Dieci lettere di Publio Virgilio Marone/Dieci lettere/Lettera sesta
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Ai Legislatori della nuova Arcadia P. Virgilio, Salute.
Non avessimo letto mai, né lodato il Petrarca: Non altra volta fu mai veduto tanto scatenamento di poeti importuni, di rimatori, di verseggiatori, come il giorno, che ritornammo a fare adunanza. Più di trecento poeti italiani, ciascuno con un libro di rime sue, con un suo canzoniere, alcuno con più volumi, e tutti col nome di Petrarcheschi, e più col titolo di Cinquecentisti, che per loro era dire altrettanto che del secolo d’oro, e d’Augusto, vennero ad assediarci, e pretesero d’esser letti, e approvati non men del Petrarca maestro loro, e modello. Ben era quello un popolo, e popolo di Poeti. Il fuggir così fatta inondazione non era possibile, che tutto intorno era cinto d’assedio, e di grida. Ognun ripeteva il suo nome, o scritto il mostrava. Chi può tutti ridirli? I principali erano Giusto de’ Conti, Aquilano, Tebaldeo, Poliziano, Boiardo, Medici, Benivieni, Trissino, Bembo, Casa, Ariosto, Costanzo, Montemagno, Molza, Guidiccioni, Alamanni, Corso, Giraldi, Martelli, Varchi, Firenzuola, Rinieri, Rota, Tarsia, due Tassi, due Venieri, tre Mocenighi, Coppetta, Marmitta, Caporali, Buonarroti, Caro, Tansillo, Sannazaro, Celio Magno, Giustiniano, Fiamma, e cento altri, che confondonsi nel mio cervello, come colà nel tumulto. Distinte furon, com’era giusto, parecchie donne pur Petrarchesche, e Poetesse col lor volume, le quali oltre al titolo di divine riscuotevano dai poeti, e dai letterati una specie d’adorazione. Un branco di raccoglitori Petrarcheggianti le corteggiavano, recando libri di versi con titoli eccelsi di Lagrime, di Ghirlande, di Templi, opere fatte ad onor loro. Noi non ebbimo a’ nostri tempi un tal onore tra le Dame Romane, onde più curiosamente cercammo di risaperne i nomi. Il Ruscelli, il Dolce, l’Atanagi, e molt’altri, che a ciascuna di loro porgean la mano, con gran rispetto le nominarono: Vittoria Colonna, Veronica Gambara, Tullia Arragona, Gaspara Stampa, Tarquinia Molza, Lucia Avogadra, Laura Terracina, Chiara Matraini, Laura Battiferra, e seguivano pur nominando, se non che dissi bastar queste, che già pareggiavano le nove muse, altrimenti veniva a farsi un intero Parnaso femmineo, a gran pericolo dell’autorità dell’antico. In altra parte avanzavansi pur drappelli, a guisa di stormi, di Poeti, ed erano Radunanze, Academie, Arcadie, or di Città, or di Provincie diverse; Veneziani, Pavesi, Bolognesi, Bresciani, Napoletani, de’ quali soli v’avea molti volumi, e tutti eccellentissimi intitolati. Ciascuna di così fatte compagnie veniva armata d’un formidabile canzoniere con Simboli, Allegorie, Imprese, Iscrizioni, Emblemi, e tutto era ad onor del Petrarca, e sotto gli auspicii, e il dettato di lui. Altrove un nuvolo d’altri, che Settecentisti dicevansi, e vanto si davan d’aver risuscitato il Petrarchismo dall’oblivione dopo un secolo d’inondazione barbarica, e rovinosa. Per ogni parte sbucavano Petrarchisti, ch’era un diluvio. Pensate qual fosse il nostro spavento in mezzo a così fatta persecuzione, che parea proprio l’Inferno tutto scappato dai ceppi di Plutone. Qual consiglio potea prendersi per non irritare quel troppo irritabil genere di Poeti, maschi e femmine? In mente ne venne di distribuirci la briga, e di prendere ciascuno di noi qualche libro di que’ Poeti a leggere e ad esaminare. Greci e Latini furon tosto occupati, quanti ve n’erano intorno ad un libro di rime, ad un canzoniere, ad un volume di poesie, e vi fu alcuno di noi meschini, che si trovò un tomo in foglio tra mano tutto d’amor Petrarchesco.
Leggevam tutti attentamente, nè molto andò, che qua e là già miravasi sul volto de’ leggitori cert’aria di maraviglia, e a quando a quando degl’indizj di noia, e di sazietà. Fu il primo Catullo, che per natura insofferente, e nimico di lunga applicazione gittò da sé il libro, e questo, disse, questo è pur il Petrarca, il suo stile, il suo metro, il suo amor, la sua Laura, infin lui stesso sotto nome d’un altro. Il mio pur, dissero tosto molti d’accordo, il mio Poeta non altri egli è che il Petrarca. Qui v’ha qualche inganno, soggiunser altri, perché già non può darsi tanta sciocchezza in un uom ragionevole, che pretenda avere fama di buon poeta copiando un altro, o che tanto sfrontato pur sia, che per l’opera sua pubblichi l’altrui fatica veggendolo ognuno. Allor cominciarono a leggere or l’uno or l’altro de’ canzonieri toccati loro a sorte, e in verità non distinguevansi dal Petrarca, fuor solamente in quel languore, e in quella insulsaggine che nel linguaggio esser suole d’una finta ed imitata passione rimpetto a quel veemente e caldo sfogo d’un cuor acceso per viva fiamma. Parea strano capriccio quello di tanti, che per far versi credettero necessario di fingersi innamorati, o fecero versi per aver fama in amore. Latini e Greci esprimevano lo stupor loro in varie guise. Noi tutti, dicevano, abbiam cantato, ed amato: ma ciascuno di noi ha impressa al suo canto l’indole propria dell’ingegno, e della fantasia, e quindi ha ciascuno un proprio stile, un pensar proprio, e colori, e modi suoi propri. Orazio già non somiglia a Pindaro così che pajano un solo, nè Teocrito a Mosco, o Virgilio ad entrambi, nè Anacreonte a Saffo, nè gli stessi elegiaci, Catullo, Tibullo, Ovidio, Properzio, han pur somiglianza tra loro fuor che nel metro.
Ma di quanti argomenti, ripigliava alcun altro, abbiam tutti cantato oltre l’amore? Quanti metri diversi, quanti generi varj di poesia, qual varietà di pensieri, di stile, d’imagini abbiam tentato nella stessa materia amorosa? Certo nessun di noi non mostrò prender in prestito o la sua fiamma, o la sua Lesbia, o la sua lira! E gl’Italiani sperar poterono di piacere con un continuo ripetere le stesse frasi, gli stessi lai, ed omei, anzi Sonetti, e Canzoni, e perfino Ballate, e Sestine del medesimo impronto? Gran forza della superstizione verso de’ loro antichi; ma gran disprezzo insieme di noi più antichi, che pur leggevan essi, e sì diversi riconoscevano l’uno dall’altro! E sperarono pure trovar lettori istancabili, e pazienti ammiratori di tante copie, e di tanti Petrarchi, anzi pur d’un Petrarca moltiplicato in infinito, e piagnente mai sempre, e mai sempre parlante d’una passione, che stanca sì presto per la natura medesima di passione? Bello invero stato sarebbe se uscita di mano a Prassitele la Venere sua, tutti i greci scultori non avessero più lavorate se non che statue di Venere, e della Venere sola Marina fatti modelli. Ma lo stimolo della gloria, ma l’emulazione, ma il desiderio della novità, ma il genio per essa di farsi un nome famoso, che in tutti gli uomini è sì naturale, ma nemmen la vergogna di parere servili imitatori, niente non ha potuto ne’ soli italiani? Calunnie, gridò un’ombra, che stava in disparte fra i Cinquecentisti ascoltando i nostri ragionamenti.
Il Casa, il Costanzo, il Bembo, non sono essi Classici, ed originali? Leggete questi, e dite se sono imitatori. Si lessero ad alta voce, e quantunque avessero qualche nuova maniera non tutta al Petrarca rubata, parvero nondimeno assai petrarcheschi nella sostanza. Il Casa per non so quale asprezza, e violenza posta ne’ versi suoi parve alquanto acquistare di forza, e di gravità; nel Costanzo trovavasi una certa disprezzatura, che semplice, e graziosa parea, benche piuttosto vicina alla prosa, e all’argomentazione apparisse, che all’ottima poesia. Nel primo un po’ troppo sentivasi la fatica, e lo studio, nel secondo un po’ troppo poco. Avean tentato un sentiero solitario, ma nella via del Petrarca; lui per padre legittimo riconoscevano all’argomento, ai metri, ai modi, ed allo stile fondamentale, ed essi stessi prodotto aveano de’ copiatori. Quanto al Bembo ciascun giurava di non veder altro, che la fiacchezza dell’imitazione, onde distinguerlo dal Petrarca, benche gran lode si meritasse con tutti gli altri per lo studio della sua lingua, e per la purità dello stile, che è la base d’ogni vera eloquenza oratoria non men che poetica. Voi Arcadi abbiatelo a mente, e state sani.