<dc:title> L'ingegnoso idalgo don Chisciotte della Mancia Volume primo </dc:title><dc:creator opt:role="aut">Miguel de Cervantes</dc:creator><dc:date>1605</dc:date><dc:subject></dc:subject><dc:rights>CC BY-SA 3.0</dc:rights><dc:rights>GFDL</dc:rights><dc:relation>Indice:Don Chisciotte (Gamba-Ambrosoli) Vol.1.djvu</dc:relation><dc:identifier>//it.wikisource.org/w/index.php?title=Don_Chisciotte_della_Mancia/Capitolo_XXXVIII&oldid=-</dc:identifier><dc:revisiondatestamp>20230914101009</dc:revisiondatestamp>//it.wikisource.org/w/index.php?title=Don_Chisciotte_della_Mancia/Capitolo_XXXVIII&oldid=-20230914101009
L'ingegnoso idalgo don Chisciotte della Mancia Volume primo - Capitolo Trentottesimo Miguel de CervantesBartolommeo GambaDon Chisciotte (Gamba-Ambrosoli) Vol.1.djvu
Continua il singolare discorso di don Chisciotte sopra le armi e le lettere.
D
on Chisciotte ripigliò il suo ragionamento, dicendo: “Poichè abbiamo considerato l’uomo di lettere dal lato della povertà e delle sue conseguenze, vediamo adesso se più ricco è il soldato, e conosceremo che non avvi chi di lui sia più povero nella povertà stessa; mentre egli non ha che una misera paga, e questa pure tardi o non mai gli viene corrisposta, nè gli rimane se non quello che si procaccia colle sue mani con notabile pericolo della vita o della coscienza. Tanta suol essere talora la sua nudità che un collare trinciato e logoro gli serve di vestito e di camicia, e nel verno, in campagna aperta suole difendersi dalle inclemenze del cielo col solo fiato che gli esce di bocca; il quale movendo da un corpo vòto, mi fo a credere che debba essere freddo contro tutte le regole della madre natura. Quando poi sopraggiunge la notte, per ristoro di tanti disagi gli è bello e apparecchiato un letto; il quale non dirà mai che sia angusto, mentre può pigliarsi lo spazio di terra a lui occorrente, e voltarsi e rivoltarsi senza temere che le lenzuola si vadano raggomitolando. Aggiungasi a ciò l’obbligo rigoroso di non mancare ai doveri del suo esercizio; e in premio di tutto questo [p. 416modifica]nel giorno della battaglia, gli porranno sulla testa una laurea di fila per curarlo da qualche ferita che il lascerà malconcio per sempre. O se ciò non avvenga, e lo conservi e vivo e sano il pietoso cielo, rimarrà povero come prima; e per migliorare un pochino la sua condizione ci vorranno tanti rischi, che l’uscirne sano è un prodigio. Tutto al contrario accade dei letterati; i quali o a dritto o a torto sanno trovarsi compensi: e così maggiore è la fatica del soldato, e molto minore la speranza del premio. A tutto questo si potrebbe rispondere esser più facile premiare duemila uomini di lettere che trentamila soldati, perchè quelli si premiano con ufficii che debbono per necessità appartenere ad uomini studiosi, mentre ai soldati bisogna far parte delle cose proprie del padrone cui servono: ma ciò pure avvalora ancor più la mia proposizione. Ma lasciamo da parte questa difficoltà ch’è un labirinto di molto difficile uscita, e ritorniamo a trattare della preminenza fra le armi e le lettere; argomento tutt’ora indeciso. [p. 417modifica]Dicono alcuni che senza lettere non si potrebbero sostener le armi; perchè ha le sue leggi anche la guerra, e, tanto è a dir leggi, come lettere e letterati. A ciò rispondono le armi, che le leggi non potrebbero sostenersi senza di loro, mentre colle armi si difendono le repubbliche, si conservano i regni, le città vengono custodite, hanno sicurezza le strade, i corsari sono scacciati dal mare. Ora è manifesto altresì che debbesi avere una più grande estimazione a quella cosa che ha maggior prezzo. Costa tempo, veglie, fame, nudità, giramenti di capo, indigestioni di stomaco ed altri malanni di questa fatta, oltre a quelli da me riferiti, l’arrivare ad una eminente celebrità nelle lettere; ma per giungere al vanto di buon soldato, oltre tutto quello che soffre il letterato, le difficoltà si accrescono incomparabilmente, per essere ad ogni passo in procinto di perdere la vita. Qual cosa può mai arrivare ad un uomo di lettere, che somigli a quanto prova un soldato allorchè senta, per esempio, che l’inimico sta minando il sito dov’egli si trova, nè per questo può di là togliersi, nè fuggire il pericolo che gli sovrasta? Niente altro gli è permesso fuorchè avvertirne il suo capitano, affinchè accorra con qualche contramina, standosi però egli fermo [p. 418modifica]al suo posto con pericolo di volare al cielo senz’ale o di sprofondarsi senza volerlo. E se questo sembra pericolo di poco momento, vediamo se non ve n’abbia un maggiore nell’investirsi che fanno due galere in mezzo al mare, dove il soldato chiuso in brevissimo spazio si vede dinanzi tanti ministri di morte quanti sono i cannoni della parte contraria, non più lontani della lunghezza di una lancia; e vede che lo sdrucciolare di un piede lo farebbe andar a visitare i profondi seni di Nettuno: e a fronte di tutto questo, intrepido ed infiammato dall’onore che lo stimola, si fa bersaglio a tanto fuoco di artiglieria e procura di balzare per sì tremendo passo nel vascello nemico. Ciò poi che reca maggior maraviglia si è che caduto uno appena di dove non potrà più rialzarsi sino alla fine del mondo, un altro va ad occupare il suo posto; e se pur cada, un altro vi succede senza dar tempo al tempo della loro morte: valore e ardimento il più grande che possa darsi tra tutti i pericoli della guerra! Oh benedetti pure quei secoli nei quali non si conosceva la furia spaventevole degli infernali strumenti di artiglieria, l’inventore dei quali io reputo che ora trovi nell’inferno il premio della sua diabolica invenzione; per la quale fe’ si che un infame e codardo braccio dia morte ad un valoroso cavaliere! Ora dunque, ciò tutto considerato, io sto per dire che mi pesa fino all’anima di avere intrapreso questo esercizio di cavaliere errante in età si detestabile, come quella in cui viviamo; perchè quantunque nessun pericolo mi metta spavento, inorridisco al pensare che poca [p. 419modifica]polvere e poco piombo possano spegner quella celebrità a cui potrebbero sollevarmi per tutto il circolo della terra il valore del mio braccio e il filo della mia spada. Ma faccia il cielo ciò che di me ha disposto; chè tanto più io godrò della estimazione degli uomini, se arriverò a dar fine alle imprese cui aspiro, quanto più i pericoli ai quali mi cimenterò saranno grandi e maggiori di quelli affrontati dai cavalieri erranti dei passati secoli„.
Fece don Chisciotte questo lungo ragionamento nel tempo che gli altri stavano cenando, dimenticandosi di mangiare pur un boccone, tuttochè Sancio gli avesse insinuato di cenare anch’egli, e che avrebbe poi trovato tempo per discorrerla a suo piacimento. Venne in tutti coloro che udito lo avevano nuova compassione, considerando che un uomo, il quale sembrava avere intendimento sì retto e sì giudizioso ragionare, lo perdesse poi sì disgraziatamente se trattavasi della sua sciagurata e folle cavalleria. Soggiunse il curato che aveva avuto molte buone ragioni in tutto ciò che aveva detto in favore delle armi, e ch’egli, quantunque uomo di lettere e dottore, acconsentiva all’opinione di lui. Terminarono di cenare, levarono le tovaglie, e mentre l’ostessa, sua figlia e Maritorna assettavano il camerone di don Chisciotte della Mancia, dove avevano stabilito che in quella notte si raccogliessero le donne sole, don Fernando pregò lo schiavo arrivato colà con Zoraide di racrontargli le sue avventure. Rispose lo schiavo che farebbe di buon grado ciò che gli si dimandava, benchè temesse di non riuscire così a dilettarli come forse s’immaginavano. Ne mostrarono gradimento il curato e tutti gli altri, che di nuovo gliene fecero istanza, ed egli vedendosi pregare da tanti disse che non dovevano usarsi preghiere dove si potea comandare. “Stiensi dunque; soggiunse, attente le signorie loro, e udranno una narrazione veritiera, senza alcuna di quelle menzogne che sogliono in tali racconti frammischiarsi con curioso e studiato artifizio„. Quindi sedettero tutti, e vedendo egli che ognuno taceva e aspettava quello che a dire si accingesse, con voce gradevole e riposata cominciò nel modo che segue il suo racconto.