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— Se tu vai da lei è inutile farmi aspettare qui.
— Al diavolo chi ti ha fatto! — imprecò Costantino con voce sincera. — Io penso d’andar da lei quanto tu pensi d’andare in chiesa. Aspetta! Aspetta! — gridò poi stendendo la mano per afferrarle e tirarle il naso. Ma ella ritirò rapidamente il viso e chiuse la porta.
Costantino rientrò dieci minuti dopo, ma non trovò più la strana ragazza. Credette si fosse nascosta fuori e la cercò, chiamandola a bassa voce, dicendole che aveva comprato del pane e carne e frutta, ma s’accorse che ella se n’era andata. Un gran silenzio regnava intorno alla casetta: nella notte calata, completamente solo, le foglie nere del fico frusciavano misteriosamente sullo sfondo incolore dell’aria: parevano di stoffa metallica, scosse da una mano invisibile. Null’altro s’udiva e null’altro che le stelle vivissime scorgevansi distintamente nella notte calda.
Costantino si sentì molto contrariato per la sparizione di Mattea. Solo come un cane, che poteva fare per il resto della sera? Non aveva sonno, tanto più che nel pomeriggio aveva lungamente dormito; e non sapeva dove andare.
Si mise a mangiare ed a bere, e di tanto in tanto parlava con voce alta e dispettosa.
— Se ella crede che io vada da lei sta fresca.
Silenzio. Poi:
— Fresca come una rosa in primavera. È pazza, lei!
Ancora silenzio. Poi:
— Nè dall’una nè dall’altra. Mi fa schifo Mattea. Mi dà l’idea che sia una bestia. Ecco tutto.