Della coltivazione/Libro VI

Libro VI. Quali sieno i giorni fausti, e quali gli avversi alla Coltivazione

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Libro VI. Quali sieno i giorni fausti, e quali gli avversi alla Coltivazione
Libro V


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Or, perché tutti in ciel non vanno eguali
I dì che volge il Sol, ma tristi, e lieti,
Come piacque a Colui che vario infuse
Nelle stelle il valor che muove il mondo;
5Molto val l’osservar del buon cultore,
La malizia o bontà ch’è in questo o in quello.
Cerchi prima fra sé, che il freddo lume
Del gran vecchio Saturno in parte giri,
Ove contento stia; dove aggia pace,
10E riguarde i minor con dolce aspetto:
Che il fiammeggiante Dio del quinto cerchio
Senta in luogo lontan, ch’appena il veggia,
E non sia testimon dell’opre altrui:
L’amorosa Ciprigna e ’l pio Parente,
15Da cui quanto è di ben ci piove in terra,
Si vagheggin fra sé con lieto sguardo:
Che ’l figliuol di Latona, e la sorella
Non sian contrari lor, non giunti insieme,

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E non divisi ancor dal quarto albergo,
20Ma gli possin mirar tra ’l terzo e ’l quinto.
Quando vedi allumar l’Aquario e ’l Toro
Dalla notturna Dea che Cinto onora,
Pianta le vigne allor, sotterra i frutti;
Se la capra Amaltea, se ’l Cancro avverso,
25Se la donzella Astrea, se quella parte
Ch’al dì con spazio egual la notte libra,
O ’l cornuto Animal che in mezzo il mare
Condusse Europa; e tu nel grembo allora
Versa del tuo terren le biade e ’l grano.
30Ma più di tutti, ben ci segna i giorni
Giocondi e gravi, trascorrendo in giro
Dal luminoso Sol, la casta Luna;
Ch’al nostro umano oprar tanto ha vicina
La possente sua luce, e in così breve
35Tempo quante ha nel cielo erranti e fisse
Studia di visitar, che ciò che in esse
Truova di bene o mal, lo versa in noi.
Non dee molto impiagar le piagge e i colli
Il discreto bifolco, s’ella giace
40Ascosa col fratello. Il quarto giorno
Che cornuta rivien, coi tre vicini,
Sacrati in terra son; ché in questo nacque
Già di Latona in Delo il biondo Apollo:
Pur l’agnello e ’l vitel potrà nel sesto
45Di quel membro privar ch’è sposo e padre;

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Benché l’ottavo in ciò più lode porte.
Nei cinque altri miglior che vengon dietro,
Può le piante innestar, spander i semi;
Può il frumento segar, tosar le gregge,
50E donarle al monton chi maschio brami;
Tesser da ricoprir le mense e i letti,
E difender dal giel la sua famiglia.
Quel che segue costor, contrario al seme,
È secondo al piantar: ché ’l troppo umore,
55Come in quello è nemico, in questo è caro.
Quando ella contro al Sol, con larga fronte,
Del fraterno suo raggio tutta splende,
Si den l’opre fuggir; ch’è lor molesto:
Sol aprir si convien con lieto canto
60Del prezïoso vin l’antico vaso,
Che conservi il sapor nell’ultime ore:
Solo è il tempo a domar col nuovo giogo
L’aspro, torvo giovenco; e con lo sprone
E col morso al caval frenar l’orgoglio:
65E chi femmine vuol, marite il giorno,
Delle mandre ch’ei tiene, il forte duce.
Fugga il quinto ciascun, con quelli insieme
Ch’hanno il nome da lui: ché in cotali ore
L’impie Furie infernali intorno vanno
70Tutte, empiendo d’orror la terra e l’onde.
Quel che ne vien da poi ch’ella ha più lume,
Non si tocchin le piante; e l’altro appresso

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Per ventilar il gran n’apporta l’ora:
Puosse in questo atterrar nei boschi alpestri
75L’alto robusto pin, l’abete e ’l faggio,
Nel verno, a fabbricar palazzi e navi;
Benché forse indugiar, quando è più scema
L’alma sua luce in ciel, non spiace a molti.
Nel vigesimo dì, nell’altro innanzi,
80Così benigno il Sol ci apporta l’ore,
Che ben puote il villan con ferma speme,
In quel che pregia più, dispensar l’opre:
E se creder si può, questo è quel giorno
In cui nascon color ch’hanno arte e senno
85Di misurar fra noi le stelle e ’l cielo,
E narrar quel che può natura e fato.
Gli altri quattro dipoi speranza e tema
Di quel ch’aggia a venir, ne danno eguale:
I due son da fuggir che vengon poscia.
90Negli altri giorni, allor ch’ella è vicina
Per ripigliar dal Sol novella face,
Puosse il toro domar, romper la terra,
Tirar le navi al mar, tagliar i legni,
E le sue botti aprir. Né sia schernita
95L’antica osservazion; ché spesso alfine
Lo spregiar cose tali apporta danno:
Ché matrigna talor, talvolta madre
Vien la luce del dì nell’opre umane;
E sol l’incominciar può t"rre e dare
100

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Tutto quel che si cerca: e ciò n’avviene
Perché piacque a Colui che tutto muove.
Non dico io già, che se ’l buon tempo e l’opra
Perde l’occasïon che non si deggia
Pur invocando Dio, tirar alfine
105Quei che troppo indugiar gran danno f"ra.
E perch’il crudo giel, la pioggia e ’l vento
Che improvviso ci vien, può nuocer molto;
Qui il perfetto cultor la mente inchini
Al suo sommo Fattor, divoto, umìle
110Sacrifici porgendo, preghi e voti,
Che il nostro in lui sperar non caggia indarno;
Né ch’al nostro sudor sia tolto il pregio:
Poi fra le stelle in ciel riguardi, e ’mpari
Qual ci dà troppo umor, qual troppa sete;
115Chi ci muova Aquilon, chi ghiaccio apporte,
E con qual compagnia qual parte lustri;
Chi surga o scenda: e la natura e ’l nome,
Tutto aver si convien, né men che quelli
Ch’al tempestoso mar credon la vita,
120O che il rozzo guardian che ’n parte dorme,
Ove ha capanna il ciel, la terra letto.
Questi i primi già fur, cui lunga pruova
Mostrò il corso lassù coi vari effetti
Ch’or di sì gran dottrina empion le carte,
125Che dei primi inventor vergogna ha seco.
Non si sgomenti adunque, e certo speri

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Il discreto villan poter d’altrui
Quell’imparar, che da sé stesso apprese
E ’l pastore e ’l nocchier tra i boschi e l’onde
130Qualor Delia vedrem contraria o giunta;
O che dal quarto albergo irata guarde
Quel Pianeta crudel che mangia i figli;
Piogge porta in april, nel luglio nebbia,
Gran pruine all’ottobre, e nevi al verno.
135Quando il padre riguarda, ovunque sia,
Rende in ogni stagion dolcezza e pace.
Scaccia il freddo e l’umor ch’al mondo truova,
Mirando Marte: e quando incontra o guarda
Ben vicino il fratel, turba ogni stato;
140L’onda, l’aria, il terren rimuove e cangia.
Colla ciprigna Dea, secondo i tempi,
Umor reca e calor; pur nebbia e nevi
L’autunno e ’l verno, ma soavi e piane;
Ché dal regno d’Amor non cade asprezza.
145Col divin Messaggier, maisempre quasi
Suole i giorni voltar ventosi e foschi.
Tutto quel che diciam, la vaga Luna
In men di trenta dì compie e rinnuova,
Trapassando in viaggio or questo or quello.
150Ma quelli altri maggior ch’han sopra il corso,
Non così spessi già, ma di più forza
Fanno effetti quaggiù, secondo il loco
Che si truovan tra lor, secondo il tempo

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Che ’l suo propio valor giungendo ad essi,
155Puon crescer e scemar quel ch’ave in seno.

Qualunque errante in ciel incontri e guardi
L’alato Ambasciador, nell’aria sveglia
Sempre il rabbioso suon di Borea o Noto,
O di Zeffiro o d’Euro; o torbo o chiaro,
160O con nevi o con piogge, come aggrada
Al compagno ch’egli ha; ch’a tutti è servo.

La stella Citerea, coll’avo antico,
Talor raffredda il ciel, talor lo bagna,
Ma dolcemente pur; ché mal si accorda
165Col suo secco venen nemico a tutti:
Col gran pio genitor, in chiare tempre
Più soave il calor, meno aspro il gielo
Rende; e l’aria e la terra e l’onde insieme,
Di vaghezza e d’amor tutto riempie.
170Al suo fero amator la fiamma e l’ira
Colle piogge e col gielo ammorza o spegne:
Al luminoso Sol, con fosche nubi
Pregne di largo umor la vista ingombra;
Forse temendo ancor, ch’un’altra volta
175Non l’accusi a Vulcan, se Marte alloggia.
Grandini, piogge, nevi, lampi e tuoni
Tempestoso e crudel ci porta Apollo,
Ove incontri Saturno, ovunque il guardi.
Folgori, venti, giel raddoppia in terra
180(Benché sì dolce sia), s’ei corre a Giove:
S’al bellicoso

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Dio, rabbiosi e secchi
E caldi fiati aviam; né stanno in posa
Tra i liti sicilian l’eterne incudi.

Con più terribil suon procelle e turbi,
185Qualor Libra o Monton pareggia i giorni,
Saette al caldo ciel, poi folte nevi
Quando è più breve il dì, dal quinto foco
Nascon, dove ei talor rivolga il guardo
Nel gran Superïor: se Giove ha in vista,
190Tempestoso pur vien, ventoso e torbo;
Né per nuova stagion la voglia cangia.
Se ’l gran padre e ’l figliuol ch’ebbero ognora
Sì diverso il voler s’incontran pure
O coll’occhio o col piè (che raro avviene);
195Torbido e grave umor, tempeste e fuoco
Mandan per l’aria; e fanno al mondo fede
Che mai nulla fra lor fu pace e tregua.

Vuolsi saper ancor chi monti o scenda,
E chi sia presso al Sol, chi sia lontano
200Dei celesti Animai, dell’altre stelle
Che stan fisse tra lor, né cangian loco,
Se non quanto le vien dal cerchio ottavo
Che nei cento anni appena un passo muove.
Quando al tempo novel dapprima il Sole
205Al felice Monton le corna indora,
L’accompagnan quel dì Favonio e Coro.
Poiché verso il mattin, quasi in un punto

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Il Corsier pegaseo si mostra e cela
Tra i crin di Apollo, si rinnuova il fiato
210Che da settentrion le forze prende.
Indi che ’l buon Frisseo si mostra in parte
Scarco dal suo signor, tre giorni almeno
Soglion turbi venir tra piogge e nevi.
Già s’avvicina april; già verso l’alba
215Il crudele Scorpion la coda asconde,
Che ci suol risvegliar Zeffiro ed Ostro
Con minaccioso ciel: poi quando al vespro
Si comincian veder tuffar fra l’onde
Le figliuole di Atlante, allor ne sembra
220Ch’altro verno novel ci guasti aprile.
Quinci che il vago Sol, montando al Tauro,
S’accompagna con lor; ci dona spesso
Ai crescenti arbucei soavi piogge.
Quando al primo imbrunir di notte oscura,
225Già in orïente appar d’Orfeo la Lira,
Ben minaccia il terren d’aspra procella.
Se la Capra al mattin si mostra aperta,
E si asconde tra i monti al tardo oscuro
L’ardente Sirio, allor pruine o piogge,
230O ’l ciel cruccioso ci s’attenda intorno.
Or si mostra il Centauro, e seco adduce
Piovose nubi: e poi le sette stelle
Ch’or vanno innanzi al Sol sereno e dolce,
Ci rendon vento, e cel ritoglie Arturo,
235

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Che cadendo sul dì, minaccia il cielo.
Qui tra i due buon German s’accoglie Apollo;
E l’Aquila vien fuor ventosa e molle:
Il pietoso Delfin da sera monta
Coi suoi Zeffiri in sen: or nell’aurora
240Il suo crudo veneno asconde l’Angue
Tra l’onde salse, e fa turbar il tempo,
Non però sì, che col Favonio e l’Austro
Non sia sommo calor: poi la Corona
Della vaga Arianna, al primo aspetto
245Del mattutino albòr si attuffa in mare
Con affanno e sudor: né lunge a lei,
E nel tempo medesmo, già in occaso
Va il Capricorno in parte: e ’nver la sera
Si può Cefeo veder, che ci minaccia
250Pioggia e tempesta: e pur nel mondo sveglia
Quel soffiar di Aquilon, che il sermon greco
Prodromo appella, ch’a predir ci viene
Che l’uno e l’altro Can che han seggio in alto,
Tosto denno apparir là vêr l’aurora
255Con sete e rabbia: e dopo lui riprende
L’Etesio il corso, e con più forza assai
Ci fa il mar tremolar, crollar le fronde,
Mentre che luce il Sol; poi dorme il vespro,
Così la notte ancor; né cangia stilo
260Fino in quaranta dì. Già lassa Febo
Più che mezzo il Leon, sicché ci mostra

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Poco avanti al mattino in mezzo il petto
La sua stella maggior ch’ogni altra avanza
Di possanza e d’onor; ma in quello stato,
265L’aer puro e seren fa torbo e fosco.
Guarde il chiaro splendor ch’è il tesor primo
Della vergine Astrea, che ’l nome porta
Del buon vendemmiator, ch’or surge avanti
Al ritornar del Sole; e ’l freddo Arturo,
270Già bagnando il terren, si asconde e fugge.
La Donna di Etiopia, amata e culta
Dal volator Perseo, nel primo bruno
Si mostra in oriente, e turba il mondo.
I due Pesci e ’l Monton, sotto all’occaso
275Discendendo al mattin, di Noto e d’onde
Lascian segnati i dì che veggion giunto,
Per le notti adeguar, già in Libra il Sole.
Or nel tempo medesmo, al loco istesso
Si attuffa irato il tempestoso Auriga
280Che sovente al villan fa guerra e danno.
Quando al freddo Scorpion Delio ritorna,
Si vede ir nel mattin con austro e pioggia
Il principio del Tauro all’occidente:
Or con brina o con giel caggiono in mare,
285Quando ci spunta il Sol, le sette stelle
Ch’ei porta in fronte; e la sementa invita:
Or si asconde da noi Cassiopeia
Ventosa e turba; e tra ghiacciosi spirti

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Il lucente Scorpion la fronte scuopre.
290Già del canuto verno i dì son giunti,
Che ’l famoso Chiron riscalda Apollo:
Già minaccioso in ciel, tra piogge e venti,
Quando si colca il Sol, nasce Orïone.
Or quanti segni ha in ciel, quante facelle,
295E surgendo e cadendo, a pruova fanno
Chi più nevi, tempeste e piogge adduca.
Poco creda il villan, poca aggia spene,
Quando va sotto il Can ch’innanzi caccia
La paventosa Lepre; e quando torna
300L’Aquila nel mattin cogli altri insieme
Ch’ai buon tempi miglior vedea la sera;
E mentre scorre il Sol l’irsuto vello
Del barbato Animal ch’a noi furando
Sì gran spazio del dì, lo dona altrui;
305E mentre umidi tien gli aurati crini,
Quasi rubello a noi, di Aquario in seno,
Ch’ogni sforzo lassù soggiace al verno.
Quando ripiglia alfin l’albergo in Pesci,
Già cresce il giorno assai, che viene appunto
310Quando il fero Leon tutto è in occaso.
Qui dal settentrion, soave spira
Certo fiato gentil ch’Ornitio ha nome:
Fugge Calisto allora, e fuor ci manda,
Per le nevi addolcir, Favonio amato
315Che quanto compie in ciel la Luna un corso,
Tien qui l’

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impero, e ci rimanda allora
O dai liti affricani o d’altra parte
Sopra i tetti a garrir la vaga Progne.
La celeste Saetta inver la sera
320Pur con varie tempeste in alto sale;
Quella onde già pietoso il forte Alcide
Uccise il fero uccel ch’a Prometeo
Il rinascente cor gran tempo rose.
Poi si rivede il ciel aperto e chiaro;
325E sette giorni e sette al tristo sposo,
Alla fida Alcïone Eolo prestare
Tranquillo e queto il mar, mentre ei fra l’onde
Van tessendo e formando il nido ai figli:
Ma quando veggion poi che tutta appare
330Argo la nave in ciel; cotal gli accora
La rimembranza ancor del legno antico
Ove solcando già morì Ceice,
Che si ascondon temendo; e ’l re dei venti
Riprende il corso, e con Nettuno giostra.

335Or non pur il saper come e ’n qual loco
Segghin le stelle in ciel, chi scenda o monti,
E la forza e ’l valor di questa e quella,
Pòn mostrar il seren, la pioggia e i venti
Al pratico cultor, ch’appresso vanno;
340Ma il gran Padre del ciel pietoso ancora
Al suo buon seme uman, per mille modi
In aria, in terra, in mar, la notte e ’l giorno

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Ci dà fermo segnal del suo pensiero,
Tanto innanzi al seguir, che ben si puote
345Molti danni schivar per chi gli ha cura.
Quando tornando a noi novella Luna
Mostri oscure le corna, e dentro abbracci
L’aer che fosco sia; tema il pastore,
Tema il saggio cultor; ché larga pioggia
350Debbe tutte inondar le gregge e i campi:
Ma se dipinte avrà le guance intorno
D’un virgineo rossor; di Borea in preda
Darà la terra e ’l ciel più giorni e ’l mare:
E s’al quarto suo dì ch’agli altri è duce,
355Lieta la rivedrem, di puro argento,
Senza volto cangiar, lucente e chiara;
Non pur quel giorno allor, ma quanti appresso
Saran nel corso suo, sereni e scarchi
E di venti e di piogge andranno intorno.
360Allor potrà il nocchier sicuro al porto
Drizzar la prora, e scior cantando i voti
A Glauco, Panopea, Nettuno e Teti.
Non men ci dona il Sol non dubbi segni,
Quando surge al mattin, quando s’attuffa
365Tra l’onde al vespro; ; e ci ammaestra e ’nsegna
Qual si deve aspettar la luce e l’ombra.
S’al suo primo apparir ne mostra il volto
D’alcun nuovo color turbato o tinto,
E i dorati capei non sparge in lungo,
370

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Ma gli annoda alla fronte, e gli inghirlanda
D’un doloroso vel; sia certo il mondo
Di bagnarse quel dì: ché ’l mar turbando,
Ci vien Noto a trovar, mortal nemico
Alle piante, alle gregge, ai culti colli.
375Se riportando a noi la fronte ascosa
Tra spesse nubi pur, se in più d’un loco
Qualche raggio veggiam romper la gonna,
Spuntando intorno; o se la bianca Aurora,
Lassando il suo Titon, pallida surge;
380Triste le vigne allor! ch’a salvar l’uve
Non è il pampino assai, sì folta il cielo
Con orribil romor grandine avventa.
Poi quando i suoi corsier vanno all’occaso,
Più si deve osservar; ch’assai sovente
385Suol da noi dipartir con vario aspetto.
Il suo rancio color ci annunzia umore,
Borea il vermiglio; e se ’l pallor dell’oro
Già il fiammeggiante crin meschiato avesse
Di triste macchie ancor, vedrasse il mondo
390Andar preda di par tra piogge e venti;
Non discioglia il nocchier dal lito il legno
In simil notte mai; né il buon pastore
Meni, il dì che verrà, le gregge ai boschi,
Né il discreto arator nel campo i buoi.
395Ma quando ei ci ritoglie o rende il giorno,
S’ei mostra il lume suo lucente e puro,

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Non avrem piogge allor; ma dolce e chiara
Verrà l’aura gentil crollando i rami.

Così ne mostra il Sol, chi ben l’intende,
400Quel che la notte, il dì, l’estate e ’l verno
Deggia Zeffiro far, Coro, Euro e Noto,
E l’ore a noi portar serene o fosche.

Or senza alta tener la vista al cielo,
Mill’altri segni aviam, ch’aperto fanno
405Quel che ci dee venir. Non sentiam noi,
Quando s’arma Aquilon per farci guerra,
Sonar d’alto romor gran tempo innanzi
Le selve alpestri, e minacciar da lunge
Con feroce mugghiar Nettuno i liti?
410I presaghi dalfin fuggirse a schiera,
Ove il futuro mal men danno apporte?
E se dall’alto mar, con più stese ali
Rivolando tornar si sente il mergo,
E con roco gridar fra cruccio e tema
415D’un non solito suono empier gli scogli;
O se l’ingorde folaghe intra loro
Sopra il secco sentier vagando stanno;
O il montante aghiron, poste in oblio
Le native onde sue, paludi e stagni,
420Consideriam fra noi volando a giuoco
Sopra le nubi alzarse; allor chi puote
Ratto schivar il mar, si tiri al porto;
E chi ne sta lontan, nei voti appelli

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E Castore e ’l fratel; ch’ei n’ha mestiero.
425Or dal notturno ciel cader vedrai,
Quando il vento è vicin, lucente stella,
Di fiammeggiante albor lassando l’orme;
Or secchissima fronde, or sottil paglia
Gir per l’aria volando; or sopra l’onde
430Leve piuma apparir, vagando in giro.
Ma se ’nvêr l’Aquilon son lampi e fuochi,
Se di Zeffiro o di Euro il ciel rintuona;
Nuotan le biade allor, né fia torrente
Che non voglia adeguar l’Eufrate e ’l Nilo;
435E bagnandosi i crin, gravose e molli
Il turbato nocchier le vele accoglie.
Quanti son gli animai che ti fan segno
Della pioggia che vien! l’esterno grue
Dalle palustri valli al ciel volando,
440La mostra aperta: il bue coll’ampie nari,
Sollevando la fronte, l’aria accoglie:
La rondinella vaga, intorno all’onde
S’avvolge e cerca; e dal lotoso albergo
Il noioso garrir la rana addoppia.
445Or l’accorta formica a ratto corso
Con lunga schiera a ritrovar l’albergo
Intende, e bada alla crescente prole.
Puossi verso il mattin, tra giallo e smorto
Talor l’Arco veder, che l’onde beve
450Per riversarle poi: dei tristi corvi

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Veggionsi attorno andar le spesse gregge,
Di spaventoso suon l’aria ingombrando:
Ogni marino uccello, ogni altro insieme
Ch’aggia in stagno, in palude o ’n fiumi albergo,
455Sopra il lito scherzar ripien di gioia
Veggiam sovente; e chi la fronte attuffa
Sott’acqua, e bagna il sen; chi nell’asciutto
S’accorca e s’alza, e ne dimostra aperto
Van desìo di levarse, e dolce speme.
460Or l’impura cornice a lenti passi
Stampar l’arena, e con voci alte e fioche
Veggiam sola fra sé chiamar la pioggia.
Né men la notte ancor sotto il suo tetto
La semplice donzella il dì piovoso
465Può dappresso sentir, qualor cantando
Trae dalla rocca sua l’inculta chioma:
Ché ’l nutritivo umor montando in cima
Dell’ardente lucerna ingombra il lume,
E scintillando vien di fungo in guisa.
470Cotal si può veder tra l’acque e i venti
Il buon tempo seren ch’appresso viene,
A mille segni ancor: ciascuna stella
Mostra il suo fiammeggiar più vago e lieto;
E la Luna e ’l fratel più chiaro il volto:
475Non si veggion volar per l’aria il giorno
Le leggier foglie, né sul lito asciutto
Spande il tristo alcïon le piume al sole:

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Non coll’immonda bocca il lordo porco
Or di paglia or di fien sciogliendo i fasci,
480Gli getta in alto, e già seggon le nebbie
Dentro le chiuse valli in basso sito,
Né quel notturno uccel ch’Atene onora,
Già spiato del Sol l’ultimo occaso,
Di noioso cantar intuona i tetti.
485Vedesi spesso allor per l’aër puro
Niso in alto volar, seguendo i passi
Della figlia crudel, per far vendetta
Del suo purpureo crin: ma quella leve,
Pur coll’ali tremanti il ciel segando,
490Va quinci e quindi, e già del padre irato
Troppo sente vicin l’adunco piede.
Sentonsi i corvi allor di chiare voci
Empier più spesso il ciel, poi lieti insieme,
Di dolcezza ripien, per gli altri rami
495Menar festa tra lor, ché già le piogge
Veggion passate, e con desio sen vanno
I figli a riveder nel nido ascosi.
Già non voglio io pensar ch’augello o fera
Per segreto divin prevegga il tempo
500Chiaro o fosco che vien, né sian per fato
Di più senno o veder creati al mondo;
Ma dove o la tempesta o ’l leve umore
Van cangiando il sentier (ché ’l padre Giove
Or con Austro or con Borea or grossa or rara
505

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Fa l’aria divenir), gli spirti e l’alme
Diversi hanno i pensier che nascon dentro
Dal varïar del ciel: però veggiamo,
Quando torna il seren, tra i verdi rami
Dolce cantar gli augei, scherzar le gregge,
510E più lieto apparir cantando il corvo.




Fine del Libro sesto ed ultimo

della Coltivazione.