Dieci lettere di Publio Virgilio Marone/Dieci lettere/Lettera ottava
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Ai Legislatori della nuova Arcadia, P. Virgilio, Salute.
Non cessavano gl’italiani Poeti dal fare mal viso a quanti incontravano degli Antichi nel regno dell’ombre, e mal nascondevano i sentimenti di sdegno, e di vendetta contro di noi. Sapevamo per fama esser molti i Poeti della gente vostra iracondi, e come aveano fatte battaglie atrocissime in poesia per ogni tempo, cosa ignota a’ dì nostri, e a tutta l’antichità. Eransi già veduti correr quaggiù talvolta cartelli di sfida, e di duello con varj nomi de’ combattenti. Castelvetro e Caro, Tassoni ed Aromatarj, Dolce e Ruscelli, Pellegrino e Salviati, Bulgarini e Mazzoni, Marini, Murtola e Stigliani, Beni e Nisieli, e molti e molt’altri, aveano dopo morte raccese le antiche discordie, e vantavansi tra i più celebri combattitori, e duellanti, de’ quali ricordimi; senza parlare dell’Academie intiere, e radunanze, e Città entrate in tenzone, e delle intiere biblioteche di libri contenziosi usciti a critica, ed a difesa or di Dante, or del Tasso, ora dell’Ariosto, e quali per una Canzone, quali per un Sonetto, molti ancora per un sol verso, che accesero vasti incendj, e spesso cangiaronsi (chi ’l crederebbe?) in armi omicide, e spargimento fecer di sangue. Noi che la pace, e la sicurezza abbiam sempre amata, femmo tosto avvertire i tre Giudici, e Magistrati del basso regno, perche al pericolo provvedessero. L’inesorabil Minosse tosto v’accorse per udir le ragioni de’ malcontenti, e per metter freno a tant’ira, quanta già ne mostravano quegl’italiani a’ certi segni di morder le dita, di minacciare, di fremere, e di guardar bieco qua e là ragunandosi in oltre, e parlando tra loro all’orecchio.
Ma peggio fece il Giudice chiedendo il motivo de’ loro sdegni. Poiche coloro l’assalsero con tanti testi, e precetti, e comenti del grande Aristotile, con tante Poetiche, e Ragionamenti, e Lezioni, e Proginnasmi, e Osservazioni, e Annotazioni, e Considerazioni in gran tomi adunate, e con tanto tumulto e con sì alte grida assordaronlo, che se il prudente Minosse non minacciavali di scatenare il Can Cerbero, e mandar sopra loro tutte le furie d’Averno co’ lor flagelli, mal campava da quella tempesta. Scoprissi poscia una congiura, ch’essi tramavano avendo già l’Aretino secrete intelligenze con molti de’ condannati d’Inferno, ch’ei meditava d’andar con gli altri d’accordo, e a mano armata a liberare, sciogliendo i lacci a Tizio, e a Prometeo, dando bere a Tantalo, slegando Sisifo, ed Isione dalla ruota, e dallo scoglio. Ma il più forte della congiura, e il più astuto consiglio era una gran raccolta di volumi poetici, e di versi del cinquecento, e di toscane, e fiorentine poesie d’ogni maniera, ond’ei meditava d’estinguere le fiamme infernali, e di congelare il fiume Lete e lo Stige in tutt’i nove suoi giri. Pretendeano costoro sottrarsi dall’obbedienza del Re d’abisso, e torgli lo scettro, onde regnare su l’ombre, e vendicarsi de’ nostri giudizi. Ciò scoperto da noi, e volendo evitare cotanto scandalo, si prese consiglio di rompere affatto le nostre adunanze, onde la pace a poco a poco tornossi nelle sedi dei morti.
Ma come altamente ci stava fissa nell’animo la salute, e l’onore della italica poesia, nè la brama cessava in noi di conoscere, e di gustare le produzioni degli ottimi ingegni italiani; fu preso consiglio di non lasciar del tutto l’impresa, e, non potendosi negli Elisi, venir apprestando un rimedio, e a procacciarne notizie dai viventi. Io fui trascelto per questo uffizio, e mi portai di buon grado a riveder questa terra, di cui la breve mia vita troppo poco concessemi di godere. Io venni dunque tra i vivi, e sotto altro nome mi posi a conoscere lo stato dell’italiana poesia. Nè altrove che in Roma pensai di poter esserne a pieno istrutto, ove siccome in centro, tutto l’ottimo della terra non che dell’Italia sapea ritrovarsi. Ma qual Roma fu quella, ch’io vidi! Benché il Tevere, e i sette colli, e il Tarpeo, e l’Esquilie mie stesse, ove sì dolcemente abitai, non mi lasciassero temer d’errore, pur non credetti d’essere in Roma. Ben m’aspettava di veder mutate le cose dopo diciotto secoli, ma non certamente a sì gran segno. Un deserto mi parve quella Regina del mondo, e tra il silenzio delle vie solitarie, tra l’infezione dell’aria, e l’impaludare de’ luoghi un tempo più frequentati, m’arrestai per orrore, e mi rivolsi fuggendo a cercare gli abitatori, e la gente Romana. M’avvenni appunto ad un luogo, ove stava sedendo e dentro e fuori una moltitudine di persone diverse tra loro ragionando; mentre quà e là versavasi loro dentro piccole tazze liquori fumanti, che, al color tetro, ed al profumo odoroso Asiatiche, e stranie giudicai. Di poesia ragionavasi appunto, e leggevansi versi di fresco venuti del più gran Poeta, dicevano, che vivesse. Tesi l’orecchio ad udirli, ma indarno; che in cotal lingua erano; e pronunziati per guisa, che tutto era nuovo per me. Quel linguaggio mi parve barbaro affatto sì per le voci d’acuto accento tutte finite, e la più parte fischianti, e moltissime rotte tra denti, e sì per la novità. Compresi infine dal ragionare de’ circostanti essere quello Gallico idioma. Pensate qual mi rimasi ascoltando i Romani parlar la lingua dei Celti, e leggere i versi d’un Poeta Aquitanico, o Belgico ch’egli fosse, siccome del nuovo Omero, e Orazio. Ma crebbe in me lo stupore allor che indagando come ciò fosse, venni a sapere, che l’ultime Gallie Transalpine, che gli Eburovici, i Vellocassi, i Carnuti erano i Greci, e i Romani di questo tempo, Lutezia l’Atene dell’arti, e degl’ingegni, la Roma d’un nuovo Augusto, e d’un secolo nuovo; colà i Plauti, e i Terenzi, gli Euripidi e i Sofocli, i Tullj, i Tucididi, i Titi Livj spirare, e rivivere; in Italia tradursi l’opere loro, quelle imitarsi, e leggersi soprattutto, e quindi il linguaggio coltivarsi de’ Galli più che il latino, e l’italico per ben parere, e per vivere urbanamente, e non sembrar barbaro in Roma stessa. Io che vedute avea con gli occhi miei proprj le barbariche spoglie, e gli schiavi feroci, che Cesare a Roma trasse dalle Gallie soggiogate, stava mutolo, e istupidito a così nuovo portento. Quand’ecco a passar quivi presso una splendente Matrona, a cui tutti fer segno d’ossequio, siccome a Vesta, o alla gran Madre farebbesi, e l’accerchiarono a gara, e in lingua Celtica pur favellarono. Era quella, come mi dissero, una Gallica donna dalla remota Sequana recentemente venuta recando seco per tutta Italia le grazie non solamente, e il fior dello spirito, ma celebre fatta per un Epico suo poema, e per Tragedie eziandio: nè le memorie di Roma antica da lei tanto riscuotere di maraviglia, quant’ella da Roma moderna ne riscotea. Parvemi allora, che dal trionfo di questa donna vendicati assai fossero i trionfati Galli, e che le Romane vittorie per Cesare riportate, o per altri non dovessero più vantarsi da’ suoi nepoti. Già più non mi fecero maraviglia dopo ciò moltissime novità. I Britanni dal mondo divisi, ed ultimi della terra, che in Roma oggi incontrai non sol liberi, ma potenti, e per l’amore dell’arti, e per la cultura ancor delle lettere insigni; anzi pur Mecenati dell’arti, e degl’ingegni divenuti: i Cimbri, i Teutoni, ed i Sicambri, già da noi riputati delle fiere più fieri, e neppur meritevoli d’essere soggiogati, che su la riva dell’Istro han trasportato l’Imperio Romano, e del lor sangue eleggono da gran tempo il successore d’Augusto: gli estremi Sciti, indomiti, e vagabondi un tempo, vantar leggi, e costumi, e liberali studj portandoli insino a Roma per ammaestrarla: e le Accademie, e i Parnasi fiorenti tra tutte queste nazioni, e ne’ climi gelati, questi prodigi mi persuasero, che doveva dimenticarmi d’ogni memoria de’ giorni miei, né la mia Patria, né la mia Roma in mente avere mai più.
Certo, diss’io, la poesia dell’Italia con tutte l’arti, e gli studj dopo sì strane vicende cambiata aver denno del tutto fortuna e stato. Qual esser può mai poesia d’un popolo, che ha tanto usato co’ barbari, e in tanto pregio mostra d’avere le barbare Poesie? Né veramente altro che barbara mi parve quella, che udì leggere poco dianzi, in cui nè dolce armonia facea sentirsi alcuna, nè concerto alcun musicale, e soave all’orecchio? E se il nativo linguaggio con la mescolanza corrompesi sempre de’ linguaggi stranieri, che tanto in Italia son familiari, come ponno eleganti Poeti tra gl’italiani formarsi? Queste cose dicea tra me stesso, quando veduta mi venne poco lontano un’altra adunanza di varie persone raccolta in un luogo su la pubblica via, che pieno era di libri, e di lettori. Erano i libri pur Gallici la più parte, e fui per credere più che mai, che Roma fosse alla fine in poter dei Galli venuta, nè sempre sì vigilanti, e propizie aver l’oche sue conservate il Tarpeo. Ammirava frattanto il gran numero de’ volumi, la lor vaga forma, ed ornata, e parvemi somma gloria dell’umano ingegno così rara invenzione, onde moltiplicavansi a sì poco costo, e con tanta facilità l’opere dotte, ed ingegnose. Ma gran danno pur sospettai poter venire alle lettere da ciò stesso, e massimamente alla poesia, che di pochi esser dee per poter esser gentile, ed illustre. Il fuoco poetico sempre fu sacro, e a pochissimi confidato come quello di Vesta. Or questa multiplicità per cui sino il volgo può tutte l’opere avere in mano, e ognun può farsi a talento Autore, e Poeta della nazione, non deve ella rendere popolare la poesia, che già col diletto trae seco ognuno, ed invita a cantare? Fatta comune alla moltitudine avvien senza dubbio, che il numero degli sciocchi prevalga, e rimangane oppressa la fama ed il nome degli ottimi troppo scarsi; laddove a’ pochi communicata, più fortemente a que’ pochi si fa sentire, che per lei nati sono. Nel qual pensiero mi confermai vedendo qua e là per le strade nelle mani medesime de’ plebei, e su le scaffe de’ venditori più vili non altro che libri di versi, e leggendovi di passaggio i nomi di Venere e d’Imeneo, di Temi, e di Pallade, e dove una Laurea, dove le Nozze in gran lettere su i frontispizj, che il titolo di Raccolte portavano in fronte. Così pien di dubbiezze, e di maraviglia m’andava aggirando né sapea dove, e cercava pur di trovare ove legger potessi a mio bell’agio Poeti Italiani, senza impacciarmi de’ Gallici o de’ Britanni, a’ quali non sapeva accomodarmi l’idea. Udii finalmente parlarsi di biblioteca da cotai due, che in una gran porta entrando di magnifico albergo a salir si mettevano una marmorea scala, ed amplissima. Dietro lor m’avviai senza più, né più bello spettacolo mi venne veduto mai. Il numero e l’ordine, e lo splendor de’ volumi, e gli ornamenti medesimi di quelle sale mi richiamarono a mente la Palatina Biblioteca Apollinea d’Augusto. Mi volsi tosto alla classe de’ poeti, ove trovai di che contentare la mia curiosità largamente. Ve n’erano le migliaja di soli italiani, rimpetto a’ quali Greci e Latini assai pochi sembravano. Ma ben provveduto aveano alla nostra fama gli Stampatori, e i Commentatori, che ci aveano multiplicati in infinite edizioni, e a gran Tomi ridotti. Della sola mia Eneida ben cento edizioni, le più in gran volumi pesanti vi numerai, chiedendo a me stesso come quel mio poema nato dall’ozio, ed al piacer destinato potesse esser divenuto argomento di noja, e ingombro ambizioso di Biblioteche.
Ma a dirvi, o Arcadi, come in tal luogo venissi dipoi sovente, e quanti leggessivi italiani Poeti, e quai giudicj ne udissi da chi frequentava, che molti n’avea quell’albergo, e infine quai ne facessi io medesimo dopo lunga ricerca, e considerazione, troppo lungo sarebbe, e da formarsene nuova Biblioteca. Altra volta ve ne scriverò; e poichè la lunghezza è sempre nojosa, e massimamente parlandosi di poesia, di ciascuno de’ vostri poeti darò sentenza, qual mi parrà più giusta senza stendermi in lungo esame. Spero che a me ciò vorrete accordare almen per l’amore, che tutti abbiamo alla brevità: oltre all’uso, che parcamente far vogliono i morti dell’eloquenza. State sani.