Don Chisciotte della Mancia/Capitolo XVII
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Traduzione dallo spagnolo di Bartolommeo Gamba (1818)
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CAPITOLO XVII.
Si levò Sancio tutto addolorato nelle ossa, e s’avviò tentone alla camera dell’oste; ed essendosi incontrato nel bargello, che stava ascoltando come la passasse il suo nemico, gli disse: — Signore, chiunque voi siate, fatemi il favore e la grazia di darmi un po’ di ramerino, di olio, di sale e di vino, de’ quali ho necessità per curare uno dei migliori cavalieri erranti che sieno al mondo, il quale giace ferito pericolosamente sopra quel letto per mano dell’incantato moro che trovasi in questa osteria„. Il bargello all’udire queste parole lo tenne per pazzo, e poichè cominciava già a farsi giorno, aprì la porta dell’osteria, e chiamato l’oste, fecegli sapere quanto da quel pover’uomo si domandava. L’oste gli somministrò quanto voleva, e Sancio recò ogni cosa a don Chisciotte, che si tenea la testa fra le mani, lamentandosi del dolore recatogli dalla lucernata, la quale gli avea prodotte due enfiagioni assai rilevanti; ma quello che pensava che fosse sangue non era altro che un gran sudore promosso dall’angoscia dei passati tormenti. In sostanza prese egli que’ semplici, e ne formò un composto meschiandoli e facendoli bollire insieme per lungo tempo, e sin tanto che gli parve compita la manipolazione. Chiese poscia di un’ampolletta da riporvi il suo balsamo, ma non essendono alcuna nell’osteria, deliberossi di metterlo in un vasetto di stagno, di cui l’oste gli fece dono; poi vi recitò sopra più di ottanta paternostri, altrettante avemmarie, salve, credo, accompagnando ogni parola con segni in forma di benedizione, trovandosi a tutto presenti Sancio, l’oste, il bargello, ma non già il vetturale, che attendeva a governare le sue bestie con tutta pace. Fatto questo, volle egli sperimentare la virtù di quel balsamo, da lui immaginato prezioso, e trangugiò gran parte di quello che non potendo capire nel vasetto di stagno restava nella pignatta dove l’avea composto; forse un mezzo boccale. Ma non l’ebbe appena inghiottito che cominciò a recere di maniera che nulla gli restò nello stomaco, e per l’angoscia e per gli schianti del vomito, diede in un sudore copiosissimo, sicchè pregò gli astanti che lo coprissero bene e lo lasciassero solo. Così fecero, ed egli dormì più di tre ore. Dopo le quali si svegliò, e sentendosi alleggerito molto del corpo, e molto meno addolorato nelle ossa, si tenne per risanato in grazia della bravura sua nel comporre il balsamo di Fierabrasse; e già pensava che avrebbe potuto per l’efficacia di quel rimedio cimentarsi senza verun riguardo in ogni rissa, battaglia o pericolo per grande che potesse essere. Sancio Panza, ascrivendo egli pure a prodigio il miglioramento del suo padrone, lo pregò che gli desse quello ch’era rimasto nella pignatta, e che non era poco. Glielo concesse don Chisciotte di buona voglia, e Sancio presa tosto la pignatta con ambe le mani, con buona fede e con migliore disposizione, vi avvicinò la bocca, ed ingoiò quanto vi si trovava. Lo stomaco però di lui non era sì delicato come quello del suo padrone, e in conseguenza tali e tanti furono gli affanni, gli stringimenti e i sudori sofferti prima di recere, che credette di essere giunto all’ultima ora della sua vita; e vedendosi così malconcio ed a sì tristo partito, malediceva il balsamo e quel ladrone che gliel avea insegnato. Vedendolo don Chisciotte sì male andato, gli disse: — Io credo, o Sancio, che tanto male ti avvenga per non essere tu armato cavaliere; giacchè stimo che questo licore non sia punto giovevole a coloro che tali non sono. — Se vossignoria sapeva questo, replicò Sancio, (venga il malanno a me e a’ miei parenti), perchè consentì ella ch’io ne ingoiassi?„ Ma intanto la bibita diventò operativa, e cominciò il povero scudiere a versare da amendue i canali con sì gran precipizio che se ne imbrattarono la stuoja su cui giaceva e il canovaccio con cui si copriva. Sudava e trasudava con tali parosismi e accidenti che pareva prossimo a uscire di questa vita. Durò tanta burrasca quasi due ore; nè si trovò poi nel ben essere del suo padrone, ma sì fracassato e pesto da non potersi reggere in piedi.
Don Chisciotte sentendosi, come si è detto, alleggerito e sano, divisò di partire in traccia di avventure, sembrandogli che ogni indugio fosse tempo tolto al bene del mondo e di quelli che aveano bisogno del suo favore e della sua difesa; e più lo animava allora la provata efficacia del suo balsamo. Vinto adunque da un tal desiderio, sellò egli stesso Ronzinante, e mise la bardella al giumento del suo scudiero, cui pure prestò assistenza per vestirsi e montar sulla bestia. Salì poscia a cavallo, ed accostatosi ad un angolo dell’osteria, ne tolse una pertica, pensando di servirsene in vece di lancia. Stavanlo guardando quanti si trovavano in quel luogo, ch’erano da più di venti persone, e gli tenea gli occhi addosso anche la figliuola dell’oste, ed egli pure miravala fisamente traendo di tanto in tanto un sospiro che parea gli uscisse dal profondo delle viscere, ciò che ascrissero i circostanti al dolore che doveva sentire nelle costole, a giudizio almeno di quelli che lo aveano veduto tutto impiastrato la notte innanzi. Montati ambedue a cavallo, mettendosi don Chisciotte sulla porta dell’osteria, chiamò l’oste, e con voce riposata e grave, gli disse: — Molti e molto grandi, signor castellano, sono i favori che ho ricevuti in questo vostro castello, e ve ne resterò obbligatissimo per tutto il corso della mia vita, e se posso compensarvene col vendicarvi di qualche superbo che vi abbia fatto alcun torto, voi già sapete che il debito mio è di sostenere i deboli, di vendicare le ingiurie e di punire i temerarii. Badate se avete che comandarmi in tale proposito, e basterà una vostra parola, ch’io vi prometto, per l’ordine di cavaliere da me ricevuto, di rendervi soddisfatto e compensato a vostro intero piacere„. L’oste gli rispose con altrettanto contegno: — Signor cavaliere, non ho bisogno d’impegnare vossignoria a vendicare verun mio torto, poichè, occorrendo, lo so fare da me medesimo; bensì ho bisogno ch’ella mi paghi del guasto fatto la scorsa notte nella mia osteria, e così pure della paglia e della biada somministrate alle sue bestie, come ancora della cena e del letto. — Osteria si è questa? replicò don Chisciotte. — Ed onoratissima, rispose l’oste. — Io dunque sono, soggiunse don Chisciotte, vissuto finora in grande inganno, mentre protesto e giuro che l’ho giudicata un castello, e non certamente degl’infimi. Ora, poichè non è altrimenti castello ma osteria, ciò che si può far per adesso si è che mi dispensiate dal pagarvi, perchè io non posso contravvenire agli ordini de’ cavalieri erranti, i quali so di certo (non avendo letto finora cosa in contrario) che non pagarono mai nè alloggio nè altro nelle osterie dove capitarono per caso; ma ognuno è obbligato ad accoglierli in guiderdone dell’intollerabile travaglio che soffrono in cercar avventure di notte e di giorno, d’inverno e di estate, a piedi e a cavallo, con sete e con fame, con caldo e con freddo, esposti a tutte le inclemenze del cielo e ai disagi della terra. — Ciò poco mi importa, rispose l’oste; vossignoria mi paghi quanto mi è dovuto, e lasciamo andare le ciarle e la cavalleria, ch’io non m’intrigo di altro che di riscuotere il mio. — Tu sei un imbecille e spregevole ostiere, replicò don Chisciotte; e dando degli sproni a Ronzinante colla sua lancia abbassata, uscì dall’osteria senza poter essere trattenuto da chicchessia, e si dilungò un buon tratto di strada non badando se fosse seguitato dal suo scudiere. L’oste, che lo vide partire senza avere pagato, arrestò Sancio Panza, il quale dichiarò che non pagherebbe nè più nè meno del suo padrone; giacchè essendo egli, com’era in fatti, scudiero di cavaliere errante, valeva per lui come pel suo padrone la stessa regola di non pagare negli alberghi e nelle osterie. Ciò mosse grande ira nell’oste, il quale minacciollo che se non pagasse l’avria concio per modo che gli sarebbe assai rincresciuto. A ciò Sancio rispose che, per la legge della cavalleria ricevuta dal suo padrone, non avrebbe pagato un quattrino quand’anche gliene dovesse costar la vita, non volendo essere causa che si perdesse quell’utile e antico costume dei cavalieri erranti, nè dar motivo agli scudieri avvenire di lagnarsi di lui che avesse trasandato un così giusto privilegio.
Volle la cattiva stella dello sventurato Sancio che fra coloro che colà trovavansi, fossero quattro battilana di Segovia, tre merciai del porto di Cordova e due di Siviglia, gente allegra e dabbene, ma pronta sempre alle burle; i quali come se un medesimo spirito gl’instigasse e movesse, accostaronsi a Sancio e lo fecero smontare dall’asino; uno poi di essi andò a prendere la coperta del letto dell’oste, sulla quale distesero lo scudiero; quindi alzati gli occhi, e vedendo che il soffitto era troppo basso al loro bisogno, deliberarono di uscir nel cortile che avea per coperchio il cielo, ed ivi posto Sancio in mezzo al copertoio, cominciarono a sbalzarlo in alto, togliendosi lo spasso che alcuni si prendono di un qualche cane nella stagione di carnovale1. Furono sì alte le strida del povero sobbalzato, che giunsero all’orecchio del suo padrone; il quale, fermatosi ad ascoltare con grande attenzione, credette che fosse per accadere qualche nuova avventura, ma poi conobbe che quegli che gridava era il suo scudiere. Volta la briglia, col pesante galoppo del suo Ronzinante, ritornò all’osteria, e trovandola chiusa la girò tutt’intorno per vedere se ne scoprisse l’ingresso; ma giunto alla muraglia della corte, che non era troppo alta, scoperse il cattivo giuoco che facevasi del povero Sancio. Lo vide calare e salire per aria con tanta grazia e prestezza, che se non fosse stato coll’animo inviperito ne avrebbe riso egli stesso. Provò di arrampicarsi dal cavallo sul muro, ma non gli fu possibile, tanto era ancora pesto e malconcio, però così d’in sul cavallo, cominciò a scagliare tante villanie e tanti vituperi contro a quelli che facevano balzar Sancio, che non è possibile scriverli: e nondimeno coloro senza curarsi dei fatti suoi, e in mezzo alle risa continuarono a mandar Sancio in aria: il quale divenuto volatore ora gridava, ora minacciava, ora pregava, ma tutto questo poco giovò, perchè non lasciarono il giuoco se non quando ne furono stanchi. Allora gli ricondussero nel cortile il suo asino, e ve lo posero sopra coprendolo ben bene col suo gabbano; e la compassionevole Maritorna, vedendolo affannato a quel modo, gli porse un boccale di acqua attinta allora allora dal pozzo. Lo pigliò Sancio, ed appressatolo alla bocca si ristette dal bere per ascoltare il suo padrone che ad alta voce esclamava: — Sancio, figliuolo, non bever acqua, no, figliuolo, non beverla che ne resterai morto; guarda qua il preziosissimo balsamo (e gliene mostrava il vasetto) per la cui virtù risanerai, bevendone due sole goccie„. A queste parole Sancio voltò gli occhi come di traverso, e rispose con voce ancor più sonora: — Si è forse dimenticata vossignoria ch’io non sono cavaliere? e vuol ella ch’io abbia a recere il resto delle viscere avanzatemi da questa notte? tengasi il suo liquore con tutti i malanni, e mi lasci quieto„. Il proferire queste parole, ed il mettersi a bere fu un punto solo; ma poichè al primo sorso si accorse che quella era acqua se ne astenne, e pregò Maritona che gli portasse del vino, ciò ch’ella fece ben volentieri, pagandolo di sua propria borsa; perchè ad onta de’ suoi traviamenti, era per altro una buona cristiana. Bevuto ch’ebbe, Sancio diede delle calcagna al suo asino, e spalancando la porta dell’osteria quant’era larga, ne uscì contentissimo di non aver pagato un quattrino, e di aver così vinta la prova alle spese però de’ suoi soliti mallevadori, cioè, delle proprie spalle. Vero è che l’oste ne ritenne le bisacce in pagamento del suo credito, di che Sancio non si accorse, tanto era fuori di sè! Voleva anche l’oste, subito che lo vide uscito fuori, assicurare con buone stanghe la porta dell’osteria, ma nol consentirono quelli della coperta; gente da non far il menomo conto di don Chisciotte quand’anche fosse stato realmente uno de’ cavalieri erranti della Tavola Rotonda.