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28 | dell’uomo di lettere |
Da tali costellazioni d’impudicizia, che altre influenze che di lascivia possono scendere in terra?
Una parola meno che modestissima, che doveva dire in publico Archita, nel richiamarla alle labbra, gli parve sì indegna d’essere scolpita con lingua d’uomo, che, per non imbrattarsi d’essa, prese per lingua un carbone, come più confacevole a materie degne di fuoco, e con esso non tanto serivendo quanto cancellando sul piano d’un muro o l’espresse o l’accennò. Ahi! le lingue d’oro delle stelle, mentre la notte mette silenzio a tutto il mondo perchè vi s’attenda, di che parlano, e che c’insegnano? Publicano con favella di luce in cielo i misfatti, che per vergogna cercano le tenebre in terra.
Ma fosse egli solo rea di questo l’antica poesia del Gentilesmo, e non vinta dalla moderna de’ Cristiani, che non in dipingere con imaginate figure d’impudiche memorie le stelle, ma in esprimere nelle carte, e, quel che peggio è, imprimer negli animi i fatti medesimi, sì felicemente, anzi si infelicemente s’adopera.
Non mancano alla poesia d’oggidì i suoi Ovidj, che posponendo Parnaso ad Ida, i Lauri a’ Mirti, i Cigni alle Colombe, e a Cupido Apollo, fanno le vergini Muse publiche meretrici. Così a questi Ovidj non mancassero Augusti per Mecenati, e per rinfresco de’ loro troppo çaldi amori le nevi di Scizia e i ghiacci di Ponto. Ed è in questo oramai sì ordinario il male, che dall’antecedente d’esser Poeta pare che ne venga la conseguenza d’esser lascivo; sì come Antistene dalla professione d’Ismenia cavò quella conseguenza,
Si bonus Tibicen est, ergo malus homo est.
Chi non avrebbe giurato, che la poesia, venendo da’ Gentili a’ Cristiani, avesse a fare lo stesso che la Venere degli Spartani, che passando l’Eurota, dicevano essi, per entrare ne’ loro Stati, rotti gli specchi, scatenate le maniglie, gittati gli abbigliamenti da meretrice, non solo s’era vestita per modestia, ma di più armata per bravura, e sembrava anzi una Pallade guerriera che una Venere impudica? Appunto. Anzi tanto è fatta peggiore, che a quella libertà di scriver lascivo, a cui già si dava l’esilio