Dopo il divorzio/Parte seconda/Cap. XVI
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XVI.
La sera di luglio calava tranquilla come un gran velo azzurro.
Costantino stava seduto sulla panca di pietra addossata alla casa del pescatore, e contava sulle dita, pensieroso.
Sì, da sessantaquattro giorni egli era ritornato. Da sessantaquattro giorni. Pareva ieri; pareva un secolo. L’abito di fustagno di Costantino s’era logorato, il viso di lui s’era fatto scuro; ed anche il suo cuore, ecco, anche il suo cuore, di giorno in giorno, d’ora in ora, logoravasi corroso dal dolore, dal rancore, dalla passione, e facevasi scuro come una cosa vicina a corrompersi.
Dalla reclusione egli aveva portato con sè l’abitudine di fingere; non sapeva perchè, ma non riusciva a confidarsi con nessuno, mentre ne sentiva il bisogno; e la finzione che lo stringeva acerbamente accresceva il suo dolore. Un vuoto infinito e gelido lo circondava, come un mare calmo ma senza rive circonda un naufrago. Da due mesi egli nuotava in questo mare; ed ora era stanco, stremato di forze: la sua anima, per quanto guardasse intorno, nelle desolate lontananze, non scorgeva riva, non vedeva la fine della sua inutile lotta: e l’acqua fredda e il gorgo del vuoto lo inghiottivano lentamente.
Ogni giorno parlava di andarsene e non se ne andava mai. Era una finzione come tutte le altre; egli sentiva che non se ne sarebbe andato mai. Perchè andarsene? Al di là o al di qua del mare per lui la vita era la stessa cosa. Non amava nessuno, non odiava nessuno: gli pareva di esser diventato vile come lo erano coloro che aveva lasciato nel luogo di pena. Zio Isidoro, verso il quale aveva da lontano conservato un vivo affetto, ora da vicino, nella comunanza della vita quotidiana, gli riusciva indifferente e qualche volta molesto. Quando il vecchio stava lontano, occupato nelle sue pesche e nei suoi viaggi (perchè doveva viaggiare per spacciare i prodotti delle sue piccole industrie), Costantino si sentiva come liberato da un peso; la vigilanza paterna del vecchio lo irritava e lo intimoriva.
Quella sera il pescatore non stava in paese, e Costantino provava appunto quel senso di liberazione. Oh, ecco che poteva fare quello che gli pareva e piaceva, senza udir prediche da nessuno, senza provare quell’istinto di timore e di irritazione, forse rimastogli impresso dalla vita del reclusorio, e che la presenza del vecchio bastava a ridestargli.
Aspettava una donna. Gli sembrava di disprezzare le donne, e realmente provava disgusto a star loro vicino; ma aveva stretto relazione con una ragazza un po’ scema, che abitava poco discosto dalla casa di Giovanna, e che una notte, avendolo sorpreso vicino al portico dei Dejas, l’aveva attirato a casa sua.
Ella gli raccontava tutti i pettegolezzi di casa Dejas, ed egli andava da lei ogni volta che qualcuno lo scorgeva passare vicino alla spianata; oppure l’aspettava in casa di Isidoro, quando il vecchio stava assente; ma la disprezzava profondamente e le teneva dei discorsi strani.
Anche quella sera, quando ella venne, egli non si mosse dalla panca di pietra, e pretendeva che ella gli si sedesse vicino, al fresco.
— Dentro c’è caldo, ci son pulci, ragni, diavoli. Rimani qui, al fresco, — le disse, senza guardarla.
— Ma ci vedono! — ella rispose, con voce bassa e grossa.
— Ebbene, e se ci vedono? A me importa niente; ed a te che deve importare?
— M’importa assai, invece!
Egli alzò la voce.
— Che t’importa degli uomini, se essi ti vedono? Essi sono tutti peccatori. E Dio ci vede tanto dentro che fuori.
— Andiamo, tu hai bevuto! — ella disse senza alterarsi: ed entrò nella casetta. Accese il lume, guardò nel ripostiglio dei viveri, e siccome Costantino non entrava, si affacciò alla porta e disse:
— Se non vieni me ne vado. Bada ho da dirti una cosa.
Egli s’alzò di scatto, entrò e l’abbracciò: ella cominciò a ridere pazzamente, dicendo:
— Ah! Ah! Ecco che sei venuto... ah! Ti ho fatto venire subito, agnello scorticato! Ah! eh!... eh!...
Era alta, grossa, con una testa piccina piccina, un viso minuto, d’un bruno acceso, e la bocca rossa e gli occhi glauchi; non brutta eppure ripugnante. Non beveva mai, ma sembrava sempre ubriaca ed aveva la fissazione che tutti lo fossero. Continuò a ridere, e tornò a guardare nel ripostiglio.
— Non c’è niente, disse, proprio niente. Io ho fame, sai?
— Se aspetti un momento, vado a prendere qualche cosa. Ma prima bisogna che tu mi dica...
Ella gli si rivolse contro, e cominciò a spingerlo mettendogli una mano sul petto, e con l’altra dandogli dei pugni tutt’altro che scherzosi.
— Ah, tu vuoi sapere... oh, coccodrillo, tu vuoi sapere?... Perciò sei entrato subito? Va, ritorna al fresco, agnello magro! Tu vuoi sapere? Tu credi si tratti di Giovanna Era, eh? e sei entrato per ciò, non sei entrato per me!...
— Lasciami, — egli disse, prendendole la mano. — Tu picchi forte, che il diavolo ti picchi. Sì, sono entrato per ciò. Ebbene?
— Ed io non ti dico nulla, ecco!
— Mattea, non farmi adirare! — egli disse, con voce dolce. — Tu non sei cattiva. Ora vado... vado e compro quello che tu vuoi: cosa vuoi che compri? Che cosa?
Egli sembrava un bambino che si finge buono per ottenere ciò che desidera. Ed in quel momento desiderava acremente qualche cosa di acerbo, di crudele: desiderava la notizia che Brontu avesse bastonato Giovanna, o che ella si fosse fatto un male qualunque, o che una gravissima disgrazia fosse accaduta in casa Dejas. Rimase quindi poco contento quando Mattea gli disse, socchiudendo un occhio:
— Hanno loro rubato del bestiame; appena seppe la disgrazia, la vecchia è partita come una pazza per accertarsi del danno. Passerà la notte nell’ovile, e tua moglie è sola, comprendi, sola.
— Che m’importa? — egli disse.
— Stupido, tu puoi andare da lei: tu non andrai dunque? Io son venuta per dirtelo. Va, mi fa piacere, perchè ho pietà di te... Dopo tutto tu sei suo marito.
— Io non sono marito di nessuno, — egli disse alzando le spalle. — Ah, credevo avessi da dirmi tutt’altro! Dunque, cosa vuoi che compri? Fave, latte, lardo, ciliegie?...
— Sposa dunque me, se non sei marito di nessuno, — disse Mattea con la sua voce bassa, grossa e incerta da ubriaca.
Costantino raschiò e sputò.
Gli occhi di lei, di solito vaghi e stupidi, ebbero un lampo di intelligenza: la sua fronte bassissima si corrugò.
— Perchè sputi? — chiese con voce aspra. — Ella è forse migliore di me?
Egli arrossì; poi un velo di tristezza gli calò sul cuore.
— Tu, — disse — tu sei peggiore o migliore di lei.
— Come?
— Se in questo momento non mentisci, se non sei venuta per tendermi un’insidia col dirmi che ella è sola, sei migliore di lei.
— Perchè dovrei tenderti un’insidia? Io ho pietà di te. Ti giuro sopra la memoria dei miei morti che se tu vai da lei, stasera, non corri alcun pericolo.
— Chi vi può credere, femmine? Voi non rispettate neppure i morti.
Mattea accennò di andarsene, offesa ed irritata: egli la rattenne.
— Il cane vile! — disse lei con disprezzo. — Io ho pietà di te, e tu mi frusti. Che hai tu da rimproverarmi? Che cosa, dunque?
Sollevò la testa con fierezza, mostrando la fronte corrugata, e guardando Costantino con occhi limpidi, nuovamente pieni d’intelligenza. Egli la guardò, sbalordito che una simile donna parlasse così, che sollevasse la fronte, che osasse guardarlo in quel modo: poi si mise a ridere.
— Io vado, ora, — ripetè, — vado e torno subito. Prendo anche del vino, sebbene tu non beva. Aspettami. As-pet-ta-mi! — le impose brutalmente, vedendo che ella lo seguiva. — Non mi seccare.
Ella si fermò dietro la porta; egli uscì, ma aveva fatto pochi passi quando sentì la voce grossa di lei richiamarlo.
Tornò indietro fino alla porta socchiusa, nel cui spiraglio illuminato si vedeva il naso di Mattea ed uno dei suoi occhi ridiventati stupidi.
— Che vuoi, capra guercia?
— Se tu vai da lei è inutile farmi aspettare qui.
— Al diavolo chi ti ha fatto! — imprecò Costantino con voce sincera. — Io penso d’andar da lei quanto tu pensi d’andare in chiesa. Aspetta! Aspetta! — gridò poi stendendo la mano per afferrarle e tirarle il naso. Ma ella ritirò rapidamente il viso e chiuse la porta.
Costantino rientrò dieci minuti dopo, ma non trovò più la strana ragazza. Credette si fosse nascosta fuori e la cercò, chiamandola a bassa voce, dicendole che aveva comprato del pane e carne e frutta, ma s’accorse che ella se n’era andata. Un gran silenzio regnava intorno alla casetta: nella notte calata, completamente solo, le foglie nere del fico frusciavano misteriosamente sullo sfondo incolore dell’aria: parevano di stoffa metallica, scosse da una mano invisibile. Null’altro s’udiva e null’altro che le stelle vivissime scorgevansi distintamente nella notte calda.
Costantino si sentì molto contrariato per la sparizione di Mattea. Solo come un cane, che poteva fare per il resto della sera? Non aveva sonno, tanto più che nel pomeriggio aveva lungamente dormito; e non sapeva dove andare.
Si mise a mangiare ed a bere, e di tanto in tanto parlava con voce alta e dispettosa.
— Se ella crede che io vada da lei sta fresca.
Silenzio. Poi:
— Fresca come una rosa in primavera. È pazza, lei!
Ancora silenzio. Poi:
— Nè dall’una nè dall’altra. Mi fa schifo Mattea. Mi dà l’idea che sia una bestia. Ecco tutto.
Poi imprecò. Poi rise, di quel riso lieve e vago che si ride quando si è soli.
Intanto beveva a lunghi sorsi; ed ogni volta che finiva il bicchiere scoccava le labbra, esclamava — aaah! — e si passava più volte le mani sul petto, accennando il delizioso calare interno del vino. Dopo si sentì quasi allegro.
— Che essa vada all’inferno. Che essa vada al diavolo.
Così diceva di tanto in tanto, pensando a Mattea ed alla sua capricciosa sparizione; ma intanto s’accorgeva di pensar dispettosamente a lei per non pensare all’altra. Poi, uscito fuori e sdraiatosi sulla panca di pietra, s’abbandonò un po’ ai suoi pensieri.
— Ella è sola, — pensava. — Ebbene, cosa mi importa? Io la disprezzo, e non andrei da lei anche se ella mi desse una cassa piena d’oro. Che ho da farmene dell’oro?
Egli si fece questa domanda con profonda tristezza; ma subito dopo si mise a canticchiare perchè gli avveniva una cosa che del resto gli accadeva spesso: fingeva con sè stesso, come fingeva con gli altri.
«Choricheddu, core amatu, |
Per un po’ la sua voce monotona e piana lo distrasse; ma poi i suoi pensieri ripresero il loro corso.
— Se io andassi là, ebbene, che accadrebbe? Un peccato, forse? Non sono io suo marito? Ma io non penso d’andarci. Macchè! Mi fa ridere zio Isidoro, il vecchio stupido. — Vattene! Vattene! Vattene! (Imitava fra sè la voce sonora del vecchio). — Vattene, altrimenti succede un guaio. Brontu Dejas vi potrebbe ammazzare o far mettere in carcere. — Ebbene, e poi?
Tornò a canticchiare: il fruscio delle foglie del fico, aspro come di vecchie lamine di ferro, accompagnava la sua voce piana e monotona.
«Cando as a bider sa ua |
Egli cambiò posizione, chiuse le palpebre pesanti; la sua testa dondolava alquanto sulla palma della mano che la sosteneva.
— Ebbene, e poi? — disse a voce alta. Spalancò gli occhi come spaventato dalla sua voce, li richiuse, parlò dolcemente fra sè: — No. Io non la vorrei più con me, come moglie. Per me ella è una donna perduta: ella è stata con un altro uomo e come è stata con lui può tornare a star con me e può andare a star con altri. Ella è come Mattea: io le sputo entrambe.
Riaprì gli occhi e sputò davvero, tanto era il disprezzo che in quel momento sentiva per Giovanna. Eppure, contemporaneamente, ricordi teneri e lontani gli passarono per la mente. Ricordò un bacio che aveva dato a sua moglie, un giorno, mentre ella dormiva: ed ella aveva aperto gli occhi, un po’ spaventata, ed aveva detto: Credevo fosse un altro!
Ebbene, che sciocchezze andava egli ricordandosi? Era uno stupido, null’altro che uno stupido. D’altronde sapeva egli se Giovanna, caso mai egli andasse da lei, lo accogliesse o lo respingesse?
Ecco, egli non era un uomo evoluto, un’anima civile; ma in quel momento egli pensò e sentì come il più intelligente degli uomini. Desiderò che ella non lo accogliesse. Sentì che egli doveva vivere e soffrire ancora, ma che, se egli andava ed ella non lo accoglieva, forse un raggio di luce sarebbe ancora sceso nel vuoto gelido che lo circondava. Eppure egli la voleva, la desiderava ancora: dal giorno che gli era mancata, tutto il suo essere dolorava come un membro che siasi storto e spasimi, ma che viva e debba vivere ancora; però nel suo desiderio soffiava qualche cosa di spirituale, l’istinto dell’anima immortale che non si spegne neppure negli uomini più degradati. Egli sognava ancora una Giovanna onesta, perduta per sempre in questa vita terrena, ma riservata a lui nella vita eterna. Ora se ella tradiva anche il secondo marito, sia pure col primo, non era onesta. Così pensava Costantino, eppure...
Potevano esser le dieci ed egli stava da circa mezz’ora sdraiato sulla panchetta, quando un suono melanconico passò per l’aria. Era il giovine cieco che in lontananza suonava l’organetto, accompagnando una voce sonora ma monotona e triste come il canto d’un morto svegliatosi nella notte. Una nostalgia sovrumana, come quella che appunto devono provare i morti ricordando le poche ore felici della loro vita, piangeva nel canto e nel suono: sopratutto nel suono che ansava e gemeva e chiedeva la luce, la gioia, la felicità, le cose tutte che il cieco intravede e non giungerà mai a vedere, che il morto ha lasciato e non ritroverà giammai.
Costantino rabbrividì e si alzò.
Il canto ed il suono passarono, dileguarono lontani, più lontani ancora, cessarono.
Costantino sentì un’onda di tenerezza e di angoscia coprirgli il cuore. Nel buio, nel silenzio infinito e nella solitudine immensa che lo circondavano, sentì il bisogno prepotente del cieco che vuole la luce; la nostalgia del morto che ricorda la vita. E s’avviò.
Sul principio gli parve di camminare in sogno, sebbene udisse distintamente sotto i piedi il crepitìo delle foglie secche e della stoppia che il vento aveva adunato intorno alla casetta di Isidoro. Fregandosi le palpebre gli sembrò scorgere piccoli cerchi violetti, elettrici, volteggiare e svanire nell’aria; ma subito dopo gli occhi abituati al buio videro la linea chiara dello stradale, le casette nere, lo sfondo vuoto dell’orizzonte, ove le stelle oscillavano come goccie d’oro pronte a cadere. Avviandosi per lo stradale egli sapeva già dove precisamente voleva andare, e non esitò un momento solo.
Qua e là, sulle soglie delle casette dove la povertà non permetteva s’accendesse il lume, stavano gruppi di persone sedute a godersi il fresco. Qualche voce stridula di donna fendeva il silenzio, narrando piccole storie, pettegolezzi, miserie. In un angolo deserto Costantino scorse due figure d’innamorati; all’udire dei passi l’uomo cercò nasconder la donna, e questa volse la faccia verso il muro.
Costantino passò oltre, ma fatti una trentina di passi si volse e per spaventare i due giovani fu per gridare:
— Ora vado a dirlo a tuo padre!
Ma ebbe paura di gridare, di farsi conoscere, e andò oltre.
Quando distinse la massa nera del mandorlo affacciata sullo stradale, al di là della casa di zia Bachisia, il cuore gli si agitò un po’ convulso, sembrandogli di scorgere una gran testa nera dai capelli selvaggi, intenta ad attenderlo ed a spiarlo in lontananza.
Egli era deciso di andar oltre, di attraversare lo spiazzo, penetrare nella casa dei Dejas, veder Giovanna: tutto ciò gli sembrava facile, ed egli si sentiva preparato a tutto, eppure aveva paura. Più che paura terrore. Udì una voce flebile di ragazza dire lentamente: — Per quanto tu dica non è vero...
Guardò attorno e non vide nessuno; andò oltre, ma ad ogni passo la sua ansia aumentava. Attraversando lo spiazzo guardò la casetta di zia Bachisia, poi la casa bianca, poi la casupola di Mattea. Il finestruolo di quest’ultima abitazione era illuminato: tutto il resto buio. Pensò ancora una volta che Mattea potesse averlo ingannato, o che zia Bachisia fosse presso Giovanna, o che costei dormisse già o non aprisse; ma senza esitare penetrò sotto il portico. E subito distinse la figura di Giovanna seduta sul gradino della porta.
Anch’essa riconobbe subito Costantino e balzò in piedi, rigida di terrore; ma la voce cauta e commossa di lui la rassicurò.
— Non aver paura. Sei sola?
— Sì.
Un secondo dopo si trovarono abbracciati.
FINE.