Don Giovanni Tenorio o sia Il dissoluto/Atto V
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ATTO QUINTO.
SCENA PRIMA.
Atrio con vari mausolei, fra quali la statua del Commendatore.
Don Giovanni, poi Elisa.
Tu mi1 guidasti? A qual lugubre fine
M’hai riserbato? Oh donne, all’uom funeste
Per la vostra beltà! Qual astro fiero,
Schiavo mi vuol di contumaci affetti?
Donna mirar non so, che non mi accenda;
Fiamma accender non so, che non si spegna.2
Ah donn Anna crudele! O non dovevi
Tollerare i miei sguardi, o men severa
Donne superbe, incatenar gli amanti,
E ridere al lor pianto, e impunemente
Negar pietade a chi piagaste il cuore.
Barbara vanità! Costume ingrato!
Ma di me che sarà? La colpa mia
Rende più grave dell’ucciso il grado.
La figlia sua vorrà vendetta. Ognuno
La mia morte vorrà. Vagliami intanto
Questo luogo d’asilo; indi allo scampo
Qualche via m’aprirà l’oro, o l’inganno.
Elisa. Eccomi, don Giovanni, ad onta ancora
Della vostra empietà, fida e costante.
Il mio, ch’è vero amor, nelle sventure
Non vi abbandona.
D. Giovanni. Eh nel mio mal presente
Altro ci vuol che femminili ardori.
Elisa. Posso farvi fuggir.
D. Giovanni. Ma come? (Oh sorte!)
Elisa. Due custodi dell’atrio a me congiunti
Sono di sangue... Il lor favor potravvi
Lo scampo agevolar.
D. Giovanni. Lo voglia il cielo!
(Lusingarla convien). Diletta sposa,
Di fedeltà, d’amor sincero esempio,
Vostro son io, vostro mi vuole il fato;
Il fato sì, che voi due volte elesse
Pietosa mia liberatrice e scorta:
Mi pento ormai d’esservi stato ingrato.
Dica il folle pastor ciò che dir vuole;
Così il cielo destina: Elisa deve
Esser di don Giovanni.
SCENA II.
Donna Isabella in disparte, e detti.
Porgetemi di sposo.
D. Giovanni. Ah non perdiamo
Il tempo, idolo mio; sollecitate
Lo scampo nostro. Sarò vostro, il giuro,
Tosto che in libertà con voi mi trovi.
D. Isabella. (Ah traditori)
Elisa. Sì, voglio a’ detti vostri
Fede ancora prestar, benchè tradita;
Venite meco; i due german miei fidi
Ci additeran la sotterranea via,
Che dall’atrio conduce oltre le mura.
D. Giovanni. (Se ti posso fuggir, mai più mi vedi).
D. Isabella. (Non riuscirà del perfido il disegno).
Don Giovanni Tenorio, il ciel vi dia
Pace nel vostro amore.
Elisa. E chi è costui,
Che importuno ci arresta? (a don Giovanni
D. Giovanni. (Oh me infelice!) (da sè
(E un uom che sventurato ha perso il senno.
Mille favole sogna, ed a chi l’ode,
Or di riso è cagione, ed or di sdegno).
(piano ad Elisa
D. Isabella. Donna, se vuoi saper lo stato mio,
Chiedilo a me. Femmina io son tradita,
Ed hai presente il traditor fellone.
D. Giovanni. (Non vel dissi, ch’è stolto?) (ad Elisa
D. Isabella. Amore e fede
Mi giurò quell’ingrato; indi spergiuro
Mi abbandonò.
D. Giovanni. (Strana follia!) (ad Elisa
Vantati pur d’aver schernita e offesa
Una semplice donna. Il ciel, ch’è giusto,
Farà le mie vendette.
Elisa. (Ei parla in guisa
Che non sembrami stolto). (a don Giovanni
D. Giovanni. (E tale, il giuro;
Ma favelli a sua voglia; andianne, o cara,
Gli amici a rinvenire, e al nostro scampo
Apran tosto la via). (ad Elisa, in aito di partire
D. Isabella. Fermati, indegno.
Se tu credi fuggire, affé t’inganni. (da sè
Elisa. (Il sospetto si accresce).
D. Giovanni. (Ah, qual fatale
Non atteso periglio!) (da sè) Andianne, Elisa...
(in atto di partire, e donna Isabella lo trattiene
O ti scosta, o ti sveno.
(a donna Isabella, ed impugna la spada9
D. Isabella. Io morir prima
Vo’ che partir; non mi spaventi, indegno.
(si pone in difesa
SCENA III.
Don Alfonso con guardie, e detti.
Tanto s’avanza l’ardir vostro? Audace!
Toglietegli quel brando. (alle guardie
D. Giovanni. (Ah, son perduto!)
D. Isabella. (Quando ti cangerai, sorte spietata!)
Deh ascoltate, signore... (a don Alfonso
D. Alfonso. In altro tempo
V’ascolterò.
D. Isabella. (L’empio per or non fugge). (parte
SCENA IV.
Don Alfonso, Don Giovanni e guardie.
D. Alfonso. Voi siete quel signor, che mal vantate
Di cavaliero l’onorato fregio.
Il Re morto vi vuole ad ogni costo;
Fame vi ucciderà, se non un ferro.
Non vi sarà chi alimentarvi ardisca,
E chi ardisse di farlo, è reo di morte.
D. Giovanni. Ah sì, giusto è il decreto, io lo confesso.
Due delitti ho commessi. Ambi vendetta
Chiedon contro di me; ma se pietoso
Degnerete ascoltarmi, in lor vedrete
Delle mie colpe alleggerirsi il peso.
D. Alfonso. Difendetevi pur, se vi rimane
Ragion di farlo. Che dir mai saprete,
Dopo la vostra confession del fatto?
D. Giovanni. Dirò, signor, che di donn’Anna il volto
M’acciecò, mi sedusse; arsi a quei lumi,
Ed al fuoco d’amor l’altro si aggiunse
De’ copiosi liquori a lauta mensa
Follemente libati. Oh intemperanza
D’alma nobile indegna! Oh trista coppia
Di due perfidi numi, Amore e Bacco!
Arrossisco nel dirlo; e pur degg’io
Non asconder il ver. Nel fatal punto,
Talmente il senso la ragione oppresse,
Che più me stesso ravvisar non valsi.
Ah qual astro crudel partire indusse
L’ospite dalla mensa, e me furente
Solo lasciar di tal bellezza accanto!
L’acceso cuore interpretò l’evento
In favor di sue brame: alla mia pena
Con disprezzi e con onte a me rispose,
Ond’il furor la terza fiamma accrebbe.
Più ragion non mi resse, alle minacce
L’ira mi trasportò. Venne in mal punto
Il padre armato, e senza udir discolpe,
Al cimento m’indusse. Io provocato
Colpi vibrali dal mio voler non retti,
Ma dal fiero destin, che la mia spada
Nel sen di lui miseramente impresse,
Onde cadde trafitto. Ecco, signore,
Le colpe mie, le confessai, son queste.
Rammentate però, che errai guidato
Da due perfidi ciechi. Ah se gli accenti
Scioglier potesse da quel marmo illustre
L’eroe trafitto, ei chiederla pietade,
Signor, per me. Di non aver frenata
La soverchia ira sua forse or si pente,
E in me l’eccesso giovenil condona.
Che giova a lui la morte mia? Che giova
Il mio sangue alla figlia egra e dolente?
Altro, per risarcire i danni suoi,
A me chieder dovrebbe, ed io giustizia
Non le saprei negar, la man porgendo
Di sposo a lei, che per mia colpa è in pianto
Don Giovanni perisca: avrà donn’Anna
Risarcito l’onor? Lascerà il mondo
Di dubitar, che abbia difeso invano
La sua onestà da un risoluto amante?
Infelice donn’Anna! Il duol l’opprime,
E non vede il maggior de’ suoi perigli.
So che a troppo m’avanzo. Il delinquente
Fissar non dee del suo fallir la pena.
Però chieder pietade a tutti lice,
E offrirsi a ciò che risarcir può il danno
Voi parlate per me. Voi m’impetrate
La clemenza reale. Abbia donn’Anna
Nella mia destra il suo conforto, e voi
Se perdeste un amico, un ne acquistate,
Men valoroso sì, ma non men fido.
Siatemi protettore. Amor di vita
Non mi sprona a bramar la pietà vostra,
Ma del mio sangue, e di mia fama il zelo.
Del gran Re di Castiglia è nota al mondo
La pietà, la giustizia. Or se un esempio
Dar con frutto egli brama, e di lui degno,
Non la pena d’un reo, ma la clemenza
D’un pietoso Monarca il mondo ammiri,
Che di miseri rei piena è la terra,
Ma di regi pietosi è scarso il mondo.
D. Alfonso. Alla pietà non si ricorre invano.
Di pregare il mio Re per voi non sdegno;
Sì, lo farò, se di donn’Anna il cuore
Placato sia; ma di placarlo il modo
Facil non è; vi lusingate invano,
Ch’ella accetti una destra ancor fumante
Di sangue a lei sì caro. E voi potreste
Una destra esibir, che ad altra sposa
Promessa avete?
D. Giovanni. Una promessa ancora
Scioglier si può per riparar l’onore
D’una onesta donzella.
D. Alfonso. Ah, don Giovanni,
Colui che il nome d’Isabella ostenta,
Mi fa temer di qualche vostro inganno.
D. Giovanni. Signor, la fè di cavaliero impegno
Che il mio labbro non mente.
D. Alfonso. Creder vogl’io,
Che non osiate profanar il sacro
Ai detti vostri; ma se sian mendaci,
Scusa non vi sarà che vi sottragga
Dal più fiero gastigo.
D. Giovanni. (Eh mi lusingo
Colla fuga sottrarmi al rio destino).
SCENA V.
Donn’Anna vestila a lutto, e detti.
M’hanno levato il genitore esangue
Per recarlo alla tomba, ah non si vieti
Che le lacrime mie versar io possa
Su questo illustre venerato avello.
Ombra del padre mio... Stelle! che miro?
Qui don Giovanni? Ah don Alfonso, udite
Del mio tradito genitore in nome.
Chiedovi per pietà che l’inumano
In faccia nostra ad ostentar non venga
L’impunita sua colpa, o d’ira accesa
Trarrò di mano a questi servi un’asta
Per trafigger quell’empio.
D. Giovanni. (Invan poss’io
Sperar pietà dal di lei cuor).
D. Alfonso. Donn’Anna,
Moderate lo sdegno. Al Re si aspetta
I rei punir, ma i rei punir non suole
Senza prima ascoltarli. Ha don Giovanni
Chiesto pietà; da voi dipende; udirlo
Se vi aggrada potete, e se discaro
Non evvi ciò ch’ei di propor destina,
La clemenza del Re mancar non puote.
Donn’Anna. Che mai dirà quel traditore indegno?
Del suo perfido cuor?
D. Giovanni. Pietà, donn’Anna,
Eccomi a’ vostri piè; da voi dipende
La mia vita non men che l’onor mio.
Morto voi mi volete? Ecco il mio seno,
Trafiggetelo voi di vostra mano.
Meglio l’ira saziar così potrete,
Ed io morrò, senza lo sfregio almeno
D’una pubblica pena. Ah rammentate,
Che amor cieco mi rese, e che la fiamma
In que’ vostri begli occhi amore accese,
Onde il cuor m’arse; e che il mirarvi, o bella,
E starvi presso inosservato e solo,
E non languire e non bramar mercede,
Impossibil si rende. A un disperato
Per le vostre ripulse e chi poteva
Porger freno o consiglio? A provocarmi
Venne in mal punto il genitor... Ma invano
Scuse vo proponendo al mio delitto.
Sono reo, lo confesso, io morir deggio;
Nè per serbar quest’odiosa vita
Mi vedete prostrato. Ah, sol vi chiedo
Per pietà, se pietade in cuore avete,
Che vi caglia serbar, se non la vita,
L’onore almen d’un sventurato amante.
Donn’Anna. Perfido! l’onor vostro a me chiedete;
E il mio, contro di cui tentaste insulti,
Chi difender potrà dall’ombra indegna?
D. Giovanni. Risarcir lo potrebbe... Ah, folle io sono!
L’impossibil mi fingo, e al vostro sdegno
Nuovi stimoli aggiungo.
Donn’Anna. Via, seguite:
Qual sarebbe il disegno?
D. Giovanni. A voi la destra
Donn’Anna. Scellerato! A tanto
Vi avanzate voi meco? Ed io vi soffro?
E voi, signor, d’un mentitor gli accenti
Mi obbligate ascoltare?
D. Alfonso. Il fine intendo
Delle vostre contese.
D. Giovanni. Oh generosa,
Oh pietosa donn’Anna! Al padre vostro
L’ira sagrificar piacciavi, o bella,
Non il sangue d’un reo che pietà chiede.
Queste lacrime mie dal duol spremute
Di vedervi per me dolente e mesta,
Del pentimento mio vi faccian fede.
Deh non siate crudele... (s’inginocchia
Donn’Anna. Al Re dovete,
Non di femmina umil gettarvi al piede.
D. Giovanni. Ah no! dal suol non sorgerò, se pria
Da’ labbri vostri il mio destin non esca.
Pronunziate, crudel, la mia sentenza:
Condannatemi voi, ch’io son contento.
Donn’Anna. Sorgete, dico. (Ahimè! qual fiero incanto
Formano sul mio cuor le sue parole!)
D. Giovanni. (Comincia a impietosir). Su via, togliete
Dal dubbio cuor dell’avvenir la pena. (sorge
Eccovi don Alfonso: a lui spiegate
La vostra crudeltà. Morir son pronto,
E comunque a voi piaccia. Almen placate
Col sangue mio del vostro cuor lo sdegno.
Un sol dono vi chiedo, e poi contento
Vado a morir. Volgete a me Io sguardo,
Un momento soffrite i mesti lumi
D’un che muore per voi. Può chieder meno
Dalla vostra pietade un infelice?
Donn’Anna. Mi chiedete uno sguardo? Ed a qual fine?
Di mentiti sospiri? (Ah che in mirarlo
In atto umil, con sì bel pianto agli occhi,
Avvilisce il mio sdegno!)
D. Alfonso. E donde nasce,
Donn’Anna, il nuovo cangiamento e strano
Che nel vostro sembiante or io discerno?
E pietade, è rossore? E sdegno o affetto?
Palesatemi il ver.
Donn’Anna. Signor... l’orrore...
Se potessi... Ma no...
D. Alfonso. Basta, v’intendo.
Ricomponete i combattuti affetti.
Don Giovanni, per ora il destin vostro
Sospeso è ancor. Nè accelerar vi caglia
Ciò che potrebbe migliorare il tempo.
D. Giovanni. Grazie a vostra bontà. (Verrà la notte,
Tornerà Elisa, e fuggirò il periglio).
Donn’Anna. (Ombra del padre mio che qui ti aggiri,
La debolezza del cuor mio perdona.
Son donna alfin...)
SCENA VI.
Un Paggio e detti.
Signor, diretto, un messaggiero è giunto.
D. Alfonso. Leggasi il foglio, e tu trattieni il messo. (il paggio parte
D. Giovanni. Prove tai vi darò della mia fede, (a donn’Anna
Che potran cancellar l’antico errore.
D. Alfonso. (Che lessi? oh infedeltà!)
D. Giovanni. (Turbato è Alfonso).
D. Alfonso. (Quanti perfidi inganni!) (verso don Alfonso
D. Giovanni. (Ahimè, che fia?)
D’ordine regio a me diretto.
D. Giovanni. (Oh stelle!)
D. Alfonso. (Legge) “Don Giovanni Tenorio, il cui sfrenato
“Perfido cuor di mille colpe è reo,
“S’involò dalla patria, e seco il cuore
“L’empio portò d’una donzella illustre;
“Donna Isabella, unica figlia e cara
“Del duca invitto d’Altomonte, è quella,
“Che tradita rimase. Or l’infelice
“Sotto spoglia viril segue l’indegno,
“Che il cammin di Castiglia ha preso, in quello
“Sperando ritrovar scampo ed asilo.
“S’ambi in poter del vostro Re sien giunti,
“Cura prendete della donna offesa,
“Indi fra’ lacci il traditor vi piaccia
“Spedir a noi, perchè punito ei resti”.
Donn’Anna. Cieli, che intesi mai!
D. Giovanni. (Questo mi perde).
D. Alfonso. Don Giovanni, che dite?
D. Giovanni. Un foglio è quello,
Che mentito sarà...
D. Alfonso. Non mente il foglio.
Voi mentitor, voi cavaliere indegno,
Moltiplicate i scellerati inganni.
Vi perseguita un stolto, e fole inventa,
E non è qual si dice, e l’onor vostro
Impegnate a provarlo? Ah quale onore,
Misero cavalier, sognando andate?
Tutto è scoperto alfin. Donna Isabella
È colei ch’ingannaste, ed or vi segue.
Furor vi spinse e sregolato amore
Donn’Anna ad oltraggiar. Sdegno inumano
Contro il Commendator vi armò la destra
Qui dovete morire. All’atrio intorno
Sieno i custodi raddoppiati. All’empio
Niuno porga soccorso. Andrò io stesso
Del mio Monarca ad affrettar lo sdegno. (parte
SCENA VII.
Don Giovanni, Donn’Anna e guardie.
Donn’Anna. Pietà mi chiede
Chi pietà non conosce? Empio! abbastanza
Lusingar mi lasciai da’ vostri inganni.
Misera me s’io secondato avessi
Il disegno crudel del vostro cuore!
A qual barbaro strazio, a qual destino
Riserbata mi avreste? Il ciel pietoso
Mi soccorse per tempo. Alzate i lumi,
Barbaro, a quella gloriosa imago:
Voi gli apriste nel sen la crudel piaga,
E con essa chiedendo al ciel vendetta,
L’alto potere invocherà de’ Numi. (parte
SCENA VIII.
Don Giovanni, poi Carino e guardie.
Finito ho di sperar? Ah un ferro almeno
Mi togliesse la vita, e mi troncasse
La vergogna e il dolor. Vieni, Carino,
Vieni’, amico pastor. Tu mi soccorri,
Tu mi presta conforto in questo estremo
Giorno per me fatal.
Perr avermi infedel resa la sposa?
D. Giovanni. Vendica i torti tuoi. Non ti chied’io
Vita, nè libertà; morte ti chiedo.
Svenami per pietade. Io sono stanco
D’attender più della mia vita il fine.
Carino. Siete voi disperato?
D. Giovanni. Sì, lo sono;
Per me non vi è più scampo. È la pietade
Terminata per me. Sono crudeli
Meco gli Dei, se Dei vi sono in cielo.
Carino. Non parlate così. Vi sono i Dei;
E crudeli non sono. A lor volgete
Con umil cuor le calde preci, e i voti
E il soccorso verrà.
D. Giovanni. Che Dei, che voti?
Che sperare poss’io dal sordo cielo?
Già per lunga stagion perduto ho l’uso
Di favellar coi Numi.
Carino. (Il cuor mi trema).
Ma lo stato in cui siete, almen vi faccia
In voi stesso tornar. Da chi potreste,
Se la niegan gli Dei, sperare aita?
Pentitevi di cuor. Via, don Giovanni;
Se siete cavalier, non disprezzate
D’un pastore il consiglio. E forse questa
L’ultima volta che per me vi parla
La celeste pietà. Mirate il cielo...
D. Giovanni. Ah, che piuttosto invocherò d’Averno
Le terribili furie. Esse verranno
A lacerarmi il seno. A un disperato
Pietà non giova, inutile è il consiglio;
Deggio morir, ma venga seco a trarmi
Una volta la morte. Iniquo fato!
Empia sorte! Crudel, barbara madre,
Che nella culla non troncasti il filo
Di sì perfida vita! Oh maledetto
Giorno in cui nacqui! Oh scellerati affetti,
Che nutriste il mio cuor! Donn’Anna, Elisa,
Donna Isabella! Ah chi di voi mi svena?
Svenami tu, pastore.
Carino. (Inorridisco!)
Deh calmate il furor che sì v’accieca;
Ritornate in voi stesso.
D. Giovanni. Eccomi alfine
Disarmato, rinchiuso, e da ria fame
Tormentato, e da sdegno aspro e feroce.
Commendator, che fai? Perchè non vieni
A vendicar il sangue tuo? Quel marmo
Perchè non scende a precipizio, e seco
Me non porta sotterra? Ah potess’io,
Pria di morire, un’altra volta almeno
Lacerare il tuo sen! Numi spietati,
Deità menzognere, il vostro braccio
Sfido a vendetta. Se fia ver che in cielo
Sovra l’uomo mortal vi sia potere,
Se giustizia è lassù, fulmine scenda,
Mi colpisca, mi uccida e mi profondi
Nell’inferno per sempre.
(Viene un fulmine che colpisce don Giovanni; la terra si apre, e lo sprofonda. Carino spaventato fugge, poi torna
Carino. Aimè! soccorso.
SCENA ULTIMA.
Don Alfonso, Donn’Anna, Donna Isabella, il Duca Ottavio, Elisa e Carino.
D. Isabella. Udite il ciel, che a fulminar c’invita
Quell’indegno impostore. (a don Alfonso
Destinata la vittima al suo braccio?
D. Alfonso. Don Giovanni dov’è? (a Carino
Carino. Lontano assai.
D. Alfonso. Come? Fuggì?
Carino. Se Io portò il demonio.
D. Alfonso. Che dici?
Carino. Oimè! Per lo spavento appena
Favellare poss’io. Cotante ingiurie
Contro i Dei pronunziò, che un fulmin venne;
Lo colpì, s’aprì il suolo, e più nol vidi.
D. Alfonso. La giustizia del cielo ha prevenuto
Il tardo colpo di giustizia umana.
Donna Isabella, ritornar potete
A vostr’agio alla patria. I vostri voti
Fur da’ Numi esauditi, e i vostri torti
Risarciti miraste.
D. Isabella. Ah, che non basta
Questo lieve conforto a mie sventure.
D. Ottone. Donna Isabella, non poss’io spiegarvi
Quel che pensa il mio cuor. Basta... col tempo
Potrò dar qualche sfogo al mio cordoglio.
D. Isabella. Questa vostra pietà scema il mio duolo.
Consolar mi potete.
Elisa. Al scellerato
Nuova pena s’accresca. Ei m’ha tradita;
A voi chiedo vendetta.
Carino. Invan la chiedi.
La fé’ il cielo per tutti.
Elisa. E tu, Carino,
Sarai meco crudel?
Carino. Va da me lungi
Quanto corre in un dì cacciata fera.
M’ingannasti due volte. Affé, la terza
Non t’ha da riuscir.
Carino. T’accheta.
La tua fede conosco, e ciò ti basti.
D. Alfonso. Non ti lagnar di lui, ma di te stessa,
Se di fede il tuo cuor ti rese indegna.
Elisa. Non per questo morir vogl’io di duolo:
A chi manca beltà, mancan gli amanti.
D. Alfonso. Torna alle selve, e non venir fastosa
A seminar fra i cittadin gli ardori.
Elisa. Oh sì, che sono i cittadini vostri
Innocenti e discreti. Alle mie selve
Tornerò per fuggir la gente trista;
Che mai sedotta m’averia un pastore,
Qual meco fece un cittadin malvagio.
Io de’ nostri pastor conosco il cuore,
E li volgo a mia voglia, e son nell’arte
D’imprigionare i loro cuor maestra.
Ma i cittadini, oimè! son tutti inganni;
E la donna più scaltra ai scaltri amanti
Ceder convien delle menzogne il vanto.
D. Alfonso. Chi crederebbe che sì rio costume
Serpendo andasse fra le selve ancora?
Andianne, amici, e dell’indegno estinto
Il terribile esempio ormai c’insegni,
Che l’uom muore qual visse, e il giusto cielo
Gli empi punisce, e i dissoluti abborre.
Fine della Commedia.