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Effettivamente, nel comporre il suo libro, egli ebbe aiuto, e grande aiuto, dalle opere di un uomo giá morto e dimenticato mentre egli scriveva, e verso il quale commise il torto di porre speciale cura a non ricordarne mai il nome1, quantunque, a dir vero, poter mostrare di essersi saputo servire, nell’anno di grazia 1750, delle opere di lui sarebbe stato titolo di gloria almeno eguale a quello di esibire come tutte proprie e tutte originali una serie di conclusioni, cui il G. non sarebbe di certo pervenuto senza l’ausilio possente del colosso, del quale egli pel primo aveva avuta l’acutezza di devinare la genialitá. E invero che cos’altro se non un curioso tipo di maniaco era pei suoi contemporanei Giambattista Vico? e che cos’altro se non una serie di tanto ingegnose quanto inutili e astruse virtuositá sembrava ai loro occhi l’aureo libro della Scienza nuova? Eppure al G., nonostante i suoi vent’anni, quell’opera apparve, quale era, una inesauribile miniera vergine, nella quale chi avesse saputo un po’ frugare, avrebbe rinvenuta straordinaria copia di ricchezze. E vi frugò da par suo. Entrare qui in particolari minuti non è possibile, perché c’impegoleremmo in una lunga serie di raffronti e citazioni, che crediamo piú opportuno rimandare ad altra sede2. Ma come astenersi dal notare che è perfettamente vichiana l’idea centrale dell’opera galianea, e cioè che la moneta (ossia il concetto del valore), né piú né meno che il linguaggio, la scrittura e l’arte, lungi dall’essere per convenzione, giusta la dottrina aristotelica allora in voga, sia uno dei fatti eterni dello spirito? Come tacere che il convincente ragionamento, col quale il G. dimostra la sua cosí semplice teoria del valore, sia fondato precisamente su due solenni «degnitá» vichiane? Come passar sotto silenzio che quel concetto sulla infelicitá dello stato di natura (perfettamente antagonistico alle vedute del secolo decimottavo) da cui il G. cava giá cotanto profitto nella Moneta (dove adopera di frequente perfino le espressioni, cosí care al Vico, di «stato ferino», «ferinitá», «divagamento ferino» e simili) e che poi doveva contrapporre in piú brillante

  1. O meglio, lo ricorda due volte (Croce, Bibliografia vichiana, p. 50; Primo supplemento, p. 11 sg.; Secondo supplemento, p. 9 e cfr. p. 10); ma non mai come uno scrittore, di cui si fosse mai servito.
  2. Si veda Fausto Nicolini, Giambattista Vico e F. G di prossima pubblicazione nella Miscellanea in onore di Giovanni Sforza, a cui si rimanda per la documentazione di quanto qui si asserisce.