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Lettera Settima 41

queste non sono stati essi soli per molti secoli superstiziosi, ed ostinati seguaci dell’autorità d’un maestro, ma ristringomi al solo poetare. Un Petrarca, siccome vedete, n’ha prodotti infiniti: un Dante poco meno di lui multiplicò se stesso; un Poema romanzesco fe’ nascere una nuova Epica di Romanzo, e di Cavalleria non solamente, ma un Orlando eziandio altri Orlandi produsse, e generò. Chi può dire le fecondità della Pastorale e dell’Egloga in questo clima d’Italia? Il Sannazaro fece Egloghe, il Tasso una Pastorale, ed ognuno formò a gara pastori, e ancor pescatori su que’ modelli. Chi può numerare gli Aminta e i Pastorfidi sotto nomi diversi veduti al mondo? Così il Trissino per la Tragedia, altri per la Comedia, per li Ditirambi, per li Drammi, e per ogni altra maniera di poesia o seria o faceta, o grande o piccola, o lunga o breve, son padri di prole somigliantissima, ed innumerabile. Io parlo della moltitudine de’ Poeti, che in Italia han nome d’illustri. Poiche v’ha pure alcuno, il quale o per noja di servitù, o per talento vivace, e per amore di gloria leva il capo tra loro, e scuote il giogo. Ma nel tempo medesimo un’altro n’impone ad una nuova setta, che da lui prende il nome, lo stile, e il pensare, che l’adora, e l’antipone ad ogni altro; tanto è necessario ai Poeti italiani un qualche idolo: così il Marini un secolo intero ha veduto nascer da se, così quelli, che il simolacro atterrarono del Marini, un’altro n’alzarono a lor seguaci del settecento, e mirate qual furore d’imitazione fu quel del Petrarca, che rialzarono, e all’adorazione proposero, ai voti, all’ostinatezza del secol loro. Onde ciò venga principalmente non è difficile a intendere chi conosca l’Italia. Occupazione vi manca, e vi soprabbondan talenti. Di