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capitolo xxxvii. 411

sciotte, volendo la principessa Micomicona che per essere il suo difensore le stesse a lato; indi seguitavanli Lucinda e Zoraida; don Fernando e Cardenio erano dirimpetto a loro; poscia lo schiavo e gli altri cavalieri; ed accanto alle signore il curato e il barbiere. Cenarono tutti in grande allegria, accresciuta dal vedere che don Chisciotte, lasciando di prendere cibo, e mosso dallo spirito stesso che lo spinse al lungo ragionamento quando cenò coi caprai, così si fece a parlare: “Veramente, quando ben si considera, signori miei, grandi e inaudite cose si veggono da quelli che professano l’ordine della errante cavalleria. E chi sarà mai in fatti ch’entrando in questo punto per la porta di questo castello, e vedendoci qui come ora ci troviamo, giudichi e creda che noi siamo quelli che noi siamo in effetto? Chi potrebbe dire che questa signora che mi sta a fianco, sia la famosa regina da noi tutti venerata, e che io sia quel cavaliere dalla Trista Figura, di cui suona sì altamente la fama? Non si dee rivocare in dubbio ormai che quest’arte e questo esercizio non sia superiore a quanti ne trovarono gli uomini: e tanto più si ha da tenere in pregio quanto più va soggetto a cimenti inauditi. Si tolgano a me innanzi coloro che hanno detto che le lettere sono da tenersi in maggior pregio dell’armi; chè sia chi essere si voglia certamente non sa quello che gli esca di bocca. A sostegno delle loro ragioni asseriscono costoro che i travagli dello spirito eccedono quelli del corpo, e che le armi si eser-