Dichiarazione dei nomi delle piante

Felice Ceretti

1879 Indice:Mirandola - Descrizione dell'isola della Mirandola.pdf Dichiarazione dei nomi apposti da Gio. Francesco Pico a diverse qualità di piante che abbellivano l’isola, ossia il parco da lui costruito nella Mirandola Intestazione 16 maggio 2023 75% Da definire


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DICHIARAZIONE DEI NOMI

APPOSTI DA

GIO. FRANCESCO PICO

a diverse qualità di piante che abbellivano l’isola, ossia il parco

da lui costrutto nella Mirandola

1.

     Stirpes, quas Latio dicitur ausa Cydon
Mittere post pharetram, ecc. (pag. 10)

Della maggior parte delle piante introdotte nel suo parco da Gian Francesco, si hanno i nomi patenti e chiari nell’Elegia del medesimo; di alcune però non vi è il nome espresso, ma posto in modo di sciarada lasciata al lettore da indovinare. Le parole di Gian Francesco sono però sempre tali da dar lume per iscoprire a quai nomi egli alludesse anche quando si copre solto il velo della perifrasi o della favola mitologica o di un’accenno storico. Posso dunque assumere con fidanza l’impresa di queste dichiarazioni, certo, come sono, che non cammino al buio ma, se non in luce di mezzodì almeno in un bel chiarore crepuscolare. D’altra parte poi le fonti cui vado attingere sono tante, che è ben giusto io dica non potere aspirare a verun merito se farò che altri veggano lucidamente ciò che i libri de’ migliori Botanici han fatto vedere a me. E poichè in questa ricerca io non ho alcuna pretensione, così voglio mi si condoni se non starò sempre alla pazienza di citar le fonti e di dare per punti e virgole a ciascuno il suo. Io so troppo bene che, si violandum est jus, propter regnum violandum est, non per queste quisquiglie, e son da voi.

Colla circollucuzione sopra citata, il poeta Gian Francesco ci denota senz’altro il Cotogno. Direte, perchè? e vi risponderò: perchè Linneo parlando degli alberi Pomiferi nomina il Pyrus Cydonia o Cydonia vulgaris la cui varietà più bella, secondo il Tournefort, è la Cydonia Lusitanica dal frutto grossissimo, turgido nel mezzo, ristretto e munito di grosse costole verso le due estremità. Il Cotogno, per chi nol sa, è originario dell’Asia Minore e precisamente dell’isola di Creta o Candia nella quale era una città detta Cidonia [p. 34 modifica]e che oggigiorno chiamano Canea. Certo è che se non è indigeno dell’Europa, il Codogno vi si è naturalizzato da tempo immemorabile. I Greci l’aveano selvatico nei loro boschi. In Italia era comune ai tempi di Virgilio. (Egl. II. v. 51 ).

Ipse ego cana legam tenera lanugine mala.

L’Allioni lo dice spontaneo in Piemonte nelle siepi delle Provincie del Mondovì, d’Asti e della Liguria. Il Moris lo vide nelle siepi della Sardegna, e va anche più in giù, a settentrione; sulle rive sassose del Danubio esso vegeta a meraviglia, e vi è anzi chi dice che venga di là. Plinio, conforme il solito, ce ne scrive delle belle su questo pomo. I Romani, così egli, collocavano cotogne sulle teste delle statue degli Dei tutelari del letto nuziale, e le presentavano alle sposine novelle le quali, mangiandone, assicuravano allo sposo una perpetua luna di miele. Se le cose stan per cosi, è questo un costume degno di rifiorire ai dì nostri nei quali le più lunghe lune di miele son quelle di Febbraio et quidem non biseste. Fra naturalisti c’è questione se i famosi pomi delle Esperidi fossero Arance, Cedrati o Cotogne. Scegliete. È medicinale; fu riputato già un contravveleno, ma non regge più quell’opinione. È un frutto tardivo, non mangereccio che quando è cotto e ridotto in poltiglia, d’onde se ne spreme una gelatina che pare una bella polenta di rubino. Ridotto in conserva, io e voi ne mangeremmo quanta ne può manipolare il Biffi di Milano e il Rovinazzi da Guiglia che si fè Petroniano e ricco e credo che cavaliere a forza di pasta Margarita e di cotognata. Col cotogno si fa il Sidro, il Ratafià e si edulcano le bevande che si amministrano contro le diarree croniche. Se voleste altre varietà di Cidonii, vi darò la Cinensis, la Laponica, la Speciosa, la Lagenaria. La penultima fu introdotta in Europa fin dal 1796 e trovasi coltivata nei giardini di delizia e merita di esserlo per la vivacità del colorito, la precocità e durata de’ suoi fiori.

2.

. . . . . . . . . . . et dictamni nobile gramen, (pag. 10)

Ecco la Menta, l’erba tanto odorosa e cara alle vergini ed ai fanciulli. È evidente che il Dittamo accennato qui dal Pico è il [p. 35 modifica]Dittamo eretico o degli antichi, l’origanum dictaminus di Linneo. Il Dittamo falso o quello che i nostri villici chiamano erba limone è il marrubium o pseudo dictaminus di Linneo. Il dittamo della Virginia è la Mentha pulegium; e finalmente v’è il dittamo bianco o frassinella, di cui qui si discorre; il dictamus albus, ed è della famiglia delle rutacce, della tribù delle Diosmee. Con tutte queste specie però, il Decandolle non ne ammette che una sola.

3.

Umbrosa hic mixta est molle virens corylus. (pag. 10)

Il Corylus dei Botanici, volta e rivolta, è il Nocciolo, la Linzola dei nostri contadini e più nobilmente l’Avellana da Avella, città antichissima, di origine pelasga nella Diocesi di Nola presso Napoli ove ne cresceano di bellissimi e in folta copia. È col nocciuolo che si facevano le famose verghe divinatorie e non ne è caduta la memoria presso certi impostori che colle verghe dell’Avellana pretendono scoprire tesori nascosti, sorgenti d’acque, miniere ed altri loro visibilii. Il suo frutto mangereccio ha un gusto simile a quello del mandorlo dolce; spremuto dà un oglio grasso. Nei giardini si coltivano il Corylus Avellana maxima, il Corylus purpurea e laciniata. Un altr’uso, assai poco umanitario per vero, ottenne il Corylus in quasi tutti gli Stati dell’Europa sino al 1818. La verga o bacchella dell’Avellana era un articolo di corredo militare. Ogni caporale e sotto caporale dovea portarselo alla cintola e, non mica per complimento, ma per calcarlo sulle reni dei disgraziati suoi comilitoni che andassero condannati al supplizio delle verghe.

4.

Arbor adest, cujos ramis faxere poetae      Nudis, pendentem Phyllida threiciam. (pag. 11)

Eccoci a una sciarada. Quale sarà mai quest’albero! Per saperlo, basta aprire il primo Dizionario mitologico che venga alle mani e apprenderemo che l’albero qui accennato sotto metafora, é il Mandorlo. Ma senza aver bisogno dei dizionarii, chi non sa che Fillide figlia di Licurgo re di Tracia, innamoratasi di Demofoonte [p. 36 modifica]figlio di Teseo re di Atene, credendosi tradita dal suo ganzo, s’impese a un tronco di mandorlo e che quel tronco subito inaridì dall’orrore di si brutto spettacolo? Ma Demofoonte non era un vigliacco. Si ricordò, un po’ troppo tardi, della promessa falla a Fillide, e venne per torsela in isposa. Non vi dico con qual cuore o con che naso restasse all’udire la funesta fine della povera amante. Per torsi uno sfogo, un’ultima soddisfazione, si recò presso al mandorlo infelice, e ne abbracciò strettamente il tronco il quale, quasi avesse presentito l’arrivo dello sposo, per un souvenir d’outre tombe, subito rinverdì e si ricoperse tutto di fiori e frondi da capo a piedi. Lasciamola lì. Che metamorfosi! Ma i poeti non ci si mettono per nulla quando sono in vena. Quando non han di meglio fra le mani essi creano. Che cosa? Di queste frottole.

5.

Pruna adsunt, variis quæ insana per æquora causis

Navita fluctivagus rettulit Ausoniæ. (pag. 11)

Siamo alle Prugne, dal latino Prunus. In molti luoghi le dicono Susine. È un frutto dalla buccia liscia originario dalla Siria donde furono trasferite a Roma prima del tempo di Catone, dice il Targioni-Tozzetti. Il Pico ne nomina parecchie specie nel suo parco esistenti; fra queste la Damascena ricordata anche da Plinio item pruna in Damasco monte nata. In peregrinis arboribus dicta sunt Damascena a Siriae Damasco cognominata, jam pridem in Italia nascentia. Il Micheli così la descrive: Prunus fructu ovato oblongo nigro coeruleo, pulpa tenera dulciore, nucleo sponte prosiliente, che è quanto dire la nostra prugna amoscina con la quale si fan conserve ed elettuari per la medicina e ci vien portata secca di Levante per essere mangiata. L’altra che il Pico dice venuta dal lido Ispano, è senz’altro la prugna Catalana d’un color giallo carico sfumato al verde. Ma la più preziosa delle prugne è la Regina Claudia più globosa e giallognola simile alla Cerea degli antichi lodata da Virgilio e da Columella. Ovidio la disse generosa.

Prunaque non solum nigro liventia succo
Verum etiam generosa novasque imitantia ceras.

Le prugne sono della famiglia dei Nociferi o Drupiferi, secondo Linneo. [p. 37 modifica]

6.

Pomaque Romanis ne viris apibus ne dicemus
     Non mihi compertum est, Appia nomen habent. (pag. 11)

Gli antichi, c’insegna il Targioni-Tozzetti, davano anche alle Mele i nomi di chi le portava. Perciò vi erano le Mele Claudiane, le Cestiane, le Maniliane, le Quininiane, le Sestiane e le Appiane da Appio che pel primo le portò a Roma, delle poscia anche Appie o Appiole e Appiolone. Le Api non ci han dunque alcun merito; fur dette Appie dal Decemviro Appio Claudio. I poeti ci dicono che Bacco fu il ritrovator delle Mele e che fu uno de’ primi frutti coltivati. Infatti, lasciando stare la Mela del paradiso terrestre, Tibullo ci canta chiaro:

Tunc victus abiere feri, tunc consita Pomus
Tunc bibit irriguas fertilis hortus aquas.

7.

Mox ea quis dederat nomen rosa laeta pudicum
     Et quae cinctutis consita sunt Deciis (pag. 11)

Abbiamo qui altre due specie di Mele. La Mela rosa che i nostri villici appellano pom ròs, e il pomo Decimo da Decio che lo portò a Roma ed è forse quello che volgarmente dicesi Campanino.

8.

Nec desunt proprias quae jam transmissa putentur
     Romam ad delicias regibus Attalicis. (pag. 11)

Qui si allude, in isciarada, alla Pera Bergamotta, la Bergamotte panachée del Duhamel che così la descrive: Pyrus sativa fructu autumnali turbinato, viridi, striis sanguineis distincto. Fu portato a Roma da re Attalo, quello stesso che istituì erede di tutto il suo, indovinate un po’ chi? quel poverello del popolo romano. Attalo, III di questo nome re di Pergamo, fu detto anche Filometore pel grande amore che volle a Stratonica di lui madre; ma si sarebbe anche potuto dirlo il re ortolano o giardiniere perchè tutte le sue cure donò all’orticoltura. Le sue cure maggiori le diede alle piante velenose come l’Elleboro e la Cicuta, [p. 38 modifica]impregnando del loro succo i fiori e le frutte che regalava agli amici. Che straccio d’amico! La Bergamotta, secondo il Knoop, acquistò poi varii nomi e si disse Bergamotta dorata, Begamotta Svizzera che gli Olandesi dicono lunga come l’amore, hoe langer, hoe liever, Bergamotta Grassana, Bergamotta Autunnale ecc.

9.

Non absunt victor ponti quæ poma per altum     Attulit, austero dulcia mixta simul. (pag. 11)

Cizico, Cabiri, Tigranocerta, Nisibi, sono i nomi delle grandi vittorie riportate sul Ponto e nell’Asia Minore da Lucio Licinio Lucullo, console romano, contro Mitridate e Tigrane. Di ritorno a Roma non volle più saperne di cose pubbliche e visse tutto a sè stesso, godendosi lautamente e nobilmente le immense ricchezze acquistate in guerra. Fra le spoglie portale a Roma da Lucullo, Ammiano Marcellino annovera il Ciliegio colto in Cerasunte onde il nome di Cerasus. Di Pomi non si fa menzione nè da Marcellino nè da verun altro che a me sia noto. Alcuni botanici mettono il ciliegio fra i Pomi, dunque il pomo di Lucullo onde qui parla il Pico, dev’essere il ciliegio e di questo la specie precisamente che si dice Amarena la quale è appunto di un sapore agro dolce, austero, dulcia mixta simul. Alla tavola del Gran Duca Cosimo III, scrive il Targioni, si servivano 42 specie di ciliegi fra le quali il Cerasus racemosa hortensis che è la Cerise a brochet dei Francesi.

10.

Non procul hinc distat morus Babylonia, fronde ecc. (pag. 11)

Tutti i Botanici dividono in due specie il Moro nella bianca e nella nera, e dicono che vien dalla China. A principio v’era soltanto il Moro bianco. Sapete come ne venne il nero? Dal sangue di Piramo e Tisbe che sotto di esso si diedero la morte.

Arborei foetus aspergine caedis in atram
Vertuntur faciem, madefactaque sanguine radix
Purpureo tingit pendentia Mora colore.

So bene che in scherzi, dirà qui taluno. Ma, e vorreste che [p. 39 modifica]io sedessi giudice di un uomo che avea tanto naso siccome Ovidio? Mai più. Cercai per un pezzo il Moro Babilonico, ma nessuno men seppe dire. I toscani mi dissero del Moro florajo e del Moro morajolo, moscadello, del moro insipido, del moro pavonazzo, del rossigno, del Moro Romano, del Moro Spagnolo, ma del Babilonico nessuno men diè contezza, e perciò

Claudite jam rivos pueri. con quel che segue.

11.

Nec non arbor adest pharetratæ Persidis olim
     Poma ferens mistis aurea sanguineis. (pag. 11)

Ecco l’Amygdalus Persica di Linneo. Tutti gli scrittori antichi e moderni, prima di Linneo, chiamarono le Pesche Persicae e Mala Persica, perchè portate dalla Persia in Grecia dopo Alessandro Magno, e di poi in Italia a Roma 30 anni avanti Plinio. È curiosa cosa, che le Pesche in Persia velenose, se stiamo a Columella, perdettero il tossico e diventarono dolci trasferite in Europa. Così i Botanici, discordi in questo dai chimici i quali attribuiscono alla noce del pesco una potenza velenosa di primo rango e in ogni luogo. I più comuni nomi delle Pesche sono le Spiccacciole, Duracine, Gerecoci, Primaticcie, Serotine, le Rosse Bianche della Maddalena, le Biancone, le Moscadella, e le tette di Venere che sono le più dolci e le sugose, la Pesca Noce, la Novellara, ecc.

12.

Et quæ de Armeniis Argeo proxima monti
     Ausonius miles poma tulit nivibus; (pag. 11)

L’Armenia ha dato il nome alle Albicocche. Prima di Linneo, e secondo Tournefort, facevano un genere a parte col nome di Armeniaca o Malus Armenica perchè portate a Roma dall’Armenia cent’anni dopo la venuta di Cristo. Nell’Enciclopedia fu ripristinato il genere dell’Armeniaca, e la specie, della Armeniaca vulgaris, comprende, come varietà, tutte le Albicocche coltivate, tanto le ranciate come le rosse. In greco diconsi Bepixoxxa. Le più grosse sono di Germania. La Bericocca è forse quella proveniente dall’Arasse fiume dell’Armenia. Dalla Siria il Censore Lucio Vitellio portò i fichi, regnando Tiberio. [p. 40 modifica]

13.

Punica mala nitent ecc. (pag. 11)

È queste il Malum Punicum di tutti gli Autori, il Melgranato dei moderni e così detto pe’ suoi semi o grani coperti di una trasparente polpa rossa del colore del granato gemma o carbonchio. Volgarmente dicesi Melagrano da Melo a grano. Linneo lo appella Punica granatum. Fu detto punico perchè si crede portato da Cartagine e seminato la prima volta in Cipro dai Pelasgi. Gli Ebrei lo teneano come sacro e simbolico. È celebre la favola di Proserpina che avendo ottenuto da Giove di essere riscattata dalle mani di Plutone, sotto condizione che non gustasse alcuna cosa nell’inferno, non ottenne il ritorno per avere assaggiati sette chicchi di Melagrano.

Sumptaque pallenti septem de cortice grana
Presserat ore suo.

Così Ovidio, e dategli del bugiardo se avete tanto cuore.

14.

Hic pira, perdulci dederat quæ Gallia succo ecc. (pag. 11)

Senza fallo quì si allude alle Pere così dette del Re o Luise. Il Koroop registra fra le sue 87 specie di Pere, anche quelle del gran Monarca e gran Mogol, del S. Peppino, di Frontignac, Fleury Moscato, l’Angelique de Bourdeaux il Saint-Germain. Questi certamente sono quelli non precisati ma vagamente accennati dal Pico col termine generico di Francesi. L’Aldrovandi scrisse che fin dai tempi di Ulisse (e scusate se è poco) si coltivavano le pere nel Bosforo Cimerio. Che vi siano le pere di S. Luca me lo assicurò il valente floricultore e orticoltore Sig. Sanguinetti. A Bologna, dove ne chiesi il Direttore dell’Orto Botanico, mi si assicura che non vi è un Pero con tal nome. Che monta? Vuol dire che sarà una specie fossilizzatasi dopo l’èra Pichiana. Se sapeste d’altronde quanti nomi di frutti vi sono fra i campagnuoli e delle quali i Botanici sono totalmente ignoranti!

E qui finisco perchè gli altri frutti menzionati dal Pico sono più o meno intelligibili da chiunque non sia della specie delle zucche. Avvertirò soltanto, che non è da allarmarsi leggendo in [p. 41 modifica]quest’elegia che gli Aranci dell’Etiopia vengono in Europa per la strada del mar glaciale. Convien sapere che nel secolo XV, ossia nel secolo delle più grandi scoperle geografiche, anche i più dotti aveano la testa confusa in fatto di geografia e si prendevano delle cantonate da far ridere il più goffo dei ragazzi che oggi studii alla prima elementare. Ma allora, cari miei, non c’erano i sussidii delle carte che abbiamo oggi in che v’è un diluvio di carte e di Atlanti, e lo Schiaparelli ci die perfino una carta dove sono designati di stintamente i mari, i continenti, le isole e i deserti del pianeta Marte.




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