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non guastava la malinconia de’ suoi pensieri, perchè il sordo non l’obbligava a parlare e il cane non l’obbligava a stare attento. Si trovava così solo senz’essere isolato.
Finito il pranzo, mandò Giovann dell’Orghen a portare una lettera a Beatrice, da consegnare al signor Paolino delle Cascine e rimase una mezz’ora a contemplare, per l’ultima volta, col cuore ammalinconito, ma non triste, la stesa dei tetti, già rosseggianti nel sole di tramonto, disseminati in cento strutture intorno all’antico campanile delle Ore, coi fumaioli dalle mille bocche aperte, cogli abbaini, le altane verdeggianti, che era insomma da molti anni il mondo delle sue solitarie escursioni, quando dalla finestra correva cogli occhi lungo le gronde, dentro i soffitti, tra le buie armature dei tetti....
Dunque, addio tegole, addio abbaini, addio campanile delle Ore, addio vecchio duomo di Milano, che più si guarda e più diventa bello, più diventa grande, come se ognuno vi aggiungesse per frangia i suoi pensieri migliori. Addio, Milano, città più buona che cattiva, che dà volentieri da mangiare a chi lavora, ma dove, come in ogni altro paese del mondo, chi non sa fingere non sa regnare.
Mezz’ora dopo egli era alla stazione.
In un angolo della sala d’aspetto, seduto