Della moneta/Nota
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NOTA
I
La versione, per cosí dire, ufficiale circa la storia della composizione e della pubblicazione del classico trattato Della moneta ci è data dal medesimo G. nell 'Avviso premesso alla seconda edizione, da noi riprodotto sopra in Appendice1, e che quindi ci risparmieremo dal riassumere. Né infliggeremo al lettore la minuta esposizione di tutte le discussioni avvenute fin qui tra gli eruditi, per assodare se e fino a qual punto la versione data dal G. sia conforme al vero. Di tutto ciò abbiamo avuta occasione di occuparci in piú opportuna sede, alla quale rimandiamo chi di siffatte dispute brami avere precisa notizia2. Ricorderemo soltanto che il risultato di cosí lunghe controversie, durate un buon secolo e mezzo (giacché fin dal 1751 si cominciò a negare al G. la paternitá della sua opera capitale), è che il fondo del racconto galianeo corrisponda perfettamente a veritá: semplicemente egli, per una malintesa vanitá letteraria, come tacque qualcosa che avrebbe dovuto pur dire, cosí abbellí qualcos’altro con frange, che valessero a fargli conseguire maggior copia di applausi tra la numerosa schiera dei suoi entusiastici ammiratori.
Verissimo, per esempio, che, con quel suo cosí agile e precoce ingegno, che faceva di lui giá un uomo di scienza e uno scrittore nell’etá in cui abitualmente si va ancora a scuola, riuscisse a scrivere, egli proprio ed egli solo, tra i venti e i ventun anno, un’opera la quale fece compiere all’ancora impubere scienza economica un passo da gigante, e che pur oggi, dopo tant’acqua passata sotto il ponte, non può non essere consultata con molto profitto da chiunque si travagli intorno al problema fondamentale del valore. La minuta autografa, venuta fuori in questi ultimi anni3, risolve recisamente qualunque dubbio fosse potuto sorgere al riguardo.
Verissimo ancora che l’aiuto prestatogli dai suoi amici e coetanei Pasquale Carcani e Pasquale de Tommasi si riducesse alla correzione di qualche prova di stampa e ad altre simili bazzecole: piccoli servigi, codesti, che gli studiosi non si negano mai reciprocamente, e che non danno certamente diritto, a chi li renda, di esser dichiarato collaboratore di un’opera. Anche qui i documenti che ci restano, e cioè un giocoso carteggio in non leggiadri versi tra il G., il Carcani e Giovanni Carafa, duca di Noia4, son cosí espliciti, che non c’è accusatore, per sospettoso e ringhioso che voglia essere, che innanzi a essi non sia costretto a ritirare l’accusa.
Verissimo in ultimo che tutto il vantaggio che il G. potè ricavare dall’Intieri e dal Rinuccini non oltrepassasse la misura di quell’onesto aiuto, che chiunque si occupi di studi riceve quotidianamente dalla conversazione con uomini piú dotti e anche meno dotti di lui. Chi, fondandosi proprio sull’assai nobile confessione che in codesto argomento fa il G., ha creduto potergli dare del «ladro di idee», ha mostrato di scambiare le idee coi portafogli. Dio volesse che, in fatto di idee, potessero aver luogo i furti con destrezza! quanto meno tormentosa sarebbe la scoperta della veritá! Ma purtroppo non basta rubare: occorre mettere in valore la refurtiva; ossia, per ritornare al G., il difficile non era impadronirsi delle poche o molte improvvisate osservazioni sfuggite nella foga del discorso all’Intieri o al Rinuccini, si bene, a differenza di tanti altri inerti ascoltatori, farne sangue del proprio sangue, e fonderle, dopo uno o piú tentativi poi abbandonati5, in un libro organico, che a uno degli stessi derubati, e cioè all’Intieri, apparve, quale era, mirabile per freschezza e originalitá.
E, ricordando il giudizio dell’Intieri, abbiamo ricordato anche l’argomento che, in quest’altra tanto dibattuta questione, taglia la testa al toro: argomento giá invocato centoventicinque anni fa dal protobiografo del G.6, e che un gruzzolo di lettere dell’Intieri, anch’esso venuto fuori in questi ultimi tempi7, non ha fatto se non rinsaldare.
Pure, come notavamo in principio, non mancano nel racconto galianeo una gonfiatura e una lacuna.
La gonfiatura, assai innocua e perdonabile, è il grazioso aneddoto circa la gradita sorpresa che il G. avrebbe preparata al suo secondo padre e benefattore, lavorando intorno alla sua opera con tanta secretezza, da far sí che il venerando prelato solamente dopo aver letto e tanto ammirato il libro, senza riuscirne a indovinare l’autore, ricevesse, quando meno se l’aspettava, la dolce soddisfazione di apprendere che aveva letto e ammirato un lavoro del suo prediletto e irrequieto nipote. Aneddoto assai gentile, ma che rivela soltanto (specialmente nelia conseguenza che procura trarne il G., vale a dire che quella sorpresa valesse ad arrestare per qualche tempo i progressi della malattia, che condusse monsignor Celestino al sepolcro) che il G. amasse darsi in pubblico l’aria di uomo dal cuore affettuoso e delicato, quale, a dir vero, egli non fu mai. Giacché, anche qui, i documenti forniti dallo stesso archivio galianeo8 mostrano nel modo piú ovvio che l’elenco delle persone che erano a parte del segreto fosse un tantino piú lungo di quello esibito dal G., e che un posto molto importante in esso occupassero per l’appunto monsignor Celestino Galiani e Niccolò Fraggianni, senza l’opera efficace dei quali (l’uno era cappellano maggiore del Regno di Napoli, l’altro delegato della reai giurisdizione) non sarebbe mai riuscito al giovane autore di pubblicare anonimo il suo volume a Napoli, ottenendo per giunta che ne accettasse la dedica nientemeno che il re Carlo di Borbone.
Ed eccoci finalmente all’omissione cui abbiamo accennato. Certamente essa costituisce la piú grave delle pecche che si sarebbero potute addebitare al G. nel processo di plagio intentatogli con cosí poca caritá cristiana; eppure, come suole accadere, nessun critico, per quanto armato di buoni occhiali, se ne è finora accorto. Effettivamente, nel comporre il suo libro, egli ebbe aiuto, e grande aiuto, dalle opere di un uomo giá morto e dimenticato mentre egli scriveva, e verso il quale commise il torto di porre speciale cura a non ricordarne mai il nome9, quantunque, a dir vero, poter mostrare di essersi saputo servire, nell’anno di grazia 1750, delle opere di lui sarebbe stato titolo di gloria almeno eguale a quello di esibire come tutte proprie e tutte originali una serie di conclusioni, cui il G. non sarebbe di certo pervenuto senza l’ausilio possente del colosso, del quale egli pel primo aveva avuta l’acutezza di devinare la genialitá. E invero che cos’altro se non un curioso tipo di maniaco era pei suoi contemporanei Giambattista Vico? e che cos’altro se non una serie di tanto ingegnose quanto inutili e astruse virtuositá sembrava ai loro occhi l’aureo libro della Scienza nuova? Eppure al G., nonostante i suoi vent’anni, quell’opera apparve, quale era, una inesauribile miniera vergine, nella quale chi avesse saputo un po’ frugare, avrebbe rinvenuta straordinaria copia di ricchezze. E vi frugò da par suo. Entrare qui in particolari minuti non è possibile, perché c’impegoleremmo in una lunga serie di raffronti e citazioni, che crediamo piú opportuno rimandare ad altra sede10. Ma come astenersi dal notare che è perfettamente vichiana l’idea centrale dell’opera galianea, e cioè che la moneta (ossia il concetto del valore), né piú né meno che il linguaggio, la scrittura e l’arte, lungi dall’essere per convenzione, giusta la dottrina aristotelica allora in voga, sia uno dei fatti eterni dello spirito? Come tacere che il convincente ragionamento, col quale il G. dimostra la sua cosí semplice teoria del valore, sia fondato precisamente su due solenni «degnitá» vichiane? Come passar sotto silenzio che quel concetto sulla infelicitá dello stato di natura (perfettamente antagonistico alle vedute del secolo decimottavo) da cui il G. cava giá cotanto profitto nella Moneta (dove adopera di frequente perfino le espressioni, cosí care al Vico, di «stato ferino», «ferinitá», «divagamento ferino» e simili) e che poi doveva contrapporre in piú brillante veste letteraria alle geniali utopie del Rousseau11 è uno dei capisaldi della concezione storica del Vico? E finalmente come non osservare che ciò che il G. dice sulla natura dei feudi e delle aristocrazie, sul corso e sui ricorsi storici; le sue interpetrazioni, non piú naturalistiche (secondo l’andazzo ancora vossiano dei suoi tempi), ma sociali della mitologia greco-romana; le sue cosí belle e acute osservazioni sull’antica geografia; l’adoperare, che egli fa, usi e costumi dei moderni selvaggi a spiegare usi e costumi di quegli altri selvaggi che furono gli uomini primitivi, ecc. ecc.; sono tutte prove lampanti che il nostro autore non affrontò l’intricato problema della moneta, e in generale gli studi di scienza politica, se non dopo essersi armato di una forte corazza di filosofia vichiana?
Senonché non vorremmo che, fraintendendosi le nostre parole, si desse a tutte codeste osservazioni, e alle tante altre che potremmo aggiungere, maggiore importanza di quel che abbiano in realtá. E, anche a costo di essere accusati di inutile ridondanza, ripetiamo ancora una volta che le idee non si rubano, e che chi volesse dar del plagiario al G. perché seppe cosí bene sfruttare il Vico senza citarlo (come del resto sfruttò il Machiavelli anche in qualche punto in cui non lo cita12), mostrerebbe di non aver riflettuto che la Scienza nuova, né piú né meno che i discorsi del Rinuccini e dell’Intieri, era una fonte, cui tutti potevano attingere; e che pertanto non si ha notizia di altri, che dalla lettura di essa fossero mossi a scrivere, sei anni dopo la morte del V., un cosí bel libro di economia, che oggi ancora si sente il bisogno di ristampare.II
La prima edizione della Moneta comparve, non giá nel 1750, come è scritto sul frontespizio13 e come, forse per ismemorataggine, ripete il G.14 (il quale altrove15 ne anticipa la data a dirittura al 1749), ma non prima del settembre 1751, come mostra chiaramente la data del privilegio di Carlo di Borbone (28 agosto 1751)16, Che anzi da un documento pubblicato per la prima volta dal G. medesimo appare che il 16 agosto 175117 il libro non si era ancora finito di stampare.
L’opera andò a ruba, e nei primi tempi, anche nella maledica Napoli, non se ne disse se non bene. Vero è che, non appena il G. se ne rivelò autore, sorsero le voci discordi degli invidiosi, quale negante al giovane scrittore la paternitá dell’opera, quale, meno pudibonda, sostituente agli elogi fino allora prodigati altrettanti vitupèri. Ma, a consolare assai facilmente il G. del piccolo dispiacere di aver dovuto fare anch’egli l’esperienza che nessuno possa impunemente profetizzare nella propria patria, valse, se non il fatto, asserito da un frettoloso biografo18, che il governo napoletano adottò subito le conclusioni del libro (cosa che, se mai, avvenne lentamente e gradatamente, dopo qualche decennio)19, almeno il viaggio, che, poco di poi, quasi a premiarsi della fatica durata, egli imprese per l’Italia20. Fu, per cosí dire, un viaggio trionfale. Non c’era cittá in cui il G. giungesse, dove non gli si facesse festa e onore, come a un giá celebre scrittore. A Roma Benedetto XIV, nell’udienza che gli accordò, gli discorreva con entusiasmo della Moneta e dei Componimenti in morte del boia Iannaccone21. A Firenze, la cittá delle accademie, il G. entrava subito a far parte della Crusca e della Colombaria22. A Torino il re Carlo Emanuele lo trattava da uomo giá consumato in questioni economiche e finanziarie23. A Milano la Moneta serviva al G. come biglietto d’entrata nella eletta societá letteraria dei Verri, dei Beccaria, dei Trivulzi e via discorrendo; societá di cui non faticò troppo a diventare il beniamino e che non lo dimenticò mai, come dimostrano i rapporti epistolari che conservò con lui fintanto che egli visse24. E, caso non troppo frequente pei libri italiani pubblicati in quell’ultimo secolo della nostra decadenza, la Moneta (non sappiamo se insieme col G., nel 1759, o qualche anno piú presto) valicò anche le Alpi e giunse a Parigi, ove l’abate Andrea Morellet, grande amatore e divulgatore di opere specialmente politico-economiche italiane (a lui si deve la versione francese delle Ricerche sullo stile e dei Delitti e pene del Beccaria), ne compiva una traduzione francese, della quale per altro non si sa se sia stata mai pubblicata25. E da Parigi infine l’opera penetrava, alcuni anni piú tardi, in Germania, dove Gian Giorgio Hamann ne faceva oggetto di alcuni raffronti coi posteriori e piú fortunati Dialogues sur le commerce des blés26.
Verso quella sua opera giovanile (che, per altro, dal punto di vista meramente scientifico, rappresenta il meglio che egli abbia scritto) il G. conservò sempre una speciale tenerezza. E, quando, vent’anni piú tardi, diventato tanto piú celebre, era costretto a difendersi dagli attacchi degli economisti francesi, i quali, furiosi di essere stati messi da lui deliziosamente alla berlina nei Dialogues sur le commerce des blés, si affollavano per mordergli le calcagna, ricordava loro che colui, cui essi davano il titolo ingiurioso d’«intruso» e di «nouveau venti dans leur berçail», era «l’ainé de tous les économistes» e il solo che avesse il diritto di cacciar loro di sede, appunto perché il solo che avesse giá al suo attivo un’opera fondamentale di economia, quando la «sècte économique n’était pas encore née»27.
E alla Moneta tornava, con un senso come di nostalgico rimpianto, nel 1780, allorché, ormai sazio di onori e dignitá, e precocemente vecchio come era stato precocemente uomo maturo, aveva quasi perduto ogni attaccamento alla vita, che aveva fin troppo goduta. Ma aimè! quanto egli era diverso dall’uomo di trent’anni addietro! Certamente le sue cognizioni economiche, politiche, giuridiche, storiche e filosofiche erano, a dir poco, centuplicate. Le sue straordinarie qualitá di scrittore, le quali, sia per inesperienza giovanile sia per suo proposito deliberato28, non avevano avuto troppo agio di mostrarsi nello stile sostenutamente accademico e togato della Moneta, si erano, specialmente dopo il suo lungo soggiorno parigino (1759-69), maravigliosamente affinate. Che piú? le stesse cariche pubbliche, che occupava (era consigliere e segretario del supremo tribunale di commercio dal 1769 e presidente della Giunta degli allodiali dal 1777), gli davan ora quel che il solo ingegno non gli poteva dare nel 1750, e cioè la pratica diretta degli affari finanziari. Quali condizioni piú favorevoli per imprendere della sua opera giovanile quella rielaborazione da cima a fondo, che era resa pur necessaria dalle mutate contingenze storiche? Senonché; insieme con tutto ciò, quell’ardore giovanile, il quale negli uomini di sfolgorante ingegno può tener luogo fino a un certo punto del severo e religioso amore per la scienza (che nello scettico animo del G. non aveva mai trovato troppo cordiale ospitalitá), si era del tutto spento. E, quando egli si rivide innanzi quelle pagine, che con tanta foga aveva buttate giú in un momento di entusiasmo, non provò altro sentimento che di noia, di disgusto, di repugnanza. Sentimento, che assale quasi sempre chi si accinga a trasformare un oscuro groviglio di pensieri in una o moltissime pagine di bella o brutta prosa; ma che pur si vince raccogliendosi in se medesimo e procurandosi per tal modo quella sovreccitazione di spirito, che, fatti superare i primi e piú forti ostacoli, rende poi la via sempre piú facile e spedita. Ma il G. non riusciva piú a trovare in sé cotanta forza di volontá. Figurarsi che perfino le settimanali improvvisazioni, che dirigeva alla signora D’Épinay, gli riuscivano ora intollerabili e le aveva a poco a poco dismesse! E, fecondo in pretesti come tutte le persone pigre, procurò di illudere se stesso e i lettori con la considerazione che, poiché le sue teorie scientifiche non erano punto cangiate, non v’era ragione alcuna perché la sua opera giovanile, della quale egli era sempre soddisfatto, venisse ora esibita in forma diversa29. Come se sul serio a cinquantanni si possa essere soddisfatti di un’opera scritta a venti, e non si senta vivo il bisogno di correggerla se non altro dal punto di vista letterario! Giacché nemmeno questo fece il G., ma si limitò ad aggiungere trentacinque note, a dir vero assai belle e interessanti: fatica, codesta, che sarebbe dovuta riuscirgli assai lieve, e che pure gli procurò non pochi sforzi e perfino un momento di sconforto, in cui dubitò se sarebbe stato mai capace di condurla a termine30.
Comunque, codesta seconda edizione31, comparsa tra il giugno e il settembre 178032, valse a rinfrescare la fama della Moneta e ad assicurarle quel posto preponderante tra le opere classiche di economia, che non ha mai perduto. Una quindicina d’anni dopo la morte del G. (1787), la ristampava il Custodi nella sua raccolta di Scrittori classici italiani di economia33; dalla quale la riproduceva poi il Silvestri nella sua Biblioteca scelta di opere italiane antiche e moderne34. E Ugo Foscolo la additava come modello nel suo famoso Discorso inaugurale del 180935; e Alessandro Manzoni ne faceva una delle sue letture preferite e la riempiva di postille36; e Carlo Marx la citava frequentemente con compiacenza nel Capitale37; e il Menger e il Jevons, quando vollero reagire contro la Nationalökonomie, non trovarono nulla di meglio che ritornare alla teoria del valore formolata dal G.38: e a codesta teoria finalmente è dato il posto di onore da quanti economisti nazionali e stranieri si sieno occupati, tanto dal punto di vista teorico quanto da quello storico, del medesimo problema39.
Era ovvio, dunque, che la Moneta trovasse accoglienza nella collezione degli Scrittori d’Italia. Nel riprodurla, abbiamo seguita naturalmente la seconda edizione; introducendo in questa nostra ristampa le consuete modifiche grafiche e di punteggiatura comuni a tutta la raccolta; integrando o aggiungendo qualche citazione nelle note a piè di pagina; correggendo qualche evidente errore di stampa40 e qualche lapsus calami nei calcoli aritmetici; rivedendo sui testi originali parecchi passi di scrittori sia greco-latini sia moderni, che il G. aveva riferiti con non soverchia diligenza; e adottando infine qualche modifica di indole tipografica, che non vai nemmeno la pena di specificare.
- ↑ Si veda p. 355 sgg.
- ↑ Si veda Fausto Nicolini, Intorno a F. G. (Torino, 1908, estr. dal Giorn. stor. d. lett. it.), p. 2 sgg.
- ↑ Si veda Fausto Nicolini, I mss. dell’ab. G. (Napoli, 1908, estr. dall’Arch. stor. nap.), p. 5.
- ↑ Furon pubblicati dal barone Saverio Mattei, L’ab. G. e i suoi tempi (Napoli, 1879): cfr. anche Gaetano Amalfi, Dubbi sul G. (Torino, 1888), p. 31 sgg.
- ↑ Un primo tentativo, poi abbandonato, fu il comento che il G. voleva scrivere intorno alle Considerations of the consequences of the lowering of interest and raising the value of money del Locke, da lui tradotte dall’inglese nel 1744. Si veda sopra p. 314, e cfr. I mss. dell’ab. G. cit., pp. 11-2.
- ↑ Cfr. Luigi Diodati, Vita dell’ab. F. G. (Napoli, 1788), pp. 13-4 n.
- ↑ Si veda il cit. studio Intorno a F. G., p. 4 sgg.
- ↑ Ivi, p. 8.
- ↑ O meglio, lo ricorda due volte (Croce, Bibliografia vichiana, p. 50; Primo supplemento, p. 11 sg.; Secondo supplemento, p. 9 e cfr. p. 10); ma non mai come uno scrittore, di cui si fosse mai servito.
- ↑ Si veda Fausto Nicolini, Giambattista Vico e F. G di prossima pubblicazione nella Miscellanea in onore di Giovanni Sforza, a cui si rimanda per la documentazione di quanto qui si asserisce.
- ↑ Si vedano i Dialogues sur le commerce des blés, edizione originale (1770), pp. 227-39; brano riprodotto in F. Nicolini, Il pensiero dell’abate G. (Bari, 1909), PP. 73 - 83
- ↑ P. e., il iv capitolo del ii libro (pp. 123-131) è in parte ripetizione (talora quasi testuale), in parte sviluppo del famoso x capitolo del ii libro dei Discorsi sulla prima deca di Tito Livio (I danari non sono il nervo della guerra, secondo che è la comune opinione).
- ↑ Della moneta, libri cinque, in Napoli, mdccl, presso Giuseppe Raimondi, con licenza de’ superiori e privilegio, pp. 370 + 16 innumer. innanzi e 6 innumer. in fine, in-4.
- ↑ Si veda sopra p. 355.
- ↑ Si veda la lettera alla D’Épinay del 13 decembre 1770, in Correspondance, ediz. Perey-Maugras (Paris, Calman Levy, 1881), 1, 316. Ma è assai probabile che il G. pensasse, piú che alla data di pubblicazione, a quella di composizione.
- ↑ Si veda sopra p. 362.
- ↑ E la «consulta» riprodotta sopra a p. 361 sg., la quale, quantunque firmata dal Fraggianni, venne effettivamente scritta dal Carulli. Vedila infatti riprodotta tra le Prose del Carulli (Napoli, Orsi, 1794), pp. 179-83. Come cosa del Fraggianni e come inedita, è stata ripubblicata di recente da Michelangelo Schipa, Il regno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone (Napoli, 1904) p. 745 n, di su il ms. delle Consulte del Fraggianni, conservato nella biblioteca della Societá napoletana di storia patria.
- ↑ Si veda lo studio G., ses amis et son temps, premesso alla citata ed. della Correspondance, p. xvii.
- ↑ Si veda sopra quel che a codesto proposito dice il medesimo G. (p. 360).
- ↑ Su questo viaggio si veda Diodati, op. cit., pp. 14-18, e principalmente le lettere inedite scritte in quel tempo dal G. allo zio Celestino e al suo segretario Domenico Sgueglia, nonché un taccuino, che contiene gli appunti presi dal G. giorno per giorno durante il viaggio medesimo, conservati le une e l’altro nell’archivio galianeo, ora posseduto dalla Societá napoletana di storia patria (cfr. F. Nicolini, I mss. dell’ab. G. cit., p. 18).
- ↑ Si veda una lettera a Celestino Galiani, pubbl. dal Diodati, op. cit., p. 16. I Componimenti sono un opuscolo burlesco scritto dal G., in collaborazione col Carcani, e pubbl. nel 1749, per mettere in ridicolo l’avvocato Giannantonio Sergio. Cfr. Diodati, pp. 6-9.
- ↑ Diodati, p. 16.
- ↑ Si veda il cit. taccuino di viaggio.
- ↑ Ivi e cfr. le cit. lettere allo Sgueglia, nonché I mss. dell’ab. G. cit., p. 19 sgg.
- ↑ L’esistenza di codesta traduzione si apprende dal seguente brano di una lettera inedita del Morellet (1 maggio 1770: Soc. nap. di stor. patr., cod. segn. xxxi, A, 13, incart. 41), responsiva a una del G. che è andata dispersa: «Vous me donnez comme une raison qui aurati dû me detourner d’écrire contre vous, la conformitè de vos ‛Dialogues’ [i Dialogues sur le commerce des blés, contro i quali il Morellet aveva scritta una lunga confutazione, che venne pubblicata nel 1774] avec votre livre ‘Sur la monnaie’ — ‘N’ètail-il pas plus simple — me dites-vous — que vous divinassiez que dans mes Dialogues je rèpèterais les mêmes principes que j’ai adopte dans mon livre de la Monnaie, que vous m’avex fait l'honneur et l'amitiè de traduire?’ — A la vèritè, vous insinuez que je serais en contradiction avec moi-même, parce que j’ai traduit votre ouvrage en francais. Mais celle raison n’ est pas bonne. J’ai pu le traduire et en dire beaucoup de bien, sans m’engager pour cela à ne pas le refuter. D’ailleurs, l'estime que je fais d'un volume in-4 n’est pas un engagement de trouver bon tout ce qui y est renfermè. J’ai trouvè et je trouve encore que votre livre est fort bon», ecc. ecc. Senonché, per quante ricerche io abbia fatte, non mi è riuscito rinvenire codesta traduzione. Alla Nazionale di Parigi, almeno, come mi si assicura, non esiste. Né piú fortunato di me è stato Eduardo Dessein, autore di una mediocre monografia sulla Moneta (G. et la question de la monnaie au XVIII siècle, Langres, 1902), il quale confessa che, non avendone potuto rinvenire alcuna versione francese, se ne fece fare una, per suo conto, da un suo amico, piú di lui esperto nell’italiano. Né del trattato esistono versioni in altre lingue, quantunque non manchi chi affermi che «on le traduisit en plusieurs langues» (Perey-Maugras, studio cit., p. xvii).
- ↑ Hamann’s, Briefwechsel mit Jacobi, ediz. Gildemeister (Gotha, 1868), pp. 49. 571-3, 584, 604, 627, 667-8, 671.
- ↑ Si veda la citata lettera alla D’Èpinay.
- ↑ Si veda infatti p. 331.
- ↑ Si veda sopra p. 357.
- ↑ Si veda la lettera alla D’Épinay del 18 marzo 1780, in Correspondance, ediz. cit., il, 585. Per qualche altra notiziola sulla stampa e sulla diffusione della seconda edizione della Moneta si vedano le lettere alla D’Épinay del 3 giugno, 22 luglio e 9 settembre 1780, nonché la lettera al Grimm del 5 agosto dello stesso anno (ivi. pp. 587-96).
- ↑ Della moneta, libri cinque di Ferdinando Galiani, edizione seconda, in Napoli, mdcclxxx, nella stamperia simoniana, con licenza de’ superiori, pp. 416 + 2 innumer. innanzi, in-4. Un fregio del frontespizio riproduce una moneta di Costanzio, con l’indicazione: «Max. mod. Ineditus apud Auctorem», e la firma dell’autore dell’incisione «R. Morghen fece». Delle Note vennero anche tirati esemplari a parte, di cui qualcuno è stato rinvenuto tra le carte del G.
- ↑ Si veda la cit. lett. alla D’Épinay del 9 sett. 1780, nonché i pareri dei revisori civile (il canonista Domenico Cavallari) ed ecclesiastico (il teologo Salvatore Ruggiero), che recano rispettivamente la data del 5 e dell’11 giugno 1780.
- ↑ Voll. iii e iv (Milano, Destefanis, 1803).
- ↑ Voll. 285 e 2S6 (Milano, 1831). Da allora in poi, a quanto possiamo sapere, la Moneta non è stata piú ristampata integralmente. Tre brani e un riassunto dell’opera vennero riprodotti nel Pensiero dell’ab. Gal. cit., pp. 3-44.
- ↑ Ugo Foscolo, Dell’origine e dell’uffizio della letteratura, in Opere scelte (Napoli, Rossi, 1851), p. 268.
- ↑ Alessandro Manzoni, Opere inedite o rare (Milano, 1885), pp. 119-121.
- ↑ Karl Marx, Das Kapital (1867), iv Aufl. hrg. von Fr. Engels (Hamburg. 1890-4), passim nelle note.
- ↑ Cfr. Augusto Graziani, Storia critica delle teorie del valore in Italia (Milano, 1889), pp. 97-111, in cui codeste derivazioni vennero messe per la prima volta in rilievo, e che resta sempre il migliore studio che si sia scritto ritorno alla Moneta.
- ↑ Per la restante bibliografia critica sulla Moneta, senza accumulare altre citazioni, rimando al Saggio bibliografico, pubblicato in appendice al volume Il pensiero dell’abate G. cit., p. 424, da compiersi con le altre notizie da me date in Giorn. stor. della lett. ital., lxii, 442-4.
- ↑ Una correzione non ho osato fare, ed è lo «stranissimo» di p. 340, r. 16, che sta evidentemente per «rarissimo». Forse è parola del gergo finanziario napoletano del tempo.