Dopo il divorzio/Parte seconda/Cap. XII

Cap. XII

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XII.

L’indomani verso le dieci cominciarono in chiesa le funzioni religiose. Cominciavano così tardi perchè s’era dovuto aspettare l’arrivo di un giovine sacerdote nuorese, amico di prete Elias, che veniva per fare, gratis, un panegirico al popolo di Orlei. Questo panegirico costituiva un grande avvenimento: quindi alle dieci la chiesetta era già gremita di folla variopinta. Già la chiesa per sè stessa vibrava dei più vivi colori: fascie d’un turchino stridente solcavano le pareti rosee; il pulpito era in legno giallo, i santi, dalle nicchie rosee, splendevano biondi e rossi come santi teutonici. Soltanto San Costantino, il santo Protettore, vestito da guerriero, aveva un viso bruno e severo; e nel paese esisteva la leggenda che quest’antica statua, alla quale si attribuivano dei miracoli, era stata scolpita da San Nicodemo.

Dalla porta spalancata su uno sfondo d’azzurro abbagliante penetrava un torrente di luce violenta che passava sulla folla inondandola di pulviscolo luminoso. In fondo l’altare restava quasi buio, nonostante un’M di ceri ardenti, le cui fiammelle immobili parevano freccie d’oro sorgenti da bastoni di legno bianco. Prete Elias celebrava la messa; ed il [p. 180 modifica] il suo piccolo amico, in camice di merletto, e con un visetto bruno da bambino furbo, cantava a gola spiegata. Il popolo si meravigliava che il piccolo prete cantasse pur dovendo far la predica; molti erano venuti apposta per sentirlo, e tutti, poi, a dir la verità, ascoltavano la messa con poca divozione, chiacchierando e guardandosi curiosamente a vicenda. Bisogna però aggiungere che un caldo soffocante e innumerevoli invisibili insetti molestavano la folla. Ad un tratto prete Elias, dopo aver cantato il Vangelo, volse al popolo il viso pallido e tranquillo, e le sue labbra si mossero.

Giusto in quel momento apparve sull’azzurro fiammante della porta la figura di Giacobbe Dejas. Il suo viso satirico aveva un’aria trionfante.

Vedendo che il sacerdote parlava, il servo si fermò sul limitare della porta, con la lunga berretta nera fra le mani; ma non udì niente. Allora si avanzò e domandò a bassa voce ad un vecchio dalla barba gialla:

— Cosa ha detto?

— Io non ho sentito, — rispose il vecchio irritato. — Fanno chiasso come si trovassero in piazza.

Un giovine, roseo, dai capelli neri dritti e dal naso greco, si volse, guardò Giacobbe, e vedendolo vestito a nuovo, pulito, trionfante, sorrise malignamente.

— Ecco, — disse, — credo che prete Elias abbia detto che l’altro prete ora fa il panegirico.

— L’hai sentito tu? — chiese il vecchio irritato.

— Io non ho udito niente. [p. 181 modifica]

Giacobbe andò avanti, ficcandosi fra gli uomini, che si voltavano a guardarlo. Improvvisamente un gran silenzio si fece nella folla: gli uomini si ritirarono verso le pareti; le donne sedettero per terra. E nel mezzo della chiesa, nel fiume di luce perlata che la attraversava, apparve una specie di letto di legno azzurro, vigilato da quattro angioletti rosei con le ali verdi che parevano quattro farfalle. Entro questo letto, sopra cuscini di broccato, posava distesa una piccola Madonna con gli occhi chiusi. Anelli d’oro, orecchini e collane brillavano sul suo vestito di raso bianco. Era l’Assunta.

Sul pulpito apparve il visetto bronzino e furbo del piccolo prete. Giacobbe Dejas lo guardò fisso, poi si volse di fianco, parando l’orecchio destro per sentir meglio.

— Abitanti di Orlei, fratelli e sorelle, — disse una voce infantile ma sonora, — chiamato a farvi un piccolo discorso in questo giorno solenne, io...

A Giacobbe piacque questo esordio, ma siccome ci sentiva benissimo anche senza parar l’orecchio, tornò a voltarsi e cominciò a esaminar la gente ed a parlare fra sè, pur non perdendo una parola della predica.

— Ecco là Isidoro Pane; che il diavolo gli tiri le orecchie, è vestito di nuovo anche lui. Che pensi ad ammogliarsi anch’egli? Eh, oh! Quel giovinetto rosso, là in fondo, ha riso di me, vedendomi allegro e vestito di nuovo, perchè si dice che io voglia prender moglie. Ebbene, e se la voglio prendere? Che vi importa, cani rognosi? Non la posso prendere? Ho [p. 182 modifica] una casa, ora, e del bestiame1. Ed anche voi avete del bestiame, ma soltanto in testa. Eh, eh! Mia sorella morrà senza eredi, che Dio la benedica, eccola là; è piccola e rosea e lucente come una pupattola. Chi direbbe che è più vecchia di me? Essa vuole che io mi ammogli. Sta benissimo, mi ammoglierò; ma con chi? Io sono di difficile contentatura; eppoi ho paura. Ho paura, ho paura, con questa nuova legge; che il diavolo vi scortichi, uomini della giustizia, chi oramai si può più fidare nel mondo? — Ecco là il mio giovine padrone, eccolo là, col suo viso di peccato mortale. Che viene a fare qui? Perchè non lo bastonano? Perchè non lo cacciano via come un cane? Ed anche quell’uccello rapace di sua madre, la vecchia cavalla, è lì, è lì! Perchè non li cacciano via?

« — Ah, — pensò poi, — è giusto; se si dovessero cacciar via tutti coloro che hanno peccato, la chiesa resterebbe vuota. Ma quelli lì! Ah, quelli lì! Io li odio, io li bastonerei a sangue. Eppure io non sono cattivo, ecco, oggi son tornato tardi perchè prima ho riparato i danni che l’acquazzone di ieri sera ha recato all’ovile. Poi son tornato: trovo Giovanna che prepara il pranzo: è sporca, sofferente, melanconica. Per lei non c’è festa. Madre e figlio sono usciti: ella, la serva, rimane in casa e lavora. Ben ti sta, crepa, donna perduta! Eppure mi fa pietà quella donna, ecco, che Dio mi assista, mi fa pietà. [p. 183 modifica] Io le ho detto delle male parole: ella non rispose. Eppure, dopo tutto, ella è la padrona ed io il servo. Uccellino di primavera, che colpa ne ho io se ti insulto? Non ti posso vedere, eppure mi fai pietà, ecco tutto. Oh, ascoltiamo ciò che predica questo prete che sembra un passero. Sì, un passero che canta sul nido, eccolo là».

— Fratelli, sorelle carissimi, — con quel molle dialetto logudorese che somiglia allo spagnuolo, diceva il giovinetto sacerdote agitando le piccole mani pallide, — la fede in Nostra Signora è la più sublime ed ideale delle fedi. Ella, la soavissima donna, figlia, sposa e madre di Nostro Signore, salì al cielo, radiosa e fragrante come nuvola di rosa, e siede gloriosa fra gli angeli e i serafini...

— Ecco là prete Elias, — pensava Giacobbe, volgendo verso l’altare i suoi occhietti obliqui che nella luminosità della chiesetta parevano di metallo, — eccolo là con le mani giunte, eccolo là quel prete di latte cagliato. Egli non sa far altro che predicar la bontà; eppure egli possiede i libri sacri e potrebbe fulminare la gente. Ah, se egli avesse minacciato Giovanna Era! Pare che egli sogni, ora...

— ... nessuno mai disse di non aver ottenuto la grazia chiesta con vera fede a Nostra Signora Santissima. Ella, il giglio delle valli, la mistica rosa di Gerico... — proseguiva il piccolo predicatore, ritto sul pulpito giallo.

Ma la gente cominciava a stancarsi; le donne, raccolte per terra come ranuncoli e papaveri sparsi al suolo, s’agitavano, si voltavano, non davano più [p. 184 modifica] retta: il giovine prete capì e terminò la predica benedicendo quel popolo di pastori che aveva ascoltato la parola di Dio pensando ai propri affari ed a quelli degli altri.

Allora prete Elias si scosse dal suo sogno e riprese la celebrazione della messa. Egli soltanto e Isidoro Pane, forse, avevano ascoltato intensamente la predica; e finita la messa il pescatore cominciò a cantar le laudi con la sua voce sonora, che sembrava un torrente d’acqua limpida scorrente fra le balze solitarie, rosee di fiori di musco.

Il giovine predicatore ascoltava estatico quella voce sonora e intonata, e la figura di Isidoro, di quel vecchio dalla lunga barba e dagli occhi dolci, col rosario d’osso intrecciato alle dita nodose, gli ricordava certe figure di pellegrini del Both che egli aveva visto a Roma.

Lo volle conoscere, e prete Elias fermò il pescatore all’uscita di chiesa. Giacobbe guardava: vedendo l’amico fermo coi sacerdoti ne provava un’invidia da non dirsi. Lo attese in mezzo alla piazza e gli disse:

— Che una palla vi trapassi le ghette, cosa vi hanno detto quelli lì?

— Mi volevano a pranzo con loro, — disse Isidoro non senza una certa vanità.

— Ah, vi volevano a pranzo con loro? Uccellino di primavera, siete diventato un personaggio, a quanto pare! Ecco, venite con me...

— Dai Dejas?... Mai! — disse Isidoro, spaventato. [p. 185 modifica]

— No; oggi io non mangio le patate di quelle pelli del diavolo. No. Io mangio in casa mia! Venite.

Lo portò a casa della sorella. Era mezzogiorno passato: il sole bruciava le straducole ove il fango s’era disseccato; gli alberi svaporavano sull’azzurro ardente del cielo e degli sfondi selvaggi. La gente tornava a casa; il passo pesante dei pastori risuonava sui ciottoli, i bimbi vestiti a festa guardavano dai muricciuoli; dalle porte spalancate si scorgevano interni scuri di cucine dove riluceva, come medaglia enorme, qualche casseruola di rame. Spire di fumo giallognolo serpeggiavano sull’aria ossidata; il suono straziante di un organetto usciva a tratti da un cortile, di solito disabitato, e pareva un suono che sgorgasse di sotterra, prodotto dallo strumento di una vecchia fata melanconica.

Tutto il paesello aveva una insolita aria di festa, eppure quell’aria di festa, quelle porticine spalancate, quelle spire di fumo, quei bimbi impacciati nei vestitini nuovi, quel suono d’organetto, le casette senz’ombra, in quell’ora di luce ardente, avevano qualche cosa di supremamente melanconico.

Giacobbe condusse il pescatore dalla sorella, e pranzarono assieme. La donnina, vedova e senza figli, adorava il fratello, anzi lo chiamava ancora «fratellino mio». Del resto ella amava tutto il prossimo, e i suoi occhi, un po’ obliqui, di colore incerto, liquidi e puri come due piccolissimi laghi illuminati dalla luna, parevan gli occhi di un bimbo lattante. Ella non ignorava il male, ma si [p. 186 modifica] spaventava al solo pensiero che gli uomini potessero commetterlo. Uno dei suoi più grandi dispiaceri era stato il divorzio e il nuovo matrimonio di Giovanna, un po’ sua figliuola di latte, alla quale tuttavia aveva prestato i denari per il corredo. Suo fratello la burlava sempre.

— Ecco il nostro amico Isidoro che vuol prender moglie: è venuto per consigliarsi con te, — le disse.

— Che tu sii benedetto, Isidoro Pane, è vero che tu vuoi ammogliarti?

— Andate là! Andate là! — rispose bonariamente il pescatore.

— Ah, voi non volete ammogliarvi? — gridò Giacobbe, strappando coi denti ancora forti un pezzo d’arrosto che teneva con ambe le mani. — Siete un animale immondo. Ecco, germana mia, egli ha delle amanti.

— Questo non lo credo.

— Che tu mi veda in cielo se mento. Sì, egli ha delle amanti che gli succhiano il sangue...

La donna e Isidoro risero, — un riso da creature innocenti, — comprendendo che Giacobbe accennava alle sanguisughe.

Il servo cominciò a tagliuzzare la carne col suo coltello affilato, tenendola fra i denti e la mano sinistra, e dicendo che sembrava l’orecchia del diavolo tanto era dura. E quei due, ora che avevano cominciato, ridevano per ogni piccola cosa. Giacobbe, però, non rideva: non sapeva perchè, ma il buon umore di due ore prima era passato.

— Dopo vi condurrò a vedere il mio palazzo: [p. 187 modifica] fra giorni sarà finito e se volessi affittarlo avrei già gli inquilini. Ma io non l’affitto. No: andrò ad abitarlo io.

— Tu lascerai il servizio, dunque?

— Io lascerò il servizio, sì. Fra poco. Ho lavorato abbastanza. Sono quarant’anni che lavoro, sapete? Sì, quarant’anni. Nessuno dirà che ho rubato i denari coi quali vivrò la vecchiaia.

— Tu ti ammoglierai?

— Poh, chi mi vuole? Io stesso sputerei la donna giovine che mi accettasse. E vecchie non ne voglio, no. Bevete, Isidoro Pane.

— Tu mi farai ubbriacare? Ebbene, sì, è festa. Alla salute degli sposi.

— Di quali sposi?

— Di Giacobbe Dejas e di Bachisia Era! — disse il pescatore, che diventava allegro.

Giacobbe fece atto di gettarglisi sopra. — Io vi accoppo! — gridò, con gli occhietti verdi d’ira.

— Ah! Ah! Ah! Assassino!

— Silenzio, sss... non son cose da dirsi, — disse zia Anna-Rosa.

Giacobbe bevette due bicchieri di vino e cominciò a ridere un po’ forzatamente, guardando la sorella e il pescatore.

— Ecco, maritatevi voi due! Isidoro Pane, mia sorella è ricca; eppoi non vedi come è fresca? Sembra una bacca di rosa selvatica. Dicono che ella abbia trovato un’erba meravigliosa e ne faccia un decotto che tiene fresca la pelle.

— Che Dio ti benedica; tu sei così curioso! — disse la donnina. [p. 188 modifica]

— Sì, maritatevi. Io voglio. Mia sorella è ricca. Ciò che è mio è suo, perchè io morrò prima di lei. Non so perchè, credo che morrò presto: credo che debbano ammazzarmi...

— Va là; è il vino che oggi comincia ad ammazzarti...

— Fratellino mio, che dici tu? Per le animuccie del Purgatorio, cosa dici tu? — esclamò atterrita la sorella.

— Tu non hai nemici, — osservò il pescatore. — Eppoi perisce di ferro soltanto colui che di ferro ha ferito.

— Io ho ferito, — rispose Giacobbe, con accento grave, affondando la bocca in una fetta d’anguria: — quante creature innocenti! Ah, voi non capite? Pecore e agnelli! — poi sollevò il viso, rorido del roseo sangue dell’anguria, e rise.

Dopo andarono a veder la casa nuova: era ad un piano, oltre il terreno; in tutto quattro camere vastissime, una cucina e una stalla, ma ciò bastava perchè Giacobbe, e tutti quelli del paese, la chiamassero palazzo.

— Ecco questo, ecco quell’altro, — diceva Giacobbe, additando ogni buco; ed il suo viso liscio, senza sopracciglia, ridiventava gioviale.

— Prendetevi mia sorella per moglie, — ripeteva. — Questa casa sarà sua...

— Tu mi deridi, — rispose il pescatore; — perchè sono povero tu mi deridi.

Egli camminava timidamente sul pavimento di legno; Giacobbe invece batteva il tacco ferrato, [p. 189 modifica] compiacendosi a destar l’eco nelle grandi stanze vuote, odorose di calce fresca.

Un momento i due uomini si affacciarono ad una finestra, il cui davanzale di pietra ardeva al sole: e siccome la casa stava in alto, apparve la visione del paesello bruno, come un mucchio di carboni spenti, sotto il velo verde degli alberi; la pianura gialla, le grandi sfingi d’un grigio violaceo dritte sul cielo ardente. La campana della chiesetta suonava, suonava, e nella quiete del meriggio, azzurro e ardente come fiamma, quel suono saltellante, fra di pietra e di metallo, pareva venir da lontano da lontano, dal cuore di quelle sfingi, ove un gigante spaccapietre lavorasse annoiato e sonnolento.

— Perchè dunque non volete sposare mia sorella? — riprese Giacobbe, affacciato goffamente al davanzale. — Questa casa sarà sua, questa sarà la camera da dormire; qui, in questa finestra, vi potrete affacciare, uccellino di primavera, potrete fumare la pipa...

— Io non fumo. Lasciami in pace, — disse Isidoro con impazienza, poichè le parole del servo cominciavano a fargli male.

— Io non scherzo, vecchia lucertola, — proruppe Giacobbe. — Ma voi siete così pezzente che non potete neppure pensare che io non scherzo.

— Senti, — disse Isidoro, — oggi tu mi hai dato da mangiare, e per così poco vuoi spassarti alle mie spalle. Ebbene lasciami tranquillo, se vuoi che io ti resti grato.

Giacobbe lo guardò fisso, si mise ancora a ridere e gli disse: [p. 190 modifica]

— Andiamo a bere, ora.

Uscirono: Giacobbe s’avviò alla bettola, ma Isidoro non volle seguirlo, dicendo che doveva recarsi in chiesa.

Il servo andò alla bettola e vi trovò Brontu ed altri che giocavano alla morra con le braccia tese nervosamente, gridando i numeri con quanto fiato avevano in gola.

Prima delle cinque, ora nella quale doveva cominciare la processione, tutti erano ubbriachi. Giacobbe lo era più di tutti; pure s’arrogò il dritto di prender sotto braccio il padrone, sembrandogli che Brontu dovesse di momento in momento cadere. Poi invitò tutti quelli che si trovavano nella bettola ad andar nel suo palazzo per veder la processione.

Poco dopo le grandi stanze vuote risuonarono di voci rauche, di risate incoscienti e di passi malfermi; le finestre si spalancarono e si riempirono di visi barbuti, rossi, selvaggi.

Giacobbe e Brontu s’affacciarono alla finestra dove s’era appoggiato il pescatore: il sole era calato, ma il davanzale restava caldo; e sotto e davanti la visione del paesello, della pianura e delle montagne, appariva solcata da ombre sempre più allungantisi.

— Cu cu — gridò Brontu, arrotondando e sporgendo gli occhi.

Tutti lo imitarono, gridando a chi più poteva; le stanze echeggiarono, la strada si popolò di curiosi, ed in breve una battaglia di pietruzze, di sputi e di male parole si ingaggiò fra gli ubbriachi della [p. 191 modifica] finestre e gli ubbriachi della via. Ma improvvisamente si fece silenzio. S’udiva una cantilena grave e melanconica avvicinarsi: ed ecco una doppia fila di fantasmi candidi apparve in fondo alla strada, e sull’aria azzurra brillò una croce argentea.

Gli uomini della strada si attaccarono in fila al muro, i visi delle finestre si abbassarono; tutti gli astanti si tolsero la berretta.

Uno dei confratelli vestiti di bianco — per lo più erano ragazzi, ai quali, finita la processione, si davano tre soldi e una fetta d’anguria, — picchiò alla porta della casa nuova e passò oltre. Gli altri, che venivano dietro, lo imitarono.

— Che voi siate maledetti, — disse Giacobbe, sporgendosi dalla finestra, — maleducati! E vanno alla processione! — Voleva sputare su loro, ma Brontu gli disse che non conveniva.

Ed ecco lo stendardo di broccato verdolino con cento nastri variopinti e il bastone dorato: ed ecco la Madonnina Assunta nel suo letto portatile, con gli occhi chiusi, con la veste coperta di collane e d’anelli che parevano collane ed anelli dell’età del bronzo, vigilata dai piccoli angeli verdi.

Ai quattro lati camminavano, oltre i portatori, quattro uomini in tunica bianca, con quattro bambini vestiti da angioletti, quattro graziose creature, due bionde e due brune, che chiacchieravano fra loro, gridando per intendersi. Uno, solleticato sotto il ginocchio dall’uomo che lo portava, rideva contorcendosi, con un’ala penzoloni.

Giacobbe, Brontu, i compagni, piegarono le [p. 192 modifica] ginocchia e si fecero il segno della croce, guardando con tenerezza i quattro bambini.

Anche questi guardarono in su; uno riconobbe un suo zio alla finestra e gli gittò un confetto rosso che ricadde sulla strada.

Prete Elias ed il piccolo sacerdote nuorese, vestiti di broccato e di merletti, pallidi e belli al riflesso delle stoffe preziose che indossavano, con le mani giunte e il viso composto, cantavano in latino.

— Che il diavolo ti fori la saccoccia, ecco quell’immondezza di Isidoro Pane, — disse Giacobbe, agitandosi — ecco, sembra il padrone della processione! Io lo sputo.

— Ferma! — impose Brontu.

Giacobbe raschiò per richiamare l’attenzione del pescatore, ma costui non sollevò neppure gli occhi. Egli intonava le preghiere e la folla rispondeva ad una sola voce.

Una massa di popolo variopinto riempì la strada, mentre la croce argentea dileguavasi sullo sfondo: uomini a capo scoperto, teste calve lucide di sudore, capelli neri unti, capelli neri ricciuti e lanosi, — teste di donne coperte da grandi fazzoletti di lana fioriti, — un fondo nero a macchie gialle, a righe rosse, a chiazze verdi, — il candore delle camicie sui petti delle donne, — volti rosei, — mani rosee, — occhi scintillanti, — labbra che si muovevano, — poi un vecchio zoppo, — una donna con due bambine, — tre vecchie, — un fanciullo con un fiore giallo in bocca, — riempirono la strada, — s’allontanarono, — dileguarono coll’ondulare melanconico [p. 193 modifica] e grave della cantilena orante. Un gatto mostrò le sue zampine, poi sporse il visetto bianco dai grandi occhi azzurri, poi saltò e guardò sul muro in faccia alla casa di Giacobbe.

— Troppo tardi! — gli disse Brontu, facendogli un cenno di saluto.

Tutti cominciarono a ridere e urlare: Giacobbe li pregò di andarsene, e siccome gli amici non l’obbedivano, finse scacciarli con un bastone sporco di calce. Allora quegli uomini fieri, robusti, selvaggi, cominciarono a correr qua e là per le stanze, per la scala, spingendosi per le spalle, rotolando, gridando, producendo un chiasso infernale, ridendo come bambini; e proseguirono il giuoco anche nella strada, dopo che Giacobbe ebbe chiuso a chiave la porta del suo palazzo: poi, tutti assieme, ritornarono nella bettola.

Brontu ed il servo rientrarono a casa sull’imbrunire, sostenendosi a vicenda.

Zia Martina stava nel portico, sola, con le mani sotto il grembiule: recitava il rosario. Vedendo i due uomini non si mosse, non disse nulla, ma scosse leggermente il capo, stringendo le labbra come per dire:

— Siete belli davvero!

— Dov’è Giovanna? — gridò Brontu.

— È da sua madre.

— Ah, da sua madre? Dalla vecchia arpia? È sempre là, maledetta!

— Non gridare, figlio mio!

— Io grido, perchè sono in casa mia! — egli urlò. [p. 194 modifica] E voltosi verso lo spiazzo cominciò a gridare: — Giovanna! Giovanna!

Giovanna apparve sulla porta della casetta e si avviò attraverso lo spiazzo con un’aria spaventata; ma a misura che ella si avvicinava, il suo viso prendeva un’espressione di sprezzo e di disgusto.

Giunta davanti ai due uomini, li guardò con uno sguardo d’odio: Giacobbe rideva fra sè e sè; Brontu aveva le orecchie rosse per l’ira.

— Che hai? una colica? — disse Giovanna.

— Può darsi che gli venga più tardi! — esclamò Giacobbe.

Brontu mosse convulsivamente le labbra, ma non riuscì a dir nulla, e l’ira gli passò come era venuta, senza ragione.

— Ecco, ti voglio con me... — balbettò, — oggi non ci siamo veduti per nulla... Cosa facevi da tua madre? Chi c’era?

— Nessuno, per l’anima mia! Chi vuoi che venga da noi? — diss’ella con pungente amarezza.

— Può venire San Costantino... aaa daarvi unaaa poesiaaa... — canterellò Giacobbe, con le labbra bavose. — Ah, tu non l’hai visto San Costantino? Ebbene, ecco come è pazzo Isidoro Pane: non la vuole... non la vuole... eeee...

— Zitto tu! — disse zia Martina. — Ed intanto l’ovile rimane abbandonato! Così tu fai gli affari del padrone? Ah, razza maledetta! Ladroni! — Giacobbe si alzò, pallido, rigido: Giovanna ebbe paura che egli si gettasse contro la vecchia, e le si pose davanti. [p. 195 modifica]

Giacobbe tornò a sedersi, senza aprir bocca; ma egli aveva destato tale terrore in Giovanna, che la giovine rimase vicina alla suocera in atto di difesa.

Allora toccò a Brontu prendersela con la madre.

— Che modi son questi? — le disse, — voi trattate la gente come... come... fossero bestie... tutti. Oggi, oggi, sì, oggi era festa. E se colui s’è voluto ubriacare? Cosa ve ne importa?

— Io sono ubriaco di veleno! — disse Giacobbe.

— Sì, di veleno! E anch’io! — riprese Brontu. — Oramai sono stufo; sono stufo di madri, di mogli, di... di... tutto, ecco. Io me ne vado, ecco. Vado a stare nel suo palazzo. Dopo tutto siamo parenti, e... e...

— E dillo dunque! — urlò Giacobbe. — Tu conti sulla mia eredità! Ah! Ah! Eh! Oh!

Ricominciò a ridere, un riso urlante, per dir così, che destava orrore. Ed anche Brontu si mise a ridere; e voleva imitare il servo, ma il suo sghignazzare pareva l’urlo d’una bestia allegra nel mese di maggio.

Allora Giovanna ebbe di nuovo paura: paura del buio incipiente, della solitudine che gravava sullo spiazzo, della compagnia di quei due uomini che il vino rendeva simili alle bestie, violenti e spregevoli. E le parve che la scomunica fosse caduta su tutti loro; sul servo che rivoltavasi ai padroni, sul figlio che insultava la madre, su lei, Giovanna, che li odiava tutti.

Zia Martina s’alzò, entrò in cucina ed accese il lume: Giovanna la seguì e preparò per la cena. Cenarono tutti assieme, e per un po’ stettero [p. 196 modifica] tranquilli; anzi Brontu cominciò a raccontare come aveva visto la processione dalla finestra del palazzo di Giacobbe, facendo sorridere zia Martina per le pazzie che diceva, e volle accarezzare la moglie.

Ma Giovanna aveva il cuore colmo di fiele. Per lei la festa era passata più triste delle altre giornate; aveva lavorato, non era stata in chiesa, non s’era neanche cambiata di vesti; e nel solo momento che s’era permessa di recarsi nella casetta dove aveva tanto sofferto, ma dove pure aveva intensamente goduto, la avevano richiamata a urli, come si richiama un cane al canile.

Respinse quindi le carezze di Brontu, e gli disse ch’era ubriaco. Giacobbe ricominciò a ridere, ed il suo riso maledetto irritò viepiù Giovanna, viepiù offese Brontu. Costui gridò:

— Perchè ridi, cane rognoso?

— Potrei risponderti che la tua rogna è molto ma molto peggiore della mia. Però... però... voglio dirti che rido... ecco... rido perchè ne ho voglia.

— Allora rido anch’io.

Castigati!2 — disse Giovanna con sprezzo. — Fate schifo.

Allora Brontu proruppe: non ne poteva più.

— Che hai? — chiese a Giovanna, con voce sorda. — Si potrebbe saperlo? Mi stai rompendo le tasche, sai? Io ti carezzo e tu mi insulti? Dovresti baciar la terra dove io poso i piedi, invece! Hai capito?

Giovanna diventò livida. [p. 197 modifica]

— Perchè? — disse con voce sibilante: — non basta che io sia la serva, qui?

— Sì, la serva. Resta dunque la serva. Che vuoi altro, femmina?

Gli occhi obliqui di Giacobbe scintillavano. Giovanna si alzò, e ritta, livida, tragica, vuotò tutto il veleno che aveva nell’anima, ingiuriando il marito e la suocera: li chiamò aguzzini, minacciò di andarsene, di ammazzarsi; maledisse l’ora che era entrata in quella casa, urlò rivelando il debito verso la sorella di Giacobbe.

Allora il servo ricominciò a ridere fra sè e sè, mormorando paroline di comico rimprovero contro la sorella: ad un tratto però tacque, cupo in viso, vedendo la figura nera di zia Bachisia apparir nel vano della porta.

Ella aveva udito sua figlia urlare nel silenzio della notte serena, ed era venuta.

— Ecco, — disse zia Martina, perfettamente calma, — vostra figlia diventa matta, a quanto pare.

Brontu, rientrato in sè, annaspava l’aria e faceva cenni alla suocera perchè si avanzasse e calmasse Giovanna; e zia Bachisia si avanzò; ma ecco Giacobbe saltar in piedi, tutto d’un pezzo, col viso contratto come una maschera d’odio.

— Via di qui! — gridò puntando l’indice verso la porta.

— Sei tu il padrone? — chiese zia Bachisia, non senza ironia.

— Via di qui! — egli ripetè, e siccome zia Bachisia avanzava sempre, le corse addosso.

  1. Molti servi, in Sardegna, possiedono bestiame per conto loro; e lo mescolano a quello del padrone, — col quale in tal modo diventano soci, — o lo affidano ad altro pastore, col quale dividono la rendita.
  2. Scemi.