Demetrio Pianelli/Parte terza/V
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V.
Una mattina Beatrice vide entrare in casa Palmira tutta spaventata.
— Che cosa c’è?
— Taci, lasciami sentire — disse la Pardi, ansando, porgendo l’orecchio all’uscio.
Quando fu sicura che nessuno l’inseguiva, trasse un sospiro.
— Jesus, — disse, — che corsa! quel bestione è capace di farmi una figura in istrada.
— Chi?
— Mio marito, Secco. Mi fa la guardia. Vengo dalla Posta dove ho ritirata una lettera. Eccola qui, non ho avuto tempo di leggerla.
— È sempre Altamura?
— Già, mi scrive da Barcellona. Fa furore anche là.... Stavo per aprire la lettera, quando vidi sbucare Secco dal portone della Corte. Era là in sentinella. Ci deve essere della gente che gli soffia nelle orecchie. Non mi sono fermata ad aspettarlo, naturalmente: ma giù per la via del Pesce, su per i Visconti, giù per San Satiro, volta per l’Unione. Il pancione non può correre tanto e io sfido un cervo. Ma è capace d’aver presa una carrozza. Taci, senti: non si è fermata una carrozza davanti la tua porta? Scusa, va a vedere.
Beatrice andò alla finestra. Alla porta non c’era niente.
— Mi rincrescerebbe anche per te, perchè Secco se si monta la testa non ragiona più. Ma la deve pagare, lo stupidone. Oggi gli faccio una scena da far correre le guardie.
— Scusa, Palmira, — provò a dire Beatrice — se però ti trovasse la lettera di Altamura? non ti pare che avrebbe ragione?
— È per questo che son corsa. Ma non voglio scene in istrada, non ne voglio. Non mi lascio imporre, veh! Se non dimanda scusa, faccio fagotto e me ne vado.
— Dove vuoi andare, cara te?
— In nessun sito, si sa — rispose con un gorgheggio di mascherina la moglie del buon Melchisedecco. — Quando mi vede fuori dei gangheri, abbassa subito le arie, diventa un agnello. Bisogna fare così cogli uomini. Non mostrare mai d’aver paura. È perchè noi donne non andiamo d’accordo; ma, se ci mettessimo, non sai che in ventiquattro ore cambiamo la legge del mondo?
Beatrice stava a sentire incantata, quasi impaurita di queste famose massime. Il coraggio e lo spirito di Palmira l’intimidivano. Non capiva come vi potessero essere donne così temerarie, da tentare la pazienza e le furie di un povero uomo a quel modo.
— Scrive che, finita la stagione di quaresima, tornerà in Italia.... Oh, bravo!...
Palmira agitò nell’aria il foglio e se lo portò alla bocca.
— Sì, sì, va bene, ma tu sei troppo.... — provò di nuovo a dire con lento accento di rimprovero la buona Beatrice, che faceva con Palmira la parte del buon Angelo.
— Troppo che cosa? — saltò su la Palmira, guardandola cogli occhi socchiusi. — Cara la mia innocentina! non tutte hanno l’arte di spennacchiare la gallina viva senza farla gridare. O che tu sei diversa dalle altre?
— Che cosa credi? — esclamò Beatrice, arrossendo.
— Io non voglio saper niente, non sono il tuo confessore. Lasciami vedere se non è giù ancora a far la guardia.
Palmira andò a spiare dietro le gelosie socchiuse e guardò a destra e a sinistra. Quando fu certa che Melchisedecco non c’era, stracciò in cento pezzetti la lettera, che seminò per la stanza, e soggiunse:
— Vado intanto che ho la furia addosso. Son passata di qui anche per dirti una cosa che ti riguarda. Ieri ho trovato il cavaliere, che mi ha detto di dirti che ha visto l’avvocato, che la causa è a buon punto, che tuo padre ha cento ragioni, che ha bisogno di parlarti.
— Davvero? — esclamò Beatrice con un piccolo grido e con un saltino di gioia. — Questa è una bella notizia.
— Verrebbe egli da te, ma ha paura di trovare qui quel tuo, come si chiama?.. quel del redingotto. Che cosa fa quella tua bellezza?
— Dove posso trovarlo?
— A casa sua, forse.... Sai dove sta? in via Velasca, nella porta dei bagni. Se ci vai domenica, lo trovi certo. Ci sarà anche l’avvocato....
Palmira era già a mezzo della scala, ricacciata dalla furia che l’aveva condotta. Uscì nella via nel momento che passava il tram di Porta Genova. Fece segno colla mano al conduttore, saltò su svelta come una gatta, sedette a sinistra, e trasse il portamonete per pagare.
Quando alzò le palpebre si trovò seduta in faccia al signor Melchisedecco Pardi, fabbricante di nastri con ditta al ponte dei Fabbri, che in una posa di Napoleone a Sant’Elena la divorava cogli occhi.
Palmira aveva ragione di dire che suo marito le faceva la guardia.
Dal giorno che Cesarino Pianelli, o per leggerezza o per vendetta, aveva buttata fuori la prima parolina ironica, il buon Pardone non era stato cogli occhi chiusi.
Conosceva le tendenze di sua moglie e non s’illudeva.
Egli l’aveva levata da un telaio di nastri col vestito di cotone, coi piedi negli zoccoli; l’aveva sposata, l’aveva vestita di seta, coperta d’oro e l’amava ancora dopo dieci anni di matrimonio, colla forza lenta, costante, vigorosa dei temperamenti linfatici.
Palmira non negava mica che il suo Secco fosse buono: anzi in certi momenti guai a toccarglielo! non amava il male in sè, ma per la varietà, colpa dell’argento vivo che aveva indosso e della sua nessuna educazione di famiglia.
Il buon Pardone portava pazienza, la compativa fin dove può arrivare un marito. Lasciava che andasse in maschera, che gettasse i coriandoli dal balcone, che ridesse, scherzasse pure cogli uomini; andava anche lui a divertirsi, quando avrebbe preferito dormire nel suo letto.
Non rifiutava nemmeno di infilare il frac e di dormire in piedi alle feste da ballo dove Palmira faceva il diavolo.... Ma, ohe! non voleva che la gente dicesse che il signor Pardi dormiva troppo della grossa. Scherzare, fare il diavolo, fin che si vuole: ma il signor Pardi era lui.... Se bisognava, c’erano anche dei buoni pugni....
Queste cose all’incirca scattavano fuori da quel paio d’occhi, con cui cercava di divorare sua moglie, se la signora Palmira avesse avuta la compiacenza di lasciarsi divorare.
Egli sapeva che c’era un tenore di mezzo. Lo aveva visto alla festa a far le smorfie del Trovatore a Palmira, e fin qui, pazienza! è il loro mestiere di far le smorfie. Ma egli aveva ogni ragione di credere che tra Barcellona e la via dei Fabbri continuasse una corrispondenza segreta. Una volta sulla scala aveva trovato per caso una fascetta di giornale con un bollo spagnuolo.... o almeno gli parve spagnuolo. Certo non era dei nostri. Seppe poi da un impresario, a cui aveva garantita una cambiale, che il signore «di quella pira» mandava in visibilio gli spagnoli col suo famoso do. Niente di male, era questo il suo mestiere; ma corrispondenze segrete, no, per Dio!, non ne voleva di corrispondenze segrete. Anzi l’amico impresario era incaricato d’avvertirlo nel caso che l’altro passasse da queste parti: piacere per piacere, siamo al mondo per aiutarci. Ma il buon Pardone si fidava ancora più degli occhi suoi. A tempo perso pedinava la moglie, alla lontana, senza farsi scorgere, e la colse proprio sul punto che usciva dal portone della Posta.
Che cosa andava a fare alla Posta la signora Pardi? e non ci sono i portalettere pagati per questo? C’era una lettera, l’aveva vista cogli occhi suoi, c’era.... Doveva essere in una di quelle due tasche.
E ingrossava ancora di più gli occhi, come se volesse guardare sotto i panni.
Palmira, rigida, fredda, indifferente, colse il momento che il tram rallentò la corsa per ingombro, si alzò, non aspettò che la carrozza fosse ferma, con un salto andò giù, e infilò subito una via a sinistra, verso casa, mentre il signor Melchisedecco andava sonando e risonando il campanello per farlo fermare. Non era uomo da far salti; del resto non c’era bisogno di correre. Forse era meglio che gli passasse un poco la scalmana...., ma sentiva che questa volta erano pugni. Non ne voleva di corrispondenze. Per la corrispondenza di fabbrica bastava lui.
Palmira capì che il temporale era grosso: affrettò il passo, s’infuriò più che potè, corse su per la scala, passando in mezzo al frastuono dei duecento telai che lavoravano al primo piano, spinse l’uscio, entrò come una bomba, facendo trasalire la donna di servizio, passò in camera e cominciò a spogliarsi, strappandosi di dosso la roba come se si facesse a brani colle mani e, quando il signor Pardi, con comodo, comparve sull’uscio e cominciò a guardarla ancora con quegli occhioni di bove, non gli lasciò il tempo di aprire la bocca, ma, già quasi mezza svestita e spettinata, attraversò la stanza, trascinandosi dietro la roba, e lo investì con tale uragano di ignominie, che Pardone chiuse gli occhi e si appoggiò colle grosse spalle all’uscio, quasi volesse impedir alla voce di uscire. Il rumore dei duecento telai non riusciva a coprire quella voce irritata di furia francese. Essa gli buttò sul viso un guanto, lasciò cadere e passeggiò sul vestito, lo fulminò senza pietà con quei suoi grandi occhi di carbone, pieni di scintille e di sangue, finchè, disfatta quasi dalla sua stessa convulsione, si aggrappò colle braccia nude al collo del suo buon Pardone, rovesciò tutta la testa indietro col gran volume dei capelli lisci e neri sciolti sulle spalle, e sospirò, atteggiandosi a vittima.
— Son qui, ammazzami, ma dimmi prima che cosa ti ho fatto. Ammazzami qui, in casa tua, ma non voglio che tu mi faccia delle figure in istrada. Se non vuoi che io esca di casa, legami alla gamba del letto, chiudimi dentro a chiave, ma non rendermi ridicola in faccia alla gente. Sono stufa, stufa, stufa; e se dura un pezzo ancora questa vita, mi butto nel Naviglio. Non sono una stupida per non capire che tu mi vieni dietro ad ogni passo.... Ebbene, parla.... chi è il mio amante?
— Quella lettera....? — chiese il povero uomo, soffiando la sua grossa emozione e tremando in tutto il corpo.
— Vedi, come sei stupido? è tutto qui? eccola la famosa lettera. To’, leggila, c’è ancora il bollo fresco. È arrivata ieri, guarda.... Modena.... Leggi e guarda come sei imbecille colla tua gelosia.
Il buon Melchisedecco voltò e rivoltò la letterina, che Palmira trasse dalla tasca del suo vestito rimasto in terra in mezzo alla stanza. Era una lettera di Eloisa, una cugina, maritata a un tenente di guarnigione a Modena, una lettera di complimenti e di piccole commissioni.
Melchisedecco chinò il capo e stette un momento pensoso. Poi, dissimulando la sua incredulità e il suo profondo affanno, soggiunse con un tono raddolcito di tenerezza e d’indulgenza:
— Se anche sono un poco geloso, non ti faccio torto. Se mi volessi bene....
— E non te ne voglio forse? senti, adesso.... cose da far piangere di rabbia. E non sono sempre qui in casa con te come un cagnolino, a fare i conti dei rocchetti e delle matasse? e quando mi lamento io di questa vita? e non dico sempre che il Signore mi ha voluto bene e che sono stata fortunata? e non conservo forse sempre per memoria l’ultimo paio di zoccoli che ho lasciato ai piedi della scala quella notte che tu mi hai detto che mi volevi bene? Ti ricordi? tua madre non voleva che tu mi sposassi, e noi ci siamo sposati lo stesso.... ti ricordi? quella notte, in quella stessa stanza.... Oh no! non meriti nemmeno che io te ne parli. Allora sì mi volevi bene; ora perchè sono diventata vecchia, sono la vespa, la biscia, l’ingrata, l’infame.... Oh, è troppo! io morirò di crepacuore....
E la povera Palmira piangeva davvero un fiume torrenziale di lagrime, ingannando quasi sè stessa. Le spalle, il collo, il viso s’infiammarono sotto la violenza di quel piangere dilagato, a cui il buon Melchisedecco non sapeva come porre un argine. Egli mormorò qualche parola, cercò di giustificare ancora una volta più dolcemente la sua condotta, promise di non farlo più, docile, mortificato come un bambino, e tornò in fabbrica col corpo rotto dal pentimento.
— Mi sarò ingannato, — diceva dentro di sè, — ma corrispondenze non ne voglio.
Il frastuono dei duecento telai in mezzo ai quali egli cercava un sollievo all’affanno che gli gonfiava il polmone, non valse a rompere nella sua testa lo stampo di quella frase imperativa ch’egli seguitava suo malgrado a ripeter coi denti stretti. Dovette dare degli ordini, scrivere una fattura, ma i denti dopo quasi un’ora vibravano ancora della scossa ricevuta, e della frase rotta e stritolata egli masticava ancora, dopo quasi un’ora, qualche estremo monosillabo.
— Non ne voglio io delle....