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nota 367


E, ricordando il giudizio dell’Intieri, abbiamo ricordato anche l’argomento che, in quest’altra tanto dibattuta questione, taglia la testa al toro: argomento giá invocato centoventicinque anni fa dal protobiografo del G.1, e che un gruzzolo di lettere dell’Intieri, anch’esso venuto fuori in questi ultimi tempi2, non ha fatto se non rinsaldare.

Pure, come notavamo in principio, non mancano nel racconto galianeo una gonfiatura e una lacuna.

La gonfiatura, assai innocua e perdonabile, è il grazioso aneddoto circa la gradita sorpresa che il G. avrebbe preparata al suo secondo padre e benefattore, lavorando intorno alla sua opera con tanta secretezza, da far sí che il venerando prelato solamente dopo aver letto e tanto ammirato il libro, senza riuscirne a indovinare l’autore, ricevesse, quando meno se l’aspettava, la dolce soddisfazione di apprendere che aveva letto e ammirato un lavoro del suo prediletto e irrequieto nipote. Aneddoto assai gentile, ma che rivela soltanto (specialmente nelia conseguenza che procura trarne il G., vale a dire che quella sorpresa valesse ad arrestare per qualche tempo i progressi della malattia, che condusse monsignor Celestino al sepolcro) che il G. amasse darsi in pubblico l’aria di uomo dal cuore affettuoso e delicato, quale, a dir vero, egli non fu mai. Giacché, anche qui, i documenti forniti dallo stesso archivio galianeo3 mostrano nel modo piú ovvio che l’elenco delle persone che erano a parte del segreto fosse un tantino piú lungo di quello esibito dal G., e che un posto molto importante in esso occupassero per l’appunto monsignor Celestino Galiani e Niccolò Fraggianni, senza l’opera efficace dei quali (l’uno era cappellano maggiore del Regno di Napoli, l’altro delegato della reai giurisdizione) non sarebbe mai riuscito al giovane autore di pubblicare anonimo il suo volume a Napoli, ottenendo per giunta che ne accettasse la dedica nientemeno che il re Carlo di Borbone.

Ed eccoci finalmente all’omissione cui abbiamo accennato. Certamente essa costituisce la piú grave delle pecche che si sarebbero potute addebitare al G. nel processo di plagio intentatogli con cosí poca caritá cristiana; eppure, come suole accadere, nessun critico, per quanto armato di buoni occhiali, se ne è finora accorto.

  1. Cfr. Luigi Diodati, Vita dell’ab. F. G. (Napoli, 1788), pp. 13-4 n.
  2. Si veda il cit. studio Intorno a F. G., p. 4 sgg.
  3. Ivi, p. 8.