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Potevano esser le dieci ed egli stava da circa mezz’ora sdraiato sulla panchetta, quando un suono melanconico passò per l’aria. Era il giovine cieco che in lontananza suonava l’organetto, accompagnando una voce sonora ma monotona e triste come il canto d’un morto svegliatosi nella notte. Una nostalgia sovrumana, come quella che appunto devono provare i morti ricordando le poche ore felici della loro vita, piangeva nel canto e nel suono: sopratutto nel suono che ansava e gemeva e chiedeva la luce, la gioia, la felicità, le cose tutte che il cieco intravede e non giungerà mai a vedere, che il morto ha lasciato e non ritroverà giammai.

Costantino rabbrividì e si alzò.

Il canto ed il suono passarono, dileguarono lontani, più lontani ancora, cessarono.

Costantino sentì un’onda di tenerezza e di angoscia coprirgli il cuore. Nel buio, nel silenzio infinito e nella solitudine immensa che lo circondavano, sentì il bisogno prepotente del cieco che vuole la luce; la nostalgia del morto che ricorda la vita. E s’avviò.

Sul principio gli parve di camminare in sogno, sebbene udisse distintamente sotto i piedi il crepitìo delle foglie secche e della stoppia che il vento aveva adunato intorno alla casetta di Isidoro. Fregandosi le palpebre gli sembrò scorgere piccoli cerchi violetti, elettrici, volteggiare e svanire nell’aria; ma subito dopo gli occhi abituati al buio videro la linea chiara dello stradale, le casette nere, lo sfondo vuoto dell’orizzonte, ove le stelle oscillavano come goccie d’oro pronte a cadere. Avviandosi per lo stradale