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quilli; anzi Brontu cominciò a raccontare come aveva visto la processione dalla finestra del palazzo di Giacobbe, facendo sorridere zia Martina per le pazzie che diceva, e volle accarezzare la moglie.

Ma Giovanna aveva il cuore colmo di fiele. Per lei la festa era passata più triste delle altre giornate; aveva lavorato, non era stata in chiesa, non s’era neanche cambiata di vesti; e nel solo momento che s’era permessa di recarsi nella casetta dove aveva tanto sofferto, ma dove pure aveva intensamente goduto, la avevano richiamata a urli, come si richiama un cane al canile.

Respinse quindi le carezze di Brontu, e gli disse ch’era ubriaco. Giacobbe ricominciò a ridere, ed il suo riso maledetto irritò viepiù Giovanna, viepiù offese Brontu. Costui gridò:

— Perchè ridi, cane rognoso?

— Potrei risponderti che la tua rogna è molto ma molto peggiore della mia. Però... però... voglio dirti che rido... ecco... rido perchè ne ho voglia.

— Allora rido anch’io.

Castigati!1 — disse Giovanna con sprezzo. — Fate schifo.

Allora Brontu proruppe: non ne poteva più.

— Che hai? — chiese a Giovanna, con voce sorda. — Si potrebbe saperlo? Mi stai rompendo le tasche, sai? Io ti carezzo e tu mi insulti? Dovresti baciar la terra dove io poso i piedi, invece! Hai capito?

Giovanna diventò livida.

  1. Scemi.