Dieci lettere di Publio Virgilio Marone/Dieci lettere/Lettera settima
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Ai Legislatori della nuova Arcadia P. Virgilio, Salute.
NOn cessavan gli antichi di maravigliare lo strano genio d’italia verso l’imitazione. Avevano udito dire, che questa gente, per ingegno, per vivida fantasia, e per naturale mordacità molto inclinava al mimico; e di ciò n’erano certe pruove i suoi Predicatori in gran numero, la quantità de’ saltambanchi, e ciurmadori; i teatri comici d’ogni Città; e insino all’indole generale della nazione, che al passo, al gesto, al ragionare ordinario sembra più teatrale, ed animata dell’altre. Ma che questo genio dovesse nell’opere dell’ingegno trasfondersi, ciò non s’intendeva, e parve a tutti miracolo, che contro l’uso di tutti gli uomini, e di tutte le genti avessero gl’italiani per cento anni e cento perseverato sempre cantando sul tuono istesso, e sul modello d’un solo senza stancarsi. Ragunatosi dunque il consesso de’ Greci, e de’ Latini maestri secondo l’uso, e questo argomento di nuovo trattandosi, alzò la voce Luciano, e disse: Ma che direste poi, se non solo al Petrarca nel Lirico, ma in tutte l’arti, e le scienze, e in tutti i generi di Poesia li vedeste ad alcuno giurare la stessa fede, e superstizione? Io che studio gli umani costumi curiosamente, ho voluto assicurarmi di questo prodigio, e in tutto il resto gli ho ritrovati, quali a voi sembrano nel Petrarchesco. Lascio a parte la filosofia, e le più alte scienze, poiche in queste non sono stati essi soli per molti secoli superstiziosi, ed ostinati seguaci dell’autorità d’un maestro, ma ristringomi al solo poetare. Un Petrarca, siccome vedete, n’ha prodotti infiniti: un Dante poco meno di lui multiplicò se stesso; un Poema romanzesco fe’ nascere una nuova Epica di Romanzo, e di Cavalleria non solamente, ma un Orlando eziandio altri Orlandi produsse, e generò. Chi può dire le fecondità della Pastorale e dell’Egloga in questo clima d’Italia? Il Sannazaro fece Egloghe, il Tasso una Pastorale, ed ognuno formò a gara pastori, e ancor pescatori su que’ modelli. Chi può numerare gli Aminta e i Pastorfidi sotto nomi diversi veduti al mondo? Così il Trissino per la Tragedia, altri per la Comedia, per li Ditirambi, per li Drammi, e per ogni altra maniera di poesia o seria o faceta, o grande o piccola, o lunga o breve, son padri di prole somigliantissima, ed innumerabile. Io parlo della moltitudine de’ Poeti, che in Italia han nome d’illustri. Poiche v’ha pure alcuno, il quale o per noja di servitù, o per talento vivace, e per amore di gloria leva il capo tra loro, e scuote il giogo. Ma nel tempo medesimo un’altro n’impone ad una nuova setta, che da lui prende il nome, lo stile, e il pensare, che l’adora, e l’antipone ad ogni altro; tanto è necessario ai Poeti italiani un qualche idolo: così il Marini un secolo intero ha veduto nascer da se, così quelli, che il simolacro atterrarono del Marini, un’altro n’alzarono a lor seguaci del settecento, e mirate qual furore d’imitazione fu quel del Petrarca, che rialzarono, e all’adorazione proposero, ai voti, all’ostinatezza del secol loro. Onde ciò venga principalmente non è difficile a intendere chi conosca l’Italia. Occupazione vi manca, e vi soprabbondan talenti. Di moltissimi oziosi molti si fan Poeti, di queste Academie, ed Arcadie, e Colonie si formano. Cantar bisogna, e di versi la vita nudrire, e la società sostenere. Al comodo, al facile siam tutti inclinati, ricca natura è in pochissimi, eccitamenti, e premj, e Mecenati si cercano indarno; che altro rimane se non che prender d’altrui, copiare dai libri, impastare, cucire, in fine imitare, e darsi per Poeta? Qual danno ciò faccia alla poesia, qual impaccio alla vita civile il sanno gl’italiani, e il sappemmo in Grecia eziandio qualche volta. Un sol rimedio sarebbe a tal male, ma come sperarlo, e da chi? Un tribunale dovrebbe istituirsi, a cui dovesse ognun presentarsi, che venga solleticato da prurito poetico. Innanzi a giudici saggi gli si farebbe esame dell’indole, e del talento, e certe pruove se ne farebbono ed esperimenti. Chi non reggesse a questi, all’aratro, e al fondaco come natura il volesse, o alla spada e alla toga n’andasse; chi riuscisse, un privilegio otterrebbe autentico, e sacro di far versi, e pubblicarli, qual di chi batte moneta del suo. Bando poi rigoroso a chi falsificasse il diploma, o contrabbando facesse di poesie non altrimenti che co’ Monetarj s’adopera, e co’ frodatori de’ dazj. Prigione, o supplizio secondo i falli, e questo non già poetico, e immaginario, ma inevitabile, e vero.
Sorrisero i gravi antichi al parlar di Luciano, e volti agl’italiani, che stavano intorno alle sbarre aspettando sentenza dell’opere loro, lodaronli d’eleganti verseggiatori, e di culti scrittori della lor lingua, ma sentenziarono insieme l’opere loro com’era giusto. Intitolate le voller tutte Nuova Edizione di Messer Francesco Petrarca. Quindi trattine alcuni Sonetti o interi, ciò che fu di sol dieci, o troncati; e poche stanze di canzoni, del resto fecesi un fascio, il qual fu riposto in parte rimota serbandolo per un tempo, in cui la lingua italiana, guasta e corrotta da genti straniere bisogno avesse d’una piena inondante d’acque limpide e pure, quantunque insipide, a ripurgarsi. Fu finalmente deciso bastar per tutti il Petrarca, ancorche ridotto da noi a più discreta misura; per l’uso comune e il diletto della nazione questo doversi leggere, ed istudiare secondo il bisogno: e così non verrebbe o ingiustamente posposto ad autori seguaci suoi, o nauseato da molti per tanto moltiplicarsi delle sue rime in tanti minori di lui.
Convien, diss’io allora per isfogo di zelo, convien ben convincervi, o miei Italiani, che non è poeta chi fa de’ versi soltanto, e che la sola imitazione mai non fece un Poeta. Intendete pur una volta quel saggio detto dell’amico Orazio, che nè gli uomini, nè gli dei, nè le stesse colonne, ove affiggonsi l’opere, e i nomi de’ nuovi autori, san perdonare ai poeti la mediocrità. Persuadetevi, che differenza è grandissima fra un’uomo formato dalla natura alla poesia, e un uom formatovi dal suo studio. Il Petrarca fu originale, nato da sè senza esempio, e senza guida. Come tutti pretendono adunque imitarlo s’egli non ha imitato veruno? Perche farne comenti, precetti, poetiche Petrarchesche, quasi fosse una macchina di cui basti sciogliere i pezzi, misurarne le parti, e farne altre tali per comporne una pari in bellezza? Sarebbe come quel Musico, il qual sapendo appoggiarsi l’arte del canto ai princìpj di Matematica, e di Geometria, volesse farsi per le dimostrazioni di queste scienze eccellente cantore. Mentre egli pianta un sistema, e il fonda sopra le basi dell’armonia, fa suoi computi, divide, e combina, eccoti un villanello, che senza pur sospettare di que’ misterj, rapisce cantando una intera nazione, passa nelle straniere, trionfa di tutti i più profondi maestri dell’arte fatto delizia ai Monarchi. Egli è nato con quella voce, con quell’orecchio, e soprattutto con quell’entusiasmo dell’anima, che è l’anima della Musica, come l’è pur della Poesia, né d’altro non abbisogna. Tre o quattro regole generali per evitar certi difetti bastano a lui, e divengono un’arte perfetta quando hanno seco quella felice natura. Consultisi adunque ciascuno prima di volgersi alla poesia, massimamente in italia, dove più n’è bisogno per tanto abuso fattovi di quest’eccelso dono, il quale non giustamente con nome d’arte s’appella. Certo il Bembo, e tant’altri erano ingegni preclari e di gran cose avrebbono fatte se non si fossero dati all’imitazione d’altrui, ed al non proprio uffizio del poetare. Non è nostra severità pertanto, ma zelo egli è per la patria, se quanti sono Cinquecentisti, o d’altro secolo Petrarcheschi giurati abbiamo in conto d’inutili nel regno dell’ottima poesia Creatrice, Dipintrice, e d’Estro Madre, e di sublimi affetti Signora, e Donna.
Ciò da me detto, mostravansi tutti quegl’italiani, che alle sbarre stavano del ricinto, molto in viso crucciosi, ed allora vieppiú quando fatteci venir in mano, e passar sotto all’occhio le poesie loro latine con le lor prose, le quali tenevansi quasi a riserbo per un più certo trionfo, udiron da noi, poiché alquanto l’ebbimo considerate, doversi anch’esse sopprimere, siccome purissime copie dell’opere nostre, e degli autori del mio tempo; benché lor perdonassimo certi falli nel latin metro commessi, che al nostro orecchio defformi, ed insoffribili riuscivano, a lor pareano gentili, che in una lingua scriveano incerta, e non più viva. Ma non perdonossi ad alcuna Elegia, non ad alcuna Storia del Bembo, od Orazione del Casa, nè a’ poemi medesimi del Sannazaro, del Vida, e di cento lor pari, e pedissequi freddi di tutti noi. Alla qual nuova offesa via più turbato quel popolo verseggiatore, già ne minacciava d’un’aperta ribellione, onde timor ci venne di veder forse per loro tutto l’Elisio in battaglia. Se non che il Fracastoro uom veramente d’antica virtù, e a me caro al par di me stesso per una certa comune indole di natura, e di studio, e d’ingegno, fattosi verso loro con quel venerando suo aspetto, e l’amicizia attestando, che co’ più d’essi l’avea vivendo legato, non vi turbate, lor disse, del severo giudicio de’ padri nostri, nè quasi ad onta nol vi recate. Voi ben vedete esser bisogno all’Italia di qualche sforzo per iscuotersi dalle cieche superstizioni di poesia, che da troppo gran tempo le allignano in seno, e che germogliano sempre più folte ed orgogliose, nè lascian sorgere qualche ingegno felice, che in terreno men occupato stenderebbe gran rami, e radici, e leverebbe al cielo le cime. Di quà venne la sterilità della Patria, per cui da gran tempo non eccellente poema, non immortale Poeta le si è fatto vedere. Ma voi però non avete a temer dell’obblio per quanto all’italia possan sopravvenire o i barbari un’altra volta, o i Marineschi. Di ciò consolatevi. L’opere vostre son scritte con eleganza, con purità, con leggi di lingua e di buon gusto. Lo stile delle parole vi salverà. Questa è l’impronta, che fa passare con sicurezza la memoria degli scrittori con le loro fatiche sino all’ultima posterità, e trova sempre ingegni, e tempi ammiratori di lei. Cornelio nipote, Isocrate, Fedro, ed altri antichi, ne son testimonio. E per ultimo confidate pur sempre nella fermezza degl’italiani, che per qualunque sentenza, non lasciano mai di tenere ostinatamente il partito una volta abbracciato, e per pochi seguaci, che perder possiate, le migliaja vi saran sempre fedeli, e più devoti che mai. Vedrete ben tosto quanti critici sorgeranno a difendervi, e quanti dotti criticheranno le critiche, e le sentenze di Virgilio, d’Omero, e degli antichi. Ciò disse il Fracastoro, ed il congresso fu sciolto. Io finisco, voi state sani.