Demetrio Pianelli/Parte terza/VI
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VI.
Per alcuni giorni Beatrice visse nel pensiero e nella speranza di quella causa, che doveva rendere l’indipendenza a lei e ai suoi figliuoli. Non potendo più resistere al desiderio di sapere quel che l’avvocato poteva aver detto in proposito al cavalier Balzalotti, una domenica, mentre i ragazzi erano a spasso nei giardini pubblici con Demetrio, uscì di casa, fece una corsa fino in via Velasca, trovò facilmente la porta dei bagni, chiese del cavaliere, le fu indicata una scala e suonò a un uscio del primo piano.
Dopo due minuti sentì un passo misurato accompagnato dallo scricchiolìo delle scarpe e l’uscio si aprì.
— Oh chi vedo! la mia cara e buona signora Beatrice. Brava, arrivata a proposito. Avevo giusto detto alla signora Pardi di avvertirla. Venga avanti. Come sta? oh poverina, la trovo pallidina pallidina.... Ma! — e tirò un sospirone. — Forse a venir dalla strada troverà un po’ oscuro qua dentro.... Per di qua, aspetti, chiudo l’uscio con un giretto di chiave, perchè sono in casa solo e stando di là non si sente chi entra. Sicuro, io vivo sempre solo come un giovinotto, en garçon, con una vecchia Perpetua, che alla festa ha dieci messe da sentire e non so quante indulgenze da acquistare.
Con tutte queste cose comuni il bravo signore procurò di confondere un improvviso affanno, da cui parve cólto nel trovarsi tutto a un tratto davanti una delle più formose bellezze di Milano.
— Scuserà, cavaliere, se ho fatto la sfacciata, — balbettò Beatrice anch’essa in soggezione di trovarsi alla presenza di una persona di tanto riguardo.
— Giusto, brava! si accomodi.... — soggiunse il cavaliere, battendo tre colpetti sulla mano della signora Pianelli.
Il salotto dove l’introdusse era arredato con molto lusso, specialmente di cornici, e immerso in una calda e allegra penombra per via di due grandi trasparenti a fogliami colorati che ricordavano le foreste imbalsamate del lontano oriente. La fece sedere sopra un canapè, corse a prendere uno sgabellino che le mise ai piedi, con un fare cerimonioso come sempre, ma un po’ più timido e più imbrogliato del solito.
Forse il buon benefattore non si aspettava così presto la visita. Forse non aveva ancora formato in testa un piano, e cólto così all’impensata era in paura o di far troppo, o di far troppo poco. Le donne! le donne non si sa mai come vanno pigliate. Sono un po’ come le anguille. A dir la verità, coll’avvocato Ferriani non aveva ancora parlato. Non sapeva nemmeno dove stesse di casa questo signor avvocato. Se aveva anticipato una piccola somma (un centinaio di lirette), oltre che per le insistenze della Pardi, l’aveva fatto per un senso, diremo così, di carità.
— Io devo ringraziarla, cavaliere, di molte cose.
— Di nulla mi deve ringraziare. Sarei venuto io stesso a casa sua, cara la mia signora, se non sapessi che Demetrio è contrario a questa causa. La Palmira - un bel tomo se ce n’è - mi ha contate le prodezze di questo signor Demetrio. Povera Beatrice! è stata una gran disgrazia.
Il cavaliere si passò la punta delle dita sugli occhi per dissipare una certa nebbiolina.
— Ella ha avuta la bontà di parlare col signor avvocato.
— Dovevo trovarmi ieri, ma c’è stato un contrattempo. Però prima di partire lo vedrò senza fallo. Sono chiamato a Roma dal Ministro per affari di ufficio e può essere che di là possa aiutare ancor meglio la faccenda. Conosco dei deputati....
— Lei fa una grande opera di carità, cavaliere, ai miei figliuoli e al mio povero papà.
— E non a lei? oh guarda che cattiva!.. e io che ci tenevo tanto alla sua riconoscenza....
Il cavaliere rise di gusto e sedette su un tombolo di velluto colle ginocchia contro le ginocchia di Beatrice, voltando le spalle alle finestre.
Dallo sfondo rosso-bruno della tappezzeria la figura della vedova Pianelli avvolta nel suo gran velo a larghe pieghe usciva con un non so che di maestoso e di regale, che poteva intimidire anche un vecchio marinaio molto navigato nelle acque dolci delle avventure. Ma il cavaliere sapeva che, al disotto di quella prospettiva, c’era una donna molto buona, molto fatua, molto bambola, molto bisognosa, timida forse per esperienza, ma non più fortificata delle altre.
Questa donna aveva cominciato coll’accettare delle anticipazioni.
Ora non c’era più il marito geloso a far la guardia, e quell’altro guardiano dell’abbaino era un povero balordo, furbo come una giraffa, già sfiduciato e stracco di portare la croce.
Queste riflessioni, uscendo da diverse parti, confluivano in un momento come allo sbocco di un usciolino, facendo tutt’insieme un ingombro che non ne lasciava uscire nessuna. Il cavaliere le pensò in blocco e tanto per tastare terreno, soggiunse:
— Demetrio le avrà parlato di quel mio buon amico di Novara.
— Difatti.
— Gli scriverò domani che l’ho servito da principe. Cospettina, non cápita a tutti di poter dormire uscio a uscio con una bella padrona, come la mia cara signora Beatrice.
— Lei vuol scherzare — interruppe Beatrice con un sorriso di compiacenza.
Non era la prima volta che il cavaliere si permetteva queste galanterie, e non era nemmeno la prima lei a riderne e a pigliarle per quel che valevano.
— Mi farò pagare profumatamente la mediazione.
Qui, posando una manina delicata sul ginocchio di lei, continuò pesando sulle parole:
— Per me.... confesso.... che non potrei chiudere occhio.
Beatrice, che non vedeva più in là dello scherzo, sorrise abbassando gli occhi e mormorò:
— Caro lei....
— Non crede che ne perderei il sonno? sarei costretto a dir rosari tutta la notte.... Non è la prima volta che la mia cara signora Beatrice non mi lascia dormire.
— Oh.... no, — fece Beatrice, protestando per celia.
— Davvero, sa.... — tirò dritto il cavaliere che mentre si avanzava per tastare terreno, non si accorgeva di sprofondare nel molle. — Naturalmente ho sempre saputo rispettare le convenienze. Una donna maritata, si sa, impone dei doveri, specialmente quando ha un marito vivo, geloso, che non dorme. Ma se avessi potuto parlare, come possiamo parlare adesso, qui, in camera caritatis senza far torto ai morti, ho avuto anch’io il mio poema. Si ricorda questo carnevale? Tornavo a casa qualche volta da quelle benedette feste che parevo un uomo matto. Lei ride.... capisco che son ridicolo: ma di chi è la colpa? di chi sono certi occhioni, eh? Pensi l’effetto che mi ha fatto l’altro giorno a sentire dalla Pardi che la povera mia signora Beatrice era caduta in tante angustie, che non aveva quasi più pane per i suoi figliuoli e che si disperava sotto la sferza di un villanzone...: tanto, non è qui a sentire e possiamo chiamarlo col suo nome. Povera martire, povera pecorella! io non so di che cosa sarei capace per toglierla da questo letto di spine. Oh, non mi crede niente?
— Che cosa? — domandò quasi stupidamente Beatrice, come se non avesse ascoltato nulla.
— O crede che tutti gli uomini siano egoisti a un modo? così giovane, così bella.... — sospirò il cavaliere.
Un singhiozzo breve e rotto, mescolandosi alle parole, tradì più che non fosse nelle intenzioni, i sottintesi e l’agitazione dell’oratore.
Beatrice, che quasi rideva ancora, alzò le palpebre e credette di scorgere delle vere lagrime negli occhi lustri del suo benefattore, che sprofondando sempre più nel molle, cercò di trarre a sè la bella manina, la imprigionò nelle sue colla tenerezza con cui si prende e si carezza una cosa viva.
Beatrice s’irrigidì un poco e si ritrasse con un movimento scontroso.
— Io vorrei essere un re per dare a questa bellezza il trono che merita.
Sorpreso anche lui, assalito, trascinato come una pecora dalla potenza cieca della sua passione, il povero signore non ponderava più, non connetteva più. I consigli della vecchia prudenza, che aveva sempre predicato di prendere le lepri col carro, questa volta non arrivavano più fino a due orecchie intontite dal sangue e dalla vertigine.
Beatrice impallidì e cercò di alzarsi. Ma, trattenuta delicatamente, ficcò i grandi occhi stupiti in quegli occhietti lucidi che la affrontavano con violenza, con sete, guardò paurosamente intorno a sè, si sentì sola, chiusa dentro, in casa altrui, in balìa altrui, si smarrì, supplicò con un gemito....
— Senti.... Non sei tu libera e padrona di te? non posso io fare del gran bene a te ed a’ tuoi figliuoli?...
Beatrice si coprì il volto colle mani. Le pareva di scendere in una gola tenebrosa e senza fondo.
— No, forse? — ripeteva la vocina rasente al suo orecchio.
Nell’impeto del ribrezzo essa ritrovò l’energia: si alzò, con un gesto duro del braccio respinse l’insistenza di quel bravo signore. Gli occhi le si riempirono di un’insolita vita, la bocca si contrasse a un tremito di sdegno e di sarcasmo. Poi, come vinta alla sua volta dall’eccesso nervoso della sua energia, cadde di nuovo a sedere e, con la faccia dentro il fazzoletto, si pose a piangere dirottamente come una bambina battuta.
Il cavaliere, squilibrato, pentito, vergognoso, ma non istupidito del tutto, capì d’esser fuori di strada. Il cavallo gli aveva tolto la mano e prima di ribaltare del tutto cercò di mettere avanti le mani. Aveva voluto fare della poesia, alla sua età: male. Beatrice non era certamente venuta per sentire a recitare dei sonetti. Bisognava pigliarla lunga, girare la posizione. L’amore non si accende come un pagliaio e non c’è nulla che mandi più fumo di un fuoco mal fatto. Non volendo perdere tutti i frutti della sua carità e delle sue intenzioni, si mise a sedere a fianco della povera disperata e con un tono tra l’offeso e il sostenuto cominciò a dire:
— Ma che bambina! ho detto così per.... Che diamine! capisco che ho torto. Metta che abbia voluto confessarle un peccato, ecco. Andiamo, asciughi questi occhioni, mi dia la manina e mi assolva. Che cosa c’è da piangere? lei è in casa di un gentiluomo e conosco troppo bene gli obblighi di ospitalità per.... Che diavolo! Là, via, non mi dia questo rimorso d’averla fatta piangere così. E che lagrimoni! Discorriamo dei nostri affari. Che cosa si diceva? ah, della causa e dell’avvocato. L’ho visto e mi ha detto che oramai non c’è più nulla a sperare. È una barca scassinata che fa acqua da tutte le parti....
Per spiegare come un uomo avveduto cadesse così subito in contraddizione con ciò che aveva detto cinque minuti prima, bisognava immaginare che il cavaliere parlava, sì, colla bocca, ma il pensiero correva dietro a un altro ordine di idee, di meraviglia in meraviglia. Quel piangere sfrenato, quell’atto di ribellione quasi matronale in una donna abbastanza sciocchina, nota lippis et tonsoribus (anche la frase latina veniva a cacciarsi in mezzo), in una donna che nella bella Pardina — una vespa, in lega col diavolo — aveva una così grande confidenza: che accettava con tanta semplicità delle elemosine e veniva in persona a pagare i debiti della sua gratitudine, tutto ciò era un fatto così strano e inesplicabile anche per una testa lucida e pratica, che il povero signore cadde di confusione in confusione. Non restava che di toccare un altro tasto, quello della prosa, e non perdette tempo. Lì accanto c’era uno stipetto con qualche inezia elegante, e vi mise subito la mano.
Beatrice, passato il primo impeto, capì di essere caduta in un tranello, e credette di vedere in questo gioco la mano di Palmira.
Le parole del cavaliere, togliendole l’ultima illusione, l’irritarono e le diedero la forza di reagire.
Ma nell’alzarsi, nel ritrarre il braccio a sè vide risplendere un non so che, un oggetto d’oro, un braccialetto....
Un gran buio invase gli occhi suoi, un gran tremito in tutto il corpo le fece temere di venir meno, di stramazzare in terra. Si appoggiò colla mano alla sponda di una poltrona, abbassò il capo avvilita, incapace fin di piangere, fin di muovere le labbra a un suono di protesta. Una volta fece il tentativo di togliersi dal polso quel segno, quell’anello massiccio; non potè. Non ci vide abbastanza, non ebbe la forza di far scattare la molla.
Il suo protettore pregò, supplicò, perchè non gli facesse il torto di rifiutare un segno innocente della sua amicizia. Non si sarebbe parlato più di queste cose. Non gli rifiutasse questa consolazione: non gli volesse male: gli concedesse il piacere di esserle utile. Per lui era un bisogno del cuore.
Nominò ancora l’avvocato, il deputato, il suo buon amico di Novara, mentre l’accompagnava docilmente verso l’uscio: cercò di ridere e di farla ridere....
Beatrice disse una volta di sì, senza capir bene a che cosa diceva di sì.
Di tutte le belle parole del suo benefattore non afferrò che un rumore sordo, e non vedeva l’ora che l’uscio si aprisse.
Aveva bisogno d’aria, si sentiva soffocare....
Il cavaliere la tenne ancora un momentino prigioniera sulla scala, picchiò ancora una volta sulla bella manina....
Finalmente la povera donna si trovò in istrada nella piena luce del sole, come se fosse volata dalle scale. L’istinto più che la volontà la condusse sulla via di casa sua; ma fece forse cento passi senza vedere innanzi a sè che un bagliore, senza sentire che un gran frastuono di un grosso fiume che passa. Era possibile? e il suo povero Cesarino non veniva a difenderla? Che tradimento, che bassa insidia, che vergogna!... Come tornare davanti a’ suoi figliuoli, davanti alla sua Arabella? per chi l’avevano presa? che opinione aveva la gente di lei? quando aveva lei autorizzato la gente a giudicarla così? O era una vendetta, una stupida congiura di Palmira che voleva abbassarla al suo livello? E i denari presi per amor di suo padre come poteva ora restituirli? a chi ricorrere adesso? in chi fidarsi? Come raccontare queste cose a Demetrio?
E, inseguita da questi fantasmi, andò di via in via senza veder nessuno, finchè, sentendosi venir meno, si rifugiò nella chiesa di Sant’Alessandro, cercò un angolo oscuro presso una cappella, vi s’inginocchiò, quasi cadde sul marmo freddo dei gradini, e raggomitolandosi in sè stessa, nascose la sua vergogna e il suo cocente dolore.