è isolato nella campagna. La casa più vicina è un asilo d’alienati.
— Sono contentissimo che la casa sia antica — disse il Conte. — Appartengo a una vecchia famiglia, e mi vi sentirò più a bell’agio che in una casa nuova. E anche che vi sia una cappella; noialtri nobili transilvani non amiamo dormire il nostro ultimo sonno fra gli stranieri. Quanto alla tristezza, non mi fa paura, non sono più giovine, ahimè, e la gaiezza non è più della mia età.
Il suo viso non mi parve d’accordo con le parole e credetti di leggervi un sorriso satanico.
Poco dopo mi lasciò e sfogliai un atlante che s’aperse come a caso sulla carta d’Inghilterra. Curvandomi su questa carta, vidi che tre località erano state segnate con un piccolo circolo fatto ad inchiostro; erano, all’est di Londra, il suo nuovo possedimento, poi Exeter e Whitby sulla costa dell’Yorkshire.
Trascorse una mezz’ora prima del ritorno del Conte.
— Ah! — diss’egli — sempre immerso fra i libri, non bisogna che vi affatichiate. Venite, credo che la vostra cena vi aspetti.
Mi trascinò nella stanza accanto ove infatti alcuni piatti erano disposti sul tavolo.
Il Conte si scusò nuovamente; aveva pranzato fuori; ma, come la vigilia, mi sedette accanto e parlò mentre io mangiavo.
Come la vigilia, discorremmo tardissimo nella notte; il conte non si stancava d’interrogarmi sui soggetti più svariati; io non avevo sonno e non m’accorsi della fuga delle ore.
Il canto del gallo ci fece trasalire.
— Come — fece il conte alzandosi bruscamente — già l’alba! Mi serberete rancore per avervi carpito le ore del sonno! Ma mi destate tanto interesse!... Vi lascio riposare.
Così finì la mia seconda serata!
8 maggio.
Regna in questo castello una strana atmosfera. Vorrei esserne uscito o non mai esservi entrato. Senza dubbio questa esistenza notturna mi deprime; e non solo questo. Avessi almeno qualcuno con cui confidarmi. Ma non vedo che il Conte. E lui!... Sono forse l’unico essere vivente di questa casa. Voglio cercar d’analizzare le mie sensazioni. Sono perduto se mi lascio trasportare dalla mia immaginazione.
A malapena potei dormire alcune ore. Appesi il mio specchietto alla finestra e cominciavo a radermi quando una mano si posò sulla mia spalla.
— Buongiorno — disse la voce del Conte.
Trasalii, sgradevolmente sorpreso: come non l’avevo veduto entrare poiché il mio specchietto rifletteva tutta la stanza? Nella mia emozione mi feci un leggero taglio al mento. Salutai il Conte e ripresi la mia occupazione. Non c’era da sbagliarsi stavolta: il Conte benché fosse ancora dietro a me non si rispecchiava nel vetro.
Quell’incidente, che avveniva dopo tante cose insolite, accrebbe il malessere che provavo sempre alla presenza del mio ospite. Vidi allora che un po’ di sangue colava dalla leggera ferita e, deponendo il rasoio, stesi la mano verso una salvietta.
Lo sguardo del Conte scintillò d’un furore demoniaco. Che follia attraversò la sua mente? Mi si buttò addosso afferrandomi alla gola, le sue dita toccarono la piccola croce appesa al mio collo. Fu la virtù di questo oggetto sacro? Si calmò immediatamente.
— Badate — disse con voce dolce; — i tagli, in questo paese, sono più pericolosi che voi non pensiate.
Afferrò il mio specchio e disse:
— Questo pezzo di vetro è la causa di tutto, non voglio più vederlo.
Vivamente aprì la finestra e lo gettò nella corte ove si spezzò in mille frantumi.
Dopo questo scoppio uscì senz’aggiungere sillaba.
Sono molto contrariato da tale incidente. Come radermi, adesso? Non ho più che il coperchio del mio orologio o il mio piattello della barba che per fortuna è di metallo.
La mia prima colazione m’aspettava. Mi misi a tavola solo. È curioso ch’io non abbia ancora veduto il Conte a bere o a mangiare. Si nutre forse dell’aria del tempo? È un originale certo.
Ho esplorato poi il castello; dall’ala sud, si gode una vista meravigliosa. Il castello è a picco sopra un precipizio profondo, tappezzato d’alberi. Non descrivo il paesaggio perchè ho il cuore stretto. Ho visto una quantità di porte: son tutte chiuse a chiave.
Il castello è un vero torrione, ed io sono un prigioniero.