Descrizione dell'isola della Mirandola

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Gianfrancesco Pico della Mirandola 1524 1879 Ercole Sola Indice:Mirandola - Descrizione dell'isola della Mirandola.pdf Descrizione dell'isola della Mirandola Intestazione 12 maggio 2023 100% Da definire

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DESCRIZIONE DELL’ISOLA DELLA MIRANDOLA

DI GIO. FRANCESCO PICO


Gio. Francesco Pico al Figliuolo suo, Salute.

A dì passati mi giacea infermo; e, per non stare oziando, presi a cantare circa dugento elegiaci. Perocchè il soggetto, cui dava opera a descrivere, essendo assai minuto ed umile, non mi consentiva la maestà del verso eroico. Io avea formata, con spesa non piccola, un’isola a presidio del castello e della terra della Mirandola, e, a trovar sollievo tra i travagli, l’avea piantata d’erbe e di fiori, e l’avea ornata con portici e con sedili. Non potendo godere di tali cose, per cagione della malattia, applicai a presentarmele colle sue immagini per mezzo di un carme, e poscia, per quanto le forze me lo ebbero consentito, espressi in versi le cagioni che mi aveano indotto ad innalzarla e ad usare di lei. Io te li spedisco, e, per essi, più facilmente sarai allettato a visitare l’isola, dacchè tante volte m’hai già defraudato nelle tue promesse; temendo non poco, che a te pure avvenga, ciò che a molti suole accadere, che, mentre sprezzano i pesciolini già presi nel lido per andar dietro a’ grossi, essi medesimi si affidano poi a’ flutti a loro rovina. Nella state trascorsa non ho posto in luce nè un inno nè un verso. Io sono stato così inteso a risolvere tutte le questioni sulla podestà ecclesiastica per mezzo di quarantadue teoremi, che ho vissuto poco men che dimentico di me medesimo. Non devi meravigliarti perciò se non consegnai ai procácci, siccome son uso, nuovi inni al tuo indirizzo. Addio. [p. 19 modifica]


     Questa è la terra mia: all’Aquilone
L’Alpi prospetta, l’appennino ad Ostro;
E quinci e quindi, se di nostre torri
Desio ti spinga adi toccar la cima,
Ti fia concesso di lassù mirare
Eccelsi gioghi biancheggiar per neve.
In mezzo all’una ed all’altr’Alpe, a uguali
Distanze separato, fra ridenti campi,
Fremente e altiero coll’ondosa piena,
Il Po, ferace d’alti pioppi, scorre.
Lontan da questo quanto dieci mila
Son de’ passi, Mirandola torreggia,
A cui di Euride il portentoso parto
Il nome impose allor che lieta in grembo
All’avo augusto, quei che in umil tetto
Cresciuti aveva e Pico e i suoi germani,
Perdon chiedendo, deponea la pia.
Siede essa al mezzo del cammin che adduce
A Mantova da Modena, ed è ricca
Di paschi e greggi e di felici méssi.

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Di fossati e di mura si circonda,
Ma il terrapien che tutta la ricinge
Opra è recente. Assai fastosa ed ampia
S’erge la reggia de’ suoi prenci antichi,
Per magistero d’arte alta, sublime.
Un’isoletta, in quella parte, dove
Si corca il sole, le si leva in fronte.
Non mai di questa più graziosa vide
Nocchier che solchi l’ocean profondo.
Nè già natura la formava, o sorse
Per vuoto fatto da fuggite linfe.
Effetto è d’arte, e non ne han l’eguale
Dell’Asia vasta o dell’Italia i mari.
Che al fianco volto di Boote al carro,
Spaldo munito di tonanti bocche
Da ogni nemico insulto la difende.
Ma l’altra fronte che al soave spiro
Di Zefiro si allarga, una golena,
Discosta alquanto, la protegge e affida.
E una torre, v’aggiungi, a sopraccapo,
Da le cui balestriere sul nemico
Piombano strali di roventi acciari.
E un rivellino a forma di tricuspide
Dal lato di occidente ancor la guarda.
Poscia, a la banda donde soffia il vento
Che vien dai lidi Nabatei, e dall’altra
Onde le uggïose nebbie il pigro Austro
A noi travolge, colossal bastita
A cavalier de la città ne veglia,
Che le quadrella giù scagliando e il fuoco
L’una e l’altra region tutela e sgombra.
Quivi un maschio di torre al ciel si estolle

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Che ogni loco entro e fuor guarda e osserva.
All’isola così cittade e rocca
Son di presidio, e a quella e a questa
Sue difese prestar può l’isoletta.
     Or tutto questo s’approntò pei giorni
Ch’arde la guerra, e gli animosi petti,
Per la patria a pugnar chiama la tromba.
Ma allor che arriva, redimita il crine
Di verde ulivo, a passeggiar la terra,
Pace col niveo piede, allor ben d’altre
Cure si allieta il core. Allora è bello
Sovr’ampia stesa di terren, piantato
D’alberi molti, deliziar lo sguardo;
Ovver, seduto su marmorei scanni,
Sotto l’ombra del portico ospitale,
Le fughe contemplar de’ colonnati
E l’erbe, e l’onde, e il cielo azzurro e terso.
Quà le viti, coi teneri lor tralci,
Han tanto cor d’inerpicarsi fino
Dove l’annosa quercia si biforca.
Altra più umìl sen vien su da uno sfondo,
E lar che all’erba e al portico sì dica:
Amici, aita, a voi mi raccomando.
Vicin, sul lungo margine d’un rio,
L’alber Cotogno ed il gentil germoglio
Del Dittamo vi fondano radici;
E l’Avellana che i suoi dolci umori
Ognor di molta e fosca ombra circonda.
Siffatte stirpi di Canèa la terra
Spedì da Creta al nostro Lazio, dopo
Il don de’ la faretra micidiale.
D’altri poscia cespugli una infinita

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Famiglia che spalleggia un sentieruolo
Divisato a meandri, e che serpeggia
Tutto attorno fin sopra a un monticello.
E v’è il Mandorlo dai cui nudi rami
Ci fingono i poeti penzolante
Di re Licurgo Fillide la figlia.
V’è il Prugno o sia Susin, che in varie fiate
Il nomade nocchier fra le tempeste
Recò in Ausonia; il Prugno Damasceno
E quel che è oriundo già del clima Ispano.
V’è l’Appio Melo, cui non so se detto
Fosse da l’api oppur da l’Appia gente,
Neve a vederlo e come il miele dolce.
V’è quello ancor che con onesta voce
Fu detto Melo-rosa, il fausto frutto
Cui diero a Italia i Decii tunicati.
V’è pur la profumata Bergamotta
Quale è già fama traducesse a Roma
Ad istrumento de le sue delizie,
Attalo ai Quiriti tanto amico.
Non mancavi il Ciliegio dolce-amaro
Che, in mezzo alle ire de’ pescosi flutti,
Recò Lucullo il vincitor del Ponto.
Poco più oltre, è il Celso babilonico
Tanto prezioso per le sue frondi, e tanto
Per le sue bacche saporite, grato,
Quando l’estate cogli ardenti soli,
E il Sirio Cane inaridisce i campi.
Felice ancor v’alligna il Melo-Pesco
Di Persia, faretrata un dì, venuto,
Che porta i frutti d’or di sangue intrisi.
E questo è quel che il milite romano

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Tolse a le falde della rupe Argea,
Là in Cappadocia, Melassirio detto.
V’è il Melograno di sapor diverso,
Vago altrettanto come quel che visse
Presso Ivica o la bellica Cartago.
Ecco le Pere zuccherine al labbro,
Che son di Francia, onor di regie mense.
Quelle altre, oh! quelle da Bisanzio sono,
Ed anno il nome imperïal da lui
Che diede il nome al luogo: Costantino.
E quelle son le pere di S. Luca
Là di Bologna su gli aprici colli
Originarie, come il nome dolci,
Poi quì ad un fascio, accennerò i Castagni,
Il Corbezzolo, il Giuggiolo, col Noce,
E il resinoso e sempre verde Pino
Che dei giardini e d’ogni pianta è il re.
Non ti dirò dei Fichi in tante forme
Ingentiliti dal sapiente innesto;
Non de le mille varie specie piante
Che selvaggie osservai già in mezzo ai campi,
E ho pensier di educar ne’ miei giardini,
Con altre più che la natura porta
E il dotto volgo esotiche battezza.
Chi poi volesse averne esatto elenco,
Conti pria quante son piante in Italia,
E quelle tratte dai lor patrii monti,
E quelle amanti delle basse valli.
Un’arbor v’è, nè donde sia conosco,
Pien di racemi che dovrà fra poco
Portar senz’altro la nostrana vite.
Un’altro dà la Bosforana Sorba

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Cui dicon portentosa in medicina
Contro le lassitudini de l’alvo
Questa, e con questa, dell’ulivo insieme,
A me le marze diè Verona, l’emula
Del Sannico ulivifero Tavurno,
Colle minute bacche di Lampone
Che allappano alla buccia e polpa han dolce,
Tanto propizie negli estivi ardori.
Benaco poi de’ corpulenti Cedri
M’inviò le carra ricchi a frutti e fiori,
E del Mirto e del Lauro anco i virgulti
Tanto odorosi e del mordace Pepe
Che venne già dai regni dell’Aurora.
Annaffiata coll’onda del Sebeto
Di Mandarini d’oro una selvetta
Mi fè tener Partenope la bella.
Nè ciò sol, ma il gratissimo al palato,
Agli avi nostri ignoto e forestiere,
Ipomelo chiamato, o Lazzeruolo;
Se pur non è già il Nespolo descritto
Da Alceo di Lesbo che gli diè le foglie
Pari a quelle del Sèdano, o pur anco
Quel che l’egregio medico Dioscoride,
Già militante nelle Egizie squadre,
A noi descrisse, e che poi Mauri ed Arabi,
Con inversione della greca voce,
Nella punica dissero Zaruro.
È il frutto tricolor per eccellenza.
Or vestesi di porpora, talora
Volge a una tinta lattea, talora
Quasi cereo al color; ma se lo saggi,
Grato sapore ti darà sentito

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Di un agro dolce e di un dolce agro misto.
Ma in corpo ha l’anime dure come osso
Direste che sien Nespole, ma in capo
Non lo fregia l’onor della corona,
Nè di mantel ferrigno si colora,
Nè fa vedervi mai l’insito cono
Dal calicino alquanto prominente.
Ed altri Lazzeruoli, oh strano invero!
Traverso a l’ire de’ commossi flutti,
Ci manda pur la Cipriotta Pafo.
E Genova, regina d’ogni mare,
C’invia le piante che da lei divelte
Fur dalle cime del nevoso Atlante,
O da la valle degli Aranci colse
In Etïopia, e ai lari suoi portò,
Vaghi, fiammanti, lucidi come oro.
A grave stento superati i guadi
Del mar glacciale, cariconne i dorsi
De’ muli avvezzi a trasportar le merci.
Vergognosi si ascondano i pometi
Del re Feaco Alcinoo; son favole
Quelli a cui veglia soprastette un drago;
I mei son veri, ed una ciancia quelli.
Non d’una sola d’altri climi stirpe
Vantar si ponno: Esperidi fur tutte.
Ma noi... noi sì; dal vasto mar dai monti,
Da campi e selve, da laghi, da fiumi,
Le abbiam cercate e col natío lor suolo
Costà nel grembo all’isoletta nostra
Le consegnammo: e non c’è ladro astuto
Che insidiar le possa: ai lor ma’ passi
Si oppongono ampie fosse, e se talento

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Vien lor di trapassarle ignudi a nuoto
L’han che far con le siepi irte di spini.
Altrove poi lunghesso un rigoletto,
Chiuso da verdi e morbidose piote,
Sorge densa di salici falange.
È qui che lasso dalle gravi cure,
E da miei studi, volontieri io scendo.
Piacesi l’occhio in rimirar le frondi
E i fior renidendi su le piante
Su cui la snella passeretta gracchia.
Da ogni cespo olezzante alle papille
Vien grato un senso, ed ogni cosa ha vita,
Il portico, la terra, i fiori e l’aura.
Mille dolci fantasmi all’alma stanca
Si affacciano, ed in quelli entro si tuffa
La meschinella che di lor si pasce.
Ma poi che quell’aspetto di campagna,
Girando gli occhi, scacciami dal core
Le incresciose memorie di mia vita,
Una quïete placida sottentra.
Allor mi giova sollevar gli sguardi
Ai tanti doni onde il supremo nume
Ricolma gli indegnissimi mortali.
Uno sdegno m’incita a detestare
Le tante colpe de l’ingrata mente,
Il malo istinto delle umane genti.
E all’Eden primo col pensier men volo
Pien di delizie, se del divo Padre
Ai detti obbedïente il genitore
Primiero degli umani, di una donna
Ai vezzi fatto non si fosse schiavo.
Ligio a le frodi della mala striscia,

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Ahi che purtroppo rese vani i detti
Del sommo padre e disfidò la morte.
Nè già la pena venne a piede zoppo!
Colla vindice spada incandescente
L’angel cacciollo dal terrestre edène,
E sul capo e quello dei nepoti
Versò de’ mali la tremenda coppa.
L’illusa prole, assai peggior del padre,
Alternò nel cammin colpe e sventure,
Ed obliando il Dio del ciel, curvossi
A vani idoli sciocchi, infin che il sommo
Padre d’intatta Verginella in seno
Mandò dall’alto l’unico suo figlio.
Mercè colei si dileguò per sempre
Dell’antica infernal serpe il veleno;
Commutossi la morte nella vita,
S’aprì la strada al ciel, che fu già chiusa
Pel fallo primo. Il mite Nazareno
Coi figli d’Eva soggiornò, parole
Lasciò di vita eterna e con prodigii
Provvide ad egri molti e a peccatori;
E parabole fur le sue dottrine,
Meravigliose di virtù e sapienza.
Quelle cose che son nel mondo, disse,
Del vivere a sostegno vi valete.
Del corpo poi servitevi in tal guisa
Che sia dell’alma albergo sacrosanto.
Coll’alma poi, servite a Dio, con tutte
Del cor le forze e ne osservate i detti.
Non tanto il navighier che solca l’onde
Specula Arturo e l’Orsa e Cinosura,
Come la speme vostra ha da aver l’ali.

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Volte alla spera del celeste Eliso,
Più bel de l’altro che perdeste un giorno.
Troppo felici e fortunati troppo
Per quel potendo commutar la valle
Detta del pianto, per la terra il cielo.

Fine.

Ad onore di Dio ed a salute nostra

Il giorno di S. Cecilia dell'anno MDXXIV.





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