Don Chisciotte della Mancia/Capitolo XXXVII
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Traduzione dallo spagnolo di Bartolommeo Gamba (1818)
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CAPITOLO XXXVII.
Continua la storia della celebre principessa Micomicona, con altre graziose avventure.
Sancio gli diede i panni, e nel tempo che si vestiva, il curato raccontò a don Fernando ed agli altri le pazzie di don Chisciotte e l’artifizio usato per cavarlo dalla montagna, dov’erasi intestato di voler restare per immaginati sdegni della sua signora. Fece palesi nel tempo stesso le avventure narrate da Sancio, di che non poco si divertirono e risero, parendo loro quello che pure sembrava agli altri, cioè che il genere della sua pazzia fosse il più strano che trovar si potesse in cervello uscito dei gangheri. Disse in oltre il curato che non potendo oramai andar oltre col suo disegno, era necessario inventarne un altro per tentare di ricondurre don Chisciotte al suo paese. Cardenio propose di seguitare la finzione, sperando che Lucinda farebbe e rappresenterebbe a sufficienza il personaggio di Dorotea. “No, disse don Fernando, non lo permetto, anzi bramo che Dorotea prosegua la sua invenzione, ch’io mi darò tutto il pensiere di trovare il rimedio per questo povero cavaliere, quando il suo paese non sia di qua molto lontano. — Non lo è più di due giornate, gli risposero; ed egli: — Anche se fossero quattro le camminerei volentieri per desiderio di condurre a fine una buon’opera„.
Intanto uscì fuori don Chisciotte armato di tutto punto, con in testa l’elmo di Mambrino, tuttochè ammaccato, con la rotella al braccio e con in mano il suo tronco o lancione. Don Fernando e non meno di lui tutti gli altri restarono attoniti e maravigliati vedendo la strana figura di quest’uomo, quel viso sì lungo, secco e giallo, la sproporzione delle sue armi e il suo grave contegno. Se ne stettero cheti per sentire ciò che dicesse, ed egli posti gli occhi con molto sussiego e gravità la bella Dorotea, parlò in questa maniera:
— Sono informato, vezzosa signora, da questo mio scudiere come la grandezza vostra si è ridotta al niente, e fu distrutta la vostra condizione, perchè di regina e padrona che solevate essere, vi siete trasformata in una privata donzella. Se ciò è avvenuto per ordine del re Negromante vostro padre, immaginando che non poteste da me avere il necessario e debito aiuto, dico ch’egli va errato di grosso, nè conosce come dovrebbe le storie cavalieresche, perchè se le avesse attentamente lette e considerate pesatamente e per sì lungo tempo come ho fatt’io, avrebbe trovato ad ogni passo che tanti altri cavalieri di riputazione più scarsa della mia hanno condotto a fine imprese assai più difficili di questa; chè non è poi gran cosa ammazzare un gigantuzzo sia pure a sua voglia arrogante: e sappiate che non sono scorse molte ore da che io mi trovai a cimento con esso lui, e... Ma sarà meglio passarla in silenzio per non essere tacciato di menzognero: lo dirà il tempo che tutto discopre, e quando noi meno ci penseremo. — Voi avete cozzato con due otri, e non già con un gigante, soggiunse l’oste a tal punto„. Don Fernando gli accennò di tacere non volendo che s’interrompesse in modo alcuno il ragionamento di don Chisciotte, il quale proseguì a questo modo: “Dico in fine, alta e diseredata signora, che se per la da me enunciata cagione vostro padre ha operato una tale metamorfosi nella vostra persona, voi non gli avete a prestare credenza alcuna, non vi essendo pericolo al mondo che non sia superabile dalla mia spada; colla quale atterrando la testa del vostro nemico, io fra brevi giorni porrò sulla vostra una corona„.
Tacque don Chisciotte aspettando la risposta della principessa: la quale avendo inteso che don Fernando voleva ch’ella proseguisse la finzione, finchè don Chisciotte fosse ricondotto al suo paese, con molta grazia e gentilezza così soggiunse: — Qualunque sia colui che vi ha detto, valoroso cavaliere dalla Trista Figura, ch’io mi sono cangiata e tolta dall’essere mio, non vi disse la verità perchè la stessa ch’io era ieri sono anche oggidì; vero è peraltro che un qualche cambiamento hanno in me prodotto certi tratti di mia buona sorte, che fu la migliore ch’io mi potessi desiderare; ma non ho lasciato però di essere quella di prima e di conservare la stessa fiducia nel valore del vostro invincibile e invulnerabile braccio di cui intendo valermi; perciò, signor mio, la bontà vostra restituisca l’onore al padre che mi ha generata; ed anzi lo tenga in conto d’uomo saggio e prudente, avendo egli trovato, mercè la sua scienza, via sì facile e sicura per prestare rimedio alla mia disgrazia; nè io dubiterò mai che se non fosse stato per mezzo vostro, non sarei giunta a godere della presente sì fortunata mia sorte, di che quanti son qui, tutti mi sono testimonii: resta adesso che dimani mattina ci mettiamo in cammino, perchè oramai è troppo inoltrato questo giorno: il rimanente del buon successo io lo rimetto nelle mani della provvidenza e nel vostro gran cuore„. Parlò a questo modo la valente Dorotea; dopo di che don Chisciotte si rivolse a Sancio, e tutto sbuffante di collera si fece a dirgli: “Ora sì mi converrà dirti, Sanciuzzo mio caro, che sei il più gran furfante che si trovi in Ispagna; dimmi, ladrone vagabondo, non mi hai tu or ora fatto credere che questa principessa erasi trasformata in una donzella che si chiamava Dorotea, e che la testa che io credeva di aver tagliata al gigante era il malanno che se ne porta ogni cosa, con la giunta di altre infinite bestialità che mi avvolsero nella maggior confusione in cui mi fossi mai trovato nel corso della mia vita? Al corpo di... (e guardò il cielo stringendo i denti), che starei per isbranarti, affinchè dal tuo esempio imparassero a non essere bugiardi quanti scudieri di cavalieri erranti saranno quind’innanzi nel mondo. — Si calmi vossignoria, mio signore, rispose Sancio, chè potrei bene essermi ingannato per quello che risguarda il cambiamento della signora principessa Micomicona; ma per quanto si appartiene alla testa del gigante, o almeno al foramento degli otri e all’essere vino rosso il creduto sangue, non mi sono, viva Dio, ingannato; perchè gli otri se ne stanno là forati presso al capezzale del suo letto, ed il vino rosso ha allagato tutta la camera: e s’ella non lo crede se ne accorgerà al friggere delle uova; voglio dire che lo vedrà quando qui il signor oste le domanderà il pagamento dei danni sofferti; e in quanto poi all’altro particolare della signora regina, non vi è certamente chi più di me si rallegri fino al cuore che essa seguiti ad esser tale, perchè ci ho la mia parte come ogn’altro. — Ora sì, o Sancio, disse don Chisciotte, che ti conosco per uno scimunito! ti perdono, e basta. — Basta d’avanzo, disse don Fernando, nè di ciò più si parli: e poichè la signora principessa vuol differire la partenza a dimani, poco restando di questa giornata, così si faccia, e passiamo intanto questa notte in buona compagnia, finchè nasca il nuovo giorno, in cui noi tutti ci faremo seguaci al signor don Chisciotte, perchè vogliamo essere testimonii delle valorose e inaudite geste che egli ha da compiere nel corso di questa impresa che ha tolta a tutto suo carico. — Quello son io che ho debito di servirvi e di accompagnarvi, rispose don Chisciotte, e molto mi è grato il favore che mi s’imparte e la buona opinione in cui mi veggo tenuto; e per certo la manterrò, o mi costerà la vita, e più ancora se più possa darsi„. Passarono allora fra don Chisciotte e don Fernando molti gentili e cortesi complimenti che vennero interrotti dall’arrivo nell’osteria di un passeggiere, il quale sembrava agli arnesi un cristiano tornato recentemente dalla terra dei Mori. Portava una casacca di panno turchino con le falde corte, con mezze maniche e senza collare; erano azzurri anche i suoi calzoni e dello stesso panno; era coperto da un berrettino bene assettato in testa, ed aveva un paio di borzacchini alla moresca, e ad armacollo una scimitarra damaschina. Lo seguitava una donna seduta sopra un giumento, vestita alla moresca, coperta con un velo che le scendeva giù dal capo, ed era attaccato ad una cuffia di brocato: aveva un giubbone in dosso che arrivava fino a terra. Era l’uomo di robusto e gradevole aspetto, dell’età di quarant’anni o poco più, brunotto di colore, con lunghe basette e con barba molto aggiustata, di maniera che se fosse stato meglio vestito si sarebbe potuto arguire che fosse personaggio di qualche importanza. Domandò entrando nella osteria, una stanza, ed essendogli stato risposto che non ve n’era alcuna in libertà mostrò di averne dispiacere, ed appressatosi a quella che al vestito pareva un’Araba la invitò a smontare ricevendola fra le sue braccia. Lucinda, Dorotea, l’ostessa e Maritorna, curiose di vedere quel vestito nuovo per loro, si fecero intorno alla forestiera; e Dorotea, che fu sempre graziosa, costumata e prudente, sembrandole che sì la donna come il compagno suo fossero in molta angustia per non trovar una stanza per loro soli, disse: “Non vi prendete pensiero, signora mia, per la mancanza di quei comodi dei quali voi abbisognate, come avvien pur troppo spesso nelle osterie; che se vi piacesse di prendere qualche riposo in compagnia di noi altre (accennando Lucinda) forse che in tutto il vostro viaggio non avrete trovato una più cordiale e cortese accoglienza„. A tutto questo nulla rispose la incognita e coperta donna, nè altro fece che alzarsi di dove era seduta, e incrocicchiate le mani sul petto ed abbassata la testa, si chinò in segno di gratitudine. Il suo silenzio e gli atti suoi la fecero credere senza dubbio una Mora, e che non sapesse intendere i cristiani. Sopraggiunse in questo lo schiavo ch’erasi prima occupato in altre faccende, e vedendo che stavano le donne tutte facendo cerchio alla sua compagna, e che nulla ella rispondeva a quanto le dicevano, così parlò: — Signore, questa donzella intende soltanto la nostra lingua, nè altra ne sa parlare, e perciò nè ha risposto nè risponde alle vostre dimande. — Nulla noi le chiediamo, disse Lucinda, se non che la invitiamo a passare questa notte in nostra compagnia esibendole una parte del luogo in cui riposeremo noi stesse, ed offrendoci con quell’affetto e cortesia che obbligano a compiacere gli stranieri tutti che ne hanno bisogno, e specialmente le persone del nostro sesso. — Vi bacio le mani, signora mia, rispose lo schiavo, e per lei e per me, e apprezzo grandemente, siccome debbo, il favore offertoci, che molto grande debb’essere se viene da persone sì ragguardevoli come sembra che siate voi. — Ditemi, o signore, soggiunse allora Dorotea: questa straniera è ella cristiana o mora? poichè il suo abito e il silenzio che conserva fanno supporre che sia quale noi non vorremmo che fosse. — Mora, disse lo schiavo, e nell’arnese e nel corpo, ma cristiana nell’anima, avendo un vivo desiderio di farsi tale. — Non è dunque battezzata? replicò Lucinda. — Non lo è finora, rispose lo schiavo, perchè non se n’ebbe opportunità, da che si tolse da Algeri sua patria, nè si trovò sin qui in frangente sì vicino alla morte che obbligasse a battezzarla prima di essere appieno istrutta delle cerimonie tutte comandate dalla santa nostra religione: ma se a Dio piace, adempirà quanto prima a questo sacro dovere e con la solennità che si conviene alla sua condizione, ch’è assai maggiore di quello che può apparire dal suo e dal mio vestimento„.
Queste risposte fecero nascere negli astanti la brama di sapere chi fosse la mora e lo schiavo; ma nessuno si permise per allora di progredire nelle dimande, conoscendo che quello era tempo da procurare ad ambedue qualche riposo, piuttosto che rendersi loro importuni con soddisfazione della propria curiosità. Dorotea dunque la prese per mano, se la fece sedere vicina, e la pregò che si togliesse il velo dal viso. Essa mirò lo schiavo, come se gli domandasse di farle sapere che cosa voleasi da lei, e quello che dovesse ella fare. Le disse egli in lingua arabica che domandavano che si scoprisse, e che così facesse. Alzò colei il velo e lasciò scorgere un sembiante sì vago, che Dorotea la trovò più bella di Lucinda, e questa più di Dorotea, e conobbero i circostanti tutti che se v’era chi agguagliare potesse la bellezza delle due sopraddette, dovea darsene il vanto alla Mora, non mancando anche chi la considerasse alcun poco prevalente; e siccome la bellezza ha prerogative e grazie per cattivarsi gli animi e rendere soggetta la volontà, così si unirono tutti nel desiderio di servire e di accarezzar la vezzosissima Mora. Domandò don Fernando allo schiavo come essa si chiamasse, ed egli rispose: “Chiamasi Lela Zoraida;„ ma avendo la Mora compreso la dimanda fatta allo schiavo si affrettò a dire con molta grazia: “No, no, Zoraida: Maria, Maria,„ dando con ciò a conoscere che si chiamava Maria e non Zoraida. Queste parole ed il vivo affetto con cui ella le accompagnò, commossero l’animo dei circostanti, e delle donne singolarmente che sono di loro natura tenere e compassionevoli. Lucinda l’abbracciò con molta affezione, dicendole: “Sì, sì, Maria, Maria;„ cui rispose la Mora: — Sì, sì Maria, Zoraida macange,„ che significa no. Ma intanto era sopraggiunta la notte, e, d’ordine dei compagni di don Fernando, l’oste aveva imbandita una cena la migliore che si potesse ottenere. Arrivato il momento, si assisero tutti ad una lunga tavola a guisa di quelle usate nei tinelli domestici, non essendovene nè di tonde, nè di quadre nell’osteria. Vi fecero sedere nel primo posto don Chisciotte, volendo la principessa Micomicona che per essere il suo difensore le stesse a lato; indi seguitavanli Lucinda e Zoraida; don Fernando e Cardenio erano dirimpetto a loro; poscia lo schiavo e gli altri cavalieri; ed accanto alle signore il curato e il barbiere. Cenarono tutti in grande allegria, accresciuta dal vedere che don Chisciotte, lasciando di prendere cibo, e mosso dallo spirito stesso che lo spinse al lungo ragionamento quando cenò coi caprai, così si fece a parlare: “Veramente, quando ben si considera, signori miei, grandi e inaudite cose si veggono da quelli che professano l’ordine della errante cavalleria. E chi sarà mai in fatti ch’entrando in questo punto per la porta di questo castello, e vedendoci qui come ora ci troviamo, giudichi e creda che noi siamo quelli che noi siamo in effetto? Chi potrebbe dire che questa signora che mi sta a fianco, sia la famosa regina da noi tutti venerata, e che io sia quel cavaliere dalla Trista Figura, di cui suona sì altamente la fama? Non si dee rivocare in dubbio ormai che quest’arte e questo esercizio non sia superiore a quanti ne trovarono gli uomini: e tanto più si ha da tenere in pregio quanto più va soggetto a cimenti inauditi. Si tolgano a me innanzi coloro che hanno detto che le lettere sono da tenersi in maggior pregio dell’armi; chè sia chi essere si voglia certamente non sa quello che gli esca di bocca. A sostegno delle loro ragioni asseriscono costoro che i travagli dello spirito eccedono quelli del corpo, e che le armi si esercitano solamente col corpo, come se fossero esercizio da facchini alle quali basti esser dotato di gran vigoria, e come se non provasse angustie infinite l’animo del guerriero che trovasi alla testa di un esercito o difende un’assediata città collo spirito non meno che col corpo. Ed in fatti riflettasi che con le sole forze materiali non è possibile giungere a conoscere o congetturare i divisamenti dell’inimico, i suoi disegni, gli stratagemmi, le difficoltà, o premunirsi contro i temuti danni; cose tutte proprie unicamente dell’intelletto, e nelle quali non può punto nè poco parte veruna del corpo. Ora se le armi vogliono l’opera dello spirito come le lettere, vediamo presentemente quale dei due spiriti soffra maggiore travaglio, se quello del letterato o quello del guerriero. Ciò risulterà ad evidenza quando si ponga mente agli effetti ed al fine a cui ognuno di loro s’incammina; perchè quello scopo è certo da tenersi in maggior conto che volto è a fine più nobile e più cospicuo. La mira cui tendono le umane lettere (non intendo di parlare ora delle divine, il cui oggetto è quello di condurre le anime al cielo; chè ad un fine sì augusto nessun altro può andare del pari) è la retta amministrazione della giustizia distributiva, il dare il suo a ciascheduno, il prestarsi colla più grande premura e diligenza affinchè sieno eseguite a dovere le buone leggi: assunti a vero dire grandi, nobili e degni di essere celebrati altamente1. Non sono però oggetti di quella celebrità che merita l’esercizio delle armi; le quali hanno per iscopo e per fine la pace, ch’è il maggior bene che possa essere dagli uomini desiderato nella presente vita. Ed in fatti le prime felici novelle diffuse per lo mondo e ricevute da tutti gli uomini, furono quelle che recarono gli angeli nella notte della natività, quando cantavano dall’alto delle sfere: “Sia gloria nei cieli e pace nella terra agli uomini di buona volontà:„ ed il saluto che insegnò il migliore maestro del cielo e del mondo ai suoi diletti e colleghi fu che all’entrare in qualche abitazione dicessero: “Sia pace in questa casa;„ e molte altre forme insegnò loro, come: “Vi do la mia pace; vi lascio la mia pace; sia la pace con voi;„ come il miglior tesoro che da così gran mano potesse donarsi; gioiello senza il quale non si può godere di alcuna felicità in terra nè in cielo. Questa pace è il vero fine della guerra; poichè arme e guerra sono una medesima cosa. Posta la verità che la pace dia fine alla guerra, e che prevale per sì augusto titolo all’oggetto cui mirano le lettere, passiamo ora al confronto delle fatiche materiali che stanno a carico dell’uomo di lettere con quelle che sono proprie dell’uomo d’arme, e veggasi quali siano di maggior peso„.
A questa guisa e con tanto sodo ragionare andava proseguendo don Chisciotte il discorso in modo che condusse gli astanti a non considerarlo più come pazzo: anzi perchè i più erano cavalieri, ai quali sono predilette le armi, lo ascoltavano assai volentieri; ed egli proseguì in questa maniera: “Dico ora dunque che gli esercizii corporali del letterato sono questi: principalmente la povertà, non già perchè tutti sono poveri, ma per supporre il peggio di siffatta condizione. E dicendo povertà, sembrami che non si possa dire nulla che più vivamente dipinga la sua infelice fortuna; perchè il povero nulla ha di buono. Sostiene il letterato la povertà soffrendo la fame, il freddo, la nudità colla giunta di tanti e tanti altri disagi; ma ad onta di tutto ciò non è a sì disperato partito che egli non mangi, benchè un po’ più tardi del costume, approfittando se non altro di quello che avanza ai ricchi, ch’è il più grande avvilimento a cui possano condursi i letterati, e che da loro si dice vivere allo scrocco; nè manca poi al letterato il modo di sottrarsi al freddo andandosi se non altro a scaldare a qualche braciera o all’altrui camino, per la qual cosa se non caccia da sè i brividi interamente, li mitiga almeno, e finalmente dorme coperto la notte. Non voglio estendermi ad altre minutezze, come sarebbe a dire l’essere senza camicia e senza scarpe, l’avere il vestito logoro e spelato, e quel divorare con tanta ingordigia quando per buona sorte venga il letterato ammesso a qualche banchetto. Ma battendo costoro la strada aspra e difficoltosa che ho dipinta, qua inciampando, cadendo di là, costà rimettendosi, e tornando quivi a cadere, pervengono pur finalmente a conseguire l’oggetto proposto: ed in fatti abbiamo veduto che molti letterati, dopo essere passati per queste sirti e per queste cariddi, portati a volo da una propizia fortuna, riescirono finalmente a poter governare e comandare nel mondo; mutata la fame in sazietà, in refrigerio il freddo, la nudità in ricchi vestiti, il letto di stuoia in morbide piume ed in sontuosi damaschi: premio giustamente attribuito al merito loro. Contrapposte però dopo tutto questo, e messe a paragone le corporali loro fatiche con quelle del guerriero, restano di gran lunga al di sotto, come ora m’impegno di dimostrare„.
Note
- ↑ Apparisce di qui che il Cervantes sotto il nome di letterati intendeva gli uomini consacrati alla magistratura.