Don Giovanni Tenorio o sia Il dissoluto/Nota storica
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NOTA STORICA
Nel 1896 un giovane eruditissimo, Arturo Farinelli, stampava nei fascicoli 79-81 del Giornale storico della letteratura italiana (A. XIV, vol. XXVII, fasc. 1, pp. 1-77 e fascicoli 2-3, pp. 254-326) uno studio dotto e sagace, col modesto titolo di Note critiche, sulla leggenda e sulla fortuna di Don Giovanni, cogliendo l’occasione da un saggio pubblicato nel 1894 da F. De Simone Brouwer (Don Giovanni nella poesia e nell’arte musicale. Storia d’un dramma, Napoli, Tip. R. Università, pp. 139) che nel ’97 rispose con alcune Osservazioni ed appunti (Ancora Don Giovanni, in Rassegna Critica della lett. it., A. II, 1897, pp. 56-66 e 145-165). Alcuni anni dopo, nel 1906, Georges Gendarme De Bévotte, seguendo la traccia storica del Farinelli, pubblicava un bel volume sulla Légende de don Juan, son évolution dans la littérature, des origines au Romantisme (Paris, Hachette) che ristampò alquanto abbreviato nel 1911, aggiungendovi però un secondo volume sullo svolgersi della leggenda dal Romanticismo ai giorni nostri (La légende de don Juan, son évolution dans la littérature du Romantisme à l’époque contemporaine, Paris, Hachette). Abbastanza dunque si è scritto su questo famoso eroe (si consulti ancora Farinelli, Cuatro palabras sobre “Don Juan” y la literatura donjuanesca del porvenir, in Homenaje a Menéndez y Pelayo, I, Madrid, 1899 e altri autori citati da L.-P. Betz, La littérature comparée, essai bibliographique, Strasbourg, Trübner, 1904: v. indice, Don Juan; e P. Toldo, L’oeuvre de Molière etc., Turin, 1910, p. 93 n.; e la Bibliographie di De Bévotte in La légende de Don Juan, 1906 e la Liste des Don Juans e le note bibliografiche nel 2.° vol. del 1911).
Il Farinelli e il De Bévotte sono concordi nell’escludere che il primo creatore del fortunato personaggio, ossia l’autore del Burlador de Sevilla y convidado de piedra (stamp. la prima volta nel 1630), attingesse alla storia o alla leggenda: ma così il De Simone Brouwer come il De Bévotte concludono con ottime ragioni che patria di don Giovanni fu veramente la Spagna, non già il settentrione d’Europa, come sospettò il Farinelli. Che il Burlador sia del monaco Gabriele Tellez, detto comunemente Tirso de Molina, come vorrebbe la tradizione, o non sia, come crede il Farinelli, non sappiamo bene (su questo aut. si vedano cenni bibl.ci di Ces. Levi, in Riv. Teatr. It., 1 genn. 1912). Qualcuno, anche in tempi non lontani, l’attribuì a Calderon, e a Calderon l’attribuiva il Goldoni; ma la più parte degli storici della letteratura italiana seguono fedelmente la tradizione (così, per es., Fitzmaurice Kelly). De Bévotte distingue nel Burlador due parti dissimili: la prima è “una banale commedia d’amore di cappa e spada; la seconda un dramma religioso patetico” (l. c., ed. 1911, pag. 37). Quanto al don Giovanni spagnolo, non è propriamente un vizioso, ma piuttosto un incostante, “leggero e frivolo”, sul quale si addensano a mano a mano le minacce del cielo. È libertino per esuberanza di forze, non per corruzione; cede all’irresistibile impeto della giovinezza più che agli impulsi del male (ivi, pag. 49). Ricordiamo come nascesse sotto il regno di Filippo IV, nella Spagna dei pìcari. Al Farinelli parve “l’incarnazione tipica delle tendenze epicuree che ogni uomo alberga in petto”.
Quando tale dramma sulla metà del secolo decimosesto passò in Italia, perdette in parte il carattere morale religioso e malamente si arricchì di lazzi burleschi. Il Goldoni conobbe le due povere imitazioni italiane, quella del napoletano Onofrio Giliberto (1652, secondo Allacci) e quella del fiorentino Giacinto Andrea Cicognini (morto nel 1660) che fecero la fortuna delle compagnie comiche dell’arte; anzi afferma che v’era fra esse “pochissima differenza”, s’egli ben ricorda (v. L’Autore a chi legge). Ma dell’opera del Giliberto nessun esemplare è rimasto e al Cicognini quasi ci ripugna di assegnare quella vera sconciatura del Burlador che s’intitola Il Convitato di pietra, opera reggia et esemplare, dove non solo sparisce quanta freschezza e potenza d’invenzione e quanta poesia è nell’originale spagnolo, ma dove si odono le più volgari e stupide oscenità del teatro dell’arte in quei dialoghi in dialetto, intrusi per forza, fra il Dottore, Pantalone e Brunetta (del Cicognini lo ritiene Guelfo Gobbi “fino a prova contraria”: v. Cicognini e Tirso de Molina, in Biblioteca delle Scuole Italiane, XI, n. 20, 31 dic. 1905, pp. 240-241. Nulla dice L. Grashey nel suo povero saggio su G. A. Cicogninis Leben und Werke, Kirchhain N.-L., 1908). Il Convitato ebbe un gran numero di ristampe in Italia: ho qui, per esempio, l’edizione di Bologna, per Gioseffo Longhi, della fine del seicento, e quella di Venezia, Bassaglia, 1787; e non differiscono che per il nome del servo di don Giovanni, divenuto Truffaldino, di Passarino ch’era prima. Io non dubito che proprio questo misero mostro teatrale, in tutto degno d’un “uditorio di serve, di servitori” e pur troppo “di fanciulli”, insomma “di gente bassa, ignorantissima”, come dice il Goldoni, servisse agli scenari delle infinite compagnie comiche le quali continuavano ancora nei primi decenni del secolo decimonono ad ammanire al pubblico italiano il Convitato di pietra.
Di questi scenari ne conosciamo uno napoletano, col Pulcinella (nollo Zibaldone della fine del seicento che Benedetto Croce donò alla Biblioteca Nazionale di Napoli); che segue invero, “salvo alcuni spostamenti di scena”, l’opera attribuita al Cicognini (De Brouwer, Rass. Crit, cit., p. 148). Certo in una “rappresentazione” così sconnessa e bizzarra, che confondevasi nell’ultimo atto con la fiaba teatrale, potevano i nostri valenti comici introdurre a volontà i loro lazzi migliori. Di qui la grande fortuna del Convitato fin che durò in Italia il teatro dell’arte. I comici dicevano, racconta il Goldoni, “che un patto tacito col demonio manteneva il concorso a codesta sciocca Commedia” (L’Autore a chi legge). Giustamente scriveva Carlo Gozzi: “È ben da stupire, riflettendo all utilità teatrale, che il Convitato di pietra, replicato da più di un secolo, abbia dato in quest’anno 1773 alla Truppa Sacchi 657 lire nella cassetta alla porta, e che il Disertore del Sig. Mercier, dramma esposto tra noi da due soli anni, e in così gran credito, abbia dato poco più di 200 lire ai colti Comici del Teatro di S. Angelo” (Opere edite ed inedite, Venezia, Zanardi, 1802, t. V, pag. 28. - Vedasi anche Goldoni nella commedia che ha per titolo Il Teatro Comico, atto I, sc. II; e infiniti altri. Si vedano pure gli aneddoti ricordati da Corrado Ricci, I teatri di Bologna nei secoli XVII e XVIII, Bologna, 1888, pp. 57-59, 449 e 465. Col Convitato solevano chiudere le compagnie comiche il corso delle proprie recite: v. Polcastro cit. da G. Mazzoni, Abati, soldati ecc., Bologna, 1924, pag. 225).
Ma fin dai primi mesi del 1658 l’attore italiano Domenico Locatelli, detto Trivellino, recitava sulle scene del Petit-Bourbon a Parigi un Convitato di pietra; e l’anno stesso, nel novembre o dicembre, l’attore francese Dorimon recitava a Lione un suo Festin de Pierre che stampava nel ’59. Nel 1659 anche Villiers, attore dell’Hôtel de Bourgogne, compose e rappresentò un altro Festin de Pierre, stampato l’anno dopo. Lo “scenario” des Italiens che serviva alle recite di Domenico Biancolelli (successore del Locatelli), detto in Francia Dominique, e le due opere di Dorimon e Villiers, fra le quali non vi ha gran differenza, ripubblicò di recente con introduzione e note G. G. De Bévotte (Paris, Hachette, 1907. Sullo scenario di Biancolelli, che presenta molte reminiscenze del Convitato attribuito al Cicognini, v. pure L. Moland, Molière et la Comédie Italienne, Paris, 1867, ch. XV). Si capisce come negli scenari italiani acquistasse grandissima importanza il servo di don Giovanni, lo zanni caro al pubblico, sotto il nome di Passarino o Trivellino o Arlecchino o Truffaldino, il quale diventò il vero buffonesco eroe del dramma. Anzi il contrasto fra la gaiezza triviale e il terrore del castigo finale commoveva diversamente ma profondamente la grande massa degli spettatori, come ben osservava il Goldoni (L’Autore ecc.).
Snaturato così dai nostri attori quello che in origine era quasi un dramma religioso, si adattò docilmente alla fantasia di chi volle (v. De Bévotte, La légende cit., ed. 1911, I, 74) e ne sorsero nuove creazioni. Il Don Giovanni di Dorimon e di Villiers non è più, infatti, un semplice conquistatore di donne, ma “un libertino dello spirito, che si rivolta con violenza contro tutte le idee, contro tutti i sentimenti della folla, contro tutte le leggi umane e divine” (De Bévotte, l. c., pag. 66). Nell’ultimo atto di Villiers, dice De Bévotte, “il carattere di don Giovanni raggiunge una grandezza drammatica. L’eroe ingaggia la lotta contro il cielo con furor disperato” (pag. 72).
Venne a questo punto il Molière (Dom Juan ou le Festin de Pierre, 15 febbr. 1665), che non conobbe, sembra, il Burlador spagnolo, ma attinse allo scenario di Biancolelli, a Dorimon, a Villiers, e riempì non di leggerezza bensì d’egoismo e di cattiveria il fondo del carattere di don Giovanni (De Bévotte, 114), e del suo potente realismo il dramma. Il suo eroe “ama di far soffrire, gode degli scandali che provoca” (pag. 127), come nel Settecento il Valmont di Laclos; “corrompe tutto quello che tocca” (pag. 127), come il Casanova; in lui “la voluttà è senza tenerezza e senza effusione” (pag. 126): sopra tutto poi si distingue per il suo ateismo, per l’empietà dello spirito (pag. 133). Poichè questo strano e imperfetto capolavoro, che ha tanti difetti e attrae sempre più la curiosità e l’ammirazione, servì a Molière, insieme col Tartufo, per la sua battaglia contro tutti gli ipocriti.
Lo scandalo suscitato da certe espressioni costrinse l’autore dopo quindici recite a ritirare la propria commedia dal teatro dove non risalì fino alla metà del secolo decimonono: ma nel 1677 si potè impunemente rappresentare a Parigi il Convitato di pietra (o meglio il Banchetto dell’uomo di pietra) di Tommaso Corneille, cioè una traduzione in versi dell’opera di Molière in cui scompariscono o si attenuano le parole più empie di don Giovanni; e nella nuova veste fu applaudito sui teatri di Francia per quasi due secoli. Del Nuovo convitato di pietra ossia l’ateo fulminato (1669) dell’attore Rosimond, nè del Libertino (1676) di Tommaso Shadwell, che portò don Giovanni sulle rive del Tamigi, non fa menzione il Goldoni; e nulla seppe della fortuna dell’eroe leggendario ne’ paesi tedeschi (Farinelli, l. c.).
Nella prefazione alla sua commedia, nelle memorie scritte in italiano per l’edizione Pasquali e nelle memorie francesi il dottor veneziano ci raccontò a lungo da quali circostanze e da quali idee fosse indotto a “riformare”, come dice (vol. I della presente ed., pag. 118), il Convitato di Pietra, ossia il mostruoso canovaccio che recitavasi sui teatri italiani. La sua preoccupazione nei suoi primi anni è sempre quella: muovere guerra al Seicento. Per rendere più regolare l’opera sua, secondo i precetti della scuola classica, gli parve bene ricorrere al verso endecasillabo, al gran verso tragico, come aveva fatto per il Belisario e per la Rosmonda; stabilì l’azione in Castiglia, soppresse del tutto l’Arlecchino (il gracioso Catalinon del testo spagnolo, lo Sganarello di Molière) e le altre maschere, soppresse l’episodio della pescatrice (Tisbea nell’autore spagnolo, Rosalba nell’italiano), osò sopprimere sopra tutto la famosa cena con la statua del Commendatore semovente e parlante, cioè quell’elemento fantastico e soprannaturale che formava la parte più caratteristica nelle rappresentazioni del dramma tradizionale, popolare in Spagna in Francia in Italia; e gli parve di aver fatto abbastanza per ottenere l’approvazione dei letterati del tempo, riformatori del teatro. Così il Don Giovanni finì col perdere l’originalità pittoresca e ogni potenza d’arte. Questo tentativo di voler donare moralità e regolarità e decoro allo scenario italiano fu fatale al giovane Goldoni, tradito ingenuamente dai vecchi pregiudizi scolastici e troppo ancora devoto ai consigli dello Zeno. Egli distrusse il Don Giovanni. Il suo eroe non è più che un vano manichino, un dissoluto, un bugiardo qualsiasi, non più il giovane seduttore e trionfatore di tutte donne, nè il genio del male, ma una specie di Lelio senza colore e vigore. Un furioso, un forsennato diventa poi nella penultima scena. Tutto è qui ancora falso, tutto fuori del reale, tutto fuori del mondo goldoniano e dell’arte goldoniana. Se ne accorse da vecchio l’autore e condannò questo infelice componimento (v. Mémoires, partie I, ch. 39) in cui il giovane dottor Goldoni era sceso al di sotto della Rosmonda e del Belisario. (“Il dramma è scritto un po’ ad occhi chiusi”, osserva giustamente il Farinelli, “alla carlona, come veniva, senza troppe preoccupazioni per l’arte„: l. c., pag. 76).
Quando lo scrisse era l’autunno del 1735 (non ’36, come si legge in testa alla commedia nell’ed. Paperini e in quelle che poi seguirono): aveva allora ventott’anni, e portava in cuore una lieve ferita amorosa infertagli dalla Passalacqua e dal Vitalba. Quasi certamente le avventure del comico Vitalba “damerino di professione, avvezzo a dominare sul cuore principalmente delle sue compagne di scena” (vol. I, pag. 117), gli fecero ricordare le geste di don Giovanni Tenorio, e il tradimento della Passalacqua gli suggerì il desiderio di vendicarsi sulle scene stesse del teatro. Nella tragicommedia goldoniana la parte comica è rappresentata quasi interamente dai personaggi di Carino o Carlino, ossia il dottorino Goldoni, e da Elisa, ossia l’attrice napolitana Elisabetta D’Afflisio detta Passalacqua, “giovane spiritosissima” che cantava, ballava, recitava in serio e in giocoso, tirava di spada, giocava la bandiera”, “donna la più scaltra, la più fina, la più lusinghiera del mondo” (vol. I, pag. 112) di cui si ricordò per tutta la vita il creatore di Mirandolina. L’episodio, corrispondente in parte a quello di Carlotta e Pierrot nel Convitato di Molière, e di Aminta e Patricio nel testo spagnolo, occupa quasi per intero il secondo atto e riprende poi nelle ultime scene del terzo e del quinto. Benchè l’autore in quella falsa veste poetica apparisca quanto mai goffo e impacciato, qui spunta, libero da modelli e da altri impacci, Carlo Goldoni, cioè un primo indizio del futuro scrittore comico, nella pittura del carattere femminile. Quando il nostro Carlino, smesso il paludamento tragico che aveva indossato per compiacere l’amico e attore Casali, troverà la sua via, l’astuta Elisa diventerà, nell’opera lenta della creazione artistica, la Locandiera. Ma occorrono quasi vent’anni di esperienza e di prove. Intanto fin d’ora il dottorino veneziano si avvia naturalmente verso la commedia e il pubblico del teatro di San Samuele applaude. Non c’è dubbio che se il Dissoluto o, come lo chiamavano impropriamente i comici, il Nuovo Convitato (v. anche una lettera del Vitalba pubblicata da Aldo Ravà nel Marzocco, 20 luglio 1013), si potè ripetere per più sere e chiuse il carnovale del ’36 (Mémoires, Partie I, ch. 39), il merito maggiore si deve all’episodio di Elisa Passalacqua. - Pochi mesi dopo il Goldoni sposava a Genova la Nicoletta.
Soltanto la bravura degli attori salvò per qualche tempo il Dissoluto che lo stesso autore giudicava indegno della stampa. Può darsi che tornasse qualche volta sulle scene, come si legge nella lettera di dedica al Grimani, ma furono recite sporadiche di nessuna importanza: pare lo recitasse qualche volta il Medebach (per es. a Modena, nel 1754: v. Modena a C. Goldoni nel 2.° centenario dalla sua nascita, Modena, 1907, pag. 327); ma ignoro se il Dissoluto rappresentato per due sere nel teatro di San Salvatore (o San Luca), nel carnovale del 1765, fosse proprio di Goldoni (Diario Veneto, n. 28). Tutti quelli che scrissero più tardi in Italia sul teatro goldoniano, trascurarono questo misero tentativo e fecero bene. Fece male il Rabany a indugiarvisi per il solito confronto con Molière, e per scoprire l’imitazione dell’Aminta e del Pastor fido nell’episodio della Passalacqua e del Goldoni (C. G., Paris, 1896, pp. 263-267). Voler poi cavare dal Dissoluto, che risente tutta la fretta dell’improvvisazione e l’ingenuità dell’inesperienza giovanile, dei giudizi generali sull’arte goldoniana, parmi errore grave e manifesto. Troppo a lungo ragionò anche Maria Ortiz sul fascino della leggenda dongiovannesca che il Goldoni sentì o non sentì (Il canone principale della poetica goldoniana, Napoli, 1905, pp. 77-78). E invano il Farinelli rimpianse che il Gozzi, autore delle Fiabe, non ci donasse lui, invece del Goldoni, il Don Giovanni con la statua che cammina e che parla (Giornale Storico, l. c., pag. 74). Non è vero che Carlo Gozzi fosse “meno ragionatore e calcolatore, più poeta insomma del Goldoni”, mai e mai; nè è vero che ci potesse dare un capolavoro. Il suo don Giovanni è Sinadab, il re libidinoso nella Zobeide ( 1763): non sembra ch’egli potesse immaginare altrimenti l’eroe leggendario. Anche De Bévotte insiste troppo sull’informe sgorbio poetico del Dissoluto goldoniano, che non è degno di una minuta analisi (La légende de don Juan cit., pp. 170-177: il solito ridicolo raffronto col Festin di Molière era stato fatto da Mahrenholtz, Molière’s Leben und Werke, Heilbronn, 1881). E il De Vico? Non si capisce qui se voglia difendere il Goldoni o umiliare il Molière (Per un parallelo letterario mal fatto, Roma, Albrighi-Segati, 1913, pp. 75-84). Anche Chatfield-Taylor nomina invano l’autore del Festin (Goldoni, New-York, 1913, pp. 546-548): è più giusto allorquando ricorda che il giovane veneziano scrisse il Dissoluto per vendicarsi della Passalacqua (p. 547) e per mostrare quanto un artista possa deviare dal suo cammino (p. 120). Nulla aggiunge di nuovo Schmidbauer (Das Komische bei G., Munchen, 1906, pp. 65-67) e nulla di notevole, oltre il solito raffronto col Festin, ci offre M. Penna (Il noviziato di C. G., Torino, 1925, pp. 30-36. L’elemento pastorale che il P. scopre, c’era già a piene mani nella Griselda, ma qui è solo sfiorato e subito abbandonato; e il Lalli e l’Arcadia non c’entrano. Piuttosto è da notare, come nella Griselda, lo sfogo del contadino contro i cittadini, che diviene più audace e più vero di quel che fosse nei vecchi drammi pastorali). Migliori assai le sobrie note di R. Bonfanti nel suo diligentissimo studio sulla “Donna di garbo" di C. G. (Noto, Zammit, 1899, pp. 42-43 e anche p. 36 n.).
Nel 1756 Gasparo Gozzi stampava a Venezia nel tomo II delle Opere del Molière ora nuovamente tradotte (presso G. B. Novelli), il Don Giovanni ovvero il Convitato di Pietra: e la traduzione meriterebbe, mi sembra, d’essere conosciuta e apprezzata (per le versioni precedenti v. Toldo cit. e Ces. Levi, Studii Molieriani, bibliografìa pp. 191, 195, Palermo, Sandron, 1922). Ma ormai di don Giovanni s’impadronivano il ballo e la musica (vedasi, oltre Farinelli, Toldo, op. cit., pp. 459-461, n.). Ancora alcuni anni e Giovanni Bertati scriverà Il capriccio drammatico, rappresentazione per musica (Venezia, carnevale 1787, teatro S. Moisè), in due parti, di cui la seconda s’intitola Don Giovanni ossia il Convitato di Pietra. Di questo libretto dell’umile poeta trivigiano s’impadronì subito il famoso avventuriere Lorenzo Da Ponte, nato nella stessa provincia, e rifacendone più abilmente la disgraziata verseggiatura, e aggiungendovi alcune lepide scene, creò all’improvviso Il dissoluto punito ossia il Don Giovanni, opera buffa in due atti, che le note divine di Mozart (Praga, 29 ott. 1787, Teatro Nazionale) resero celebre in tutto il mondo. Si veda il paziente e diligente raffronto che fece Angelo Marchesan tra il libretto del Bertati e quello del Da Ponte: cap. XI del volume intitolato Della vita e delle opere di L. Da Ponte, Treviso, 1900. Sul Bertati uscì di recente un opuscolo del dott. Ulderico Orlandi, Il librettista del “Matrimonio segreto”, Roma, 1926, ed. dalla Rivista Nazionale di Musica. È quanto mai strano che il De Bévotte non conosca il libretto del Da Ponte e non ricordi neppure il nome del poeta cenedese, mentre accenna al Saggio amico dell’Albergati che con la leggenda dongiovannesca non ha da che rare. Il Farinelli dice che il Da Ponte, “guidato da un sentimento musicale finissimo”, “potè scrivere un buon libretto d’opera, ma un dramma mediocre“. Sul capolavoro musicale fra i giudici recenti piacemi ricordare Camille Bellaigue, L’opera mélodique - Mozart, in Revue des deux mondes, 15 XII 1901; G. A. Cesareo, Il Don Giovanni di Mozart, in Fanfulla della domenica, 27 VI 1886; E. Fiorilli, Dal Burlador de Sevilla al Don Giovanni di Mozart, in Marzocco, 27 XI 1910; e A. Della Corte, “Là ci darem la mano...”, nella Stampa di Torino, 23 I 1921). Così anche l’Italia ebbe, all’infuori del teatro dell’arte, il suo Don Giovanni popolare, umile cosa invero, molto lontano certamente dallo spirito religioso spagnolo e dalla potenza drammatica francese, molto povero d’arte letteraria, ma pur leggero e giocondo come Leporello, il nuovo servo, e, benchè volgaruccio, non senza la grazia del Settecento in cui gli toccò nascere.
Poi venne il Romanticismo.
Molto importante la lettera di dedica del Goldoni a S. E. Michele Grimani. Questo patrizio che merita d’essere ricordato nella storia dei teatri veneziani, nacque ai 2 gennaio 1697 nell’avito palazzo di S. Maria Formosa (edificato nel secolo XVI dal famoso cardinale) da Giovanni Carlo e da Maria Pisani. Ebbe tre fratelli, di cui l’uno maggiore d’età, e tre sorelle maritate. Sposò nel gennaio del 1736 Pisana Giustiniani Lolin; e le sue nozze furono cantate con un sonetto e con alcune ottave dal giovane Goldoni (v. Fogli sparsi del Gold. raccolti da A. G. Spinelli, Milano, 1885, p. 178) che pochi mesi dopo prendeva in moglie Nicoletta Connio. - Appartenevano al nobiluomo Grimani due dei quattro più celebri teatri veneziani. Quello di S. Giovanni Grisostomo fu per molto tempo, fin dall’anno 1678 in cui sorse, il primo teatro d’opera di tutta Europa per ampiezza, per ricchezza, per copia di spettacoli, per fama di cantanti; ma nel Settecento decadde dopo alcuni decenni, come era decaduta l’opera seria in Italia, e nel 1747 cominciò ad accogliere le compagnie comiche. Più antico il S. Samuele (1665), dedicato alla commedia, benchè non potesse rivaleggiare col teatro di S. Salvatore o S. Luca, e ammettesse dopo il 1710, alternando, l’opera in musica, specialmente quella di genere buffo che andava prevalendo. - Fin dal 1734 il Goldoni entrò ai servigi del Grimani come assistente, e nel ’36 ottenne la direzione vera e propria dei due teatri, ma lasciò quella del S. Gio. Grisostomo allorchè nel ’41 fu ceduto a una società di gentiluomini; e nella primavera del ’43 abbandonò Venezia.
Crede qualcuno, e non a caso, che nel Prodigo (1739), in quel famoso “Caro vecchio, fe vu” di Momolo (A. I, sc. 2) il commediografo alludesse a S. E. Nel 1747 un incendio distrusse il S. Samuele, ma il teatro fu subito ricostruito e riaperto nella Sensa del ’48; così rinnovato e abbellito parve più adatto alle opere in musica e diventò dall’autunno del 1751 il vero teatro per l’opera buffa o giocosa, superando quello di S. Cassiano. Il Grimani aveva assunto nel ’49 l’abate Chiari quale poeta comico e rivale del Goldoni, ma dopo il carnevale del 1753 il Sacchi, il Vitalba e altri famosi comici abbandonarono la vecchia compagnia Imer e partirono per Lisbona, e il Chiari passava sul teatro di S. Angelo, presso il Medebach. Intanto il Goldoni, mentre attendeva alla riforma della commedia italiana, scriveva pure alcuni drammi giocosi, la più parte musicati da Baldassare Galuppi il Buranello e rappresentati sul teatro di S. Samuele, dove proprio nell’ottobre del ’54 trionfò il Filosofo di campagna: di qui il riavvicinamento del buon dottore e del nobiluomo Michele. - Nel ’55 poi il Grimani iniziò la fabbrica del nuovo teatro di S. Benedetto per gli spettacoli d’opera seria e lo inaugurò la sera di S. Stefano dell’anno stesso. In quello di S. Samuele si stabilì nell’ottobre del 1758 la compagnia di Antonio Sacco, reduce dal Portogallo, che vi recitò nel ’61 e nel ’62 le prime Fiabe di Carlo Gozzi; e a S. Gio. Grisostomo nell’ottobre del ’60 venne il Medebach, abbandonando il teatro dei suoi trionfi a S. Angelo, e vi stette quasi tre interi lustri, finchè non sorse la compagnia di Maddalena Battaglia. Ma ormai Michele Grimani si spegneva in tarda età ai 23 agosto del 1775, lasciando due figli maschi e due figlie maritate, e veniva sepolto nell’arca di famiglia nella chiesa di S. Francesco della Vigna. Di lui, della sua dolcezza e bontà e generosità parlò benevolmente il Goldoni nelle memorie che scrisse in italiano (vol. I della presente ed., pag. 103) e in quelle stampate in Francia nel 1787.
G. O.
D. Giovanni Tenario o sia il Dissoluto fu stampato la prima volta a Bologna senza il permesso dell’autore, non si sa in quale anno. Lo pubblicò il Goldoni nel 1754, nel t. VII dell’ed. Paperini a Firenze: fu ristampato più volte a Bologna (Pisani, VII, 1754; Corciolani, X, ’55; Lucchesini, ’75), a Pesaro (Gavelli, VII, 1754), più volte a Venezia (Bettinelli, VIII, 1755; Savioli, VI, ’71; Pasquali, XIV, ’74; Zatta, cl. 3, V, '92), a Torino (Fantino e Olzati, VIII, 1756; Guibert e Orgeas, XIII, ’74), a Livorno (Masi, XIII, 1790), a Lucca (Bonsignori, XIX, 1790) e forse altrove nel Settecento. - Il testo delle varie edizioni non differisce per nulla, si può dire, ma è qua e là scorretto.