Dell'uomo di lettere difeso ed emendato/Parte prima/9
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9.
Ignoranza, e Professione d’Armi.
Troverò forse difficultà a mostrare, che metter Lettere in un Soldato, non sia come allacciargli un filo di perle al collo, e farlo anzi una sposa che un soldato. Alcuni sono di parere, che le Lettere snervino l’animo, sottraendo al cuore gli spiriti, che si consuman nel capo;´ onde quanto elle sono in acconcio di chi usa la penna, tanto nocevoli riescono a chi maneggia la spada.
Scilicet ingenuas didicisse fideliter artes,
Emollit mores nec sinit esse feros.
Gli animali più ingegnosi, dicono, sono i più timidi: i più forti, i più guerrieri, sono e più selvaggi e più rozzi. La Filosofia, le Leggi, la Poesia, non sono maggior abbellimento ad un soldato, di quello che sia ad un Poeta il tirar di spada, ad un Giurista maneggiare un moschetto, ad un Filosofo correre una lancia. Ercole se n’avvide, e ne lasciò a gli altri, come lui, l’esempio, quando ruppe sul capo a Lino suo maestro la lira, e abbandonò la scuola; non convenendo il plettro a quella mano che dovea usare la mazza, nè il dolce suon della musica a chi dovea avvezzarsi al mugghiar de’ Tori e al rugghiar de’ Lioni, al fischio dell’Idre e alle strida de’ tiranni, per lo cui scempio egli era nato.
E certo, io non intendo di persuadere, che un’uom di guerra debba essere un Platone, un’Archimede, un Omero: ma che gli stia bene all’ingegno il lustro di qualche studio, sì come bene gli sta lo splendore all’armi e la pittura allo scudo, non veggo chi possa con ragione contenderlo.
Un’Aquila, che abbia sì acuto l’occhio al Sole, come forti l’unghie alla caccia; un’Ercole, che sappia e domare i mostri con la mano, e portare il cielo sul capo; un’Apollo, a cui penda dal fianco e la lira e il carcasso; una Pallade, con la penna in una mano e coll’asta nell’altra; in fine, un guerriero con qualche misto di Lettere, che disordine è cotesto? Forse la ruggine sull’ingegno è lustro e bellezza, dove su la spada e su l’armi è disonore? Sono sì nemici l’asta e lo stile, la forza e il senno, il combattere da Guerriero e il discorrer da Savio?
V’è lite fra’ curiosi, qual sia felicità di maggior pregio, facere scribenda, o pure scribere facienda. Che che sia . del parer d’ognuno, di questo no non si dubita, che non - sieno felicissimi quibus contingit utrumque. Che la vostra mano con la spada sappia far’opere degne di memoria immortale, e ch’ella medesima con la penna sappia consagrarsele all’eternità, scrivendo fedelmente ciò che fortemente operò, istorica di sè stessa, doppiamente gloriosa, e pari al Sole, che, per comparire quel grande ch’egli è, non ha bisogno di chi gli faccia lume; non è questo il sommo auge di quella gloria, fin dove può salire il merito in terra?
Tanto più, che bene spesso sono sceme se tarde, o sospette se preste, le relazioni degli Storici: trovandosene oggidì tanti, che nello scriver le altrui battaglie ad altro non mirano, che alle vittorie del proprio guadagno. Dico certi uomini, che per non morir di fame vendono a chi più paga l’immortalità della fama. Corvi ingordi, che cantano il victor Cæsar non a chi vince, ma a chi li pasce.
Vilissime Lucciole, che dalla pancia si cavano il lume con che danno splendore alle cose altrui, e cercano cibo per sè; e a guisa di quell’adulatore del Pirgopolinice di Plauto1, fanno le istorie all’odor della mensa, e danno le lodi alla misura della fame. Quanto meglio è essere Istorico di sè stesso, è usar la penna sì come richieggono e onore di lealtà che non lascia aggiunger nulla di finto, e amore di gloria che non lascia levar nulla di vero?
Giulio Cesare è più obligato alla sua penna, che alla sua spada; perchè quella uccise i suoi nemici, questa tiene lui vivo anche oggi nel mondo, e non lascia che perisca la doppia gloria ch’egli ha meritata, di Storico e di Guerriero. E se quel bravo Ruggieri Re di Sicilia2, quasi per confessarsi debitore alla sua spada, o mostrarsele grato, perchè gli avea aperta a più d’un Regno la strada, vi scolpi dentro con ingegnoso intaglio.
Apulus, et Calaber, Siculus mihi servit, et Apher; Cesare poteva scrivere su il suo stilo, più che su la sua spada, le vittorie di tante battaglie, le glorie di tanti suoi trionfi: poichè se la spada lo fece vittorioso ne’ campi dove combattè; lo stilo scrivendo gli diè per teatro i popoli di tutto il mondo, e per trionfi gli applausi di tutti i secoli avvenire.
Chi non si ride della vanità di quel Greco Scultore3, che comparito sott’abito d’Ercole inanzi ad Alessandro, Sire, disse, la virtù del vostro cuore, il valore della vostra spadą v’hanno mutato il mondo in un tempio d’onore. Manca solo, che ci abbiate la statua; la quale non dovrà essere a misura di quelle che per altrui si lavorano. La virtù vostra gigante, che gareggia co’ Dei, non dee pareggiarsi con gli uomini. Io, ambizioso di consagrare le mie fatiche col vostro nome, e di rendere non tanto voi immortale negli sforzi della scoltura quanto la scoltura medesima onorata in voi, m’offerisco d’intagliarvi nel più alto monte del mondo, e farvi pari al Cielo, poichè sete maggior della terra. Eccovi fin dalla Tessaglia Ato, il Re de’ Monti, v’inchina l’altere sue cime, e supplica di trasformarsi in voi. Io lo taglierò a tal disegno, che vi riesca un piè in mare e l’altro in terra, e questi due grandi elementi vi servano come di base. Farò che da una mano versiate un fiume cadente da una grand’urna, nell’altra tenghiate una città. Nè sarà gran cosa, che abbiate in mano una città e un fiume voi che avete tutto il mondo in pugno.
Alessandro con un medesimo sorriso accettò e rifiutò la smisurata offerta dello Scultore. Avea ben’egli quanto mai alcun’altro un’acceso desiderio di comparire al mondo grande, e farsi nella memoria de’ posteri eterno; ma volea esser conosciuto dal mondo un gran Guerriero, non un gran Colosso. Onde, ricusati gli scarpelli di Stasicrate, desiderò la penna d’Omero; e chiamò avventuroso Achille, perchè da sè ebbe il valore e da Omero le lodi, da sè il merito e da Omero la gloria. Deh! perchè non era meglio, a chi pieno d’eroiche innumerabili imprese non avea bisogno di favole per ingrandimento, avere anzi uno Storico che un Poeta? E se questo, perchè avere ad invidiare ad altrui la gloria di farmi felice col farmi eterno, se posso da me stesso ottenerlo, facendomi tanto brava con la penna quanto con la spada la mano?
Tralascio la necessità, che nel mestier dell’armi v’è, e d’eloquenza, ove s’abbiano a rincorare, a riprendere, ad affrenare i soldati; e di gran pratica nelle antiche e moderne istorie; e di quelle parti di Geometria, che alle machine e alle fortificazioni appartengono; e tal volta d’Astronomia, per non perdere, come più d’una volta bruttamente s’è fatto, per ispavento d’un subito eclissi del Sole, una giornata e un’esercito; si che abbia ad assegnarsi l’Ignoranza per iscusa, e dirsi come di Romolo, che fece l’anno di sol dieci mesi:
Scilicet arma magis quam sidera, Romule, noras4.
Di tutto questo, per non esser materia d’altrui che de’ Capi di guerra, io non favello. Bastimi solo raccordare per ultimo Che non si sta sempre al campo e su l’armeggiare, ma or tempi di pace or necessità di riposo richiamano alla vita civile; dove chi non ha qualche cultivamento di Lettere, quello almeno che chiede il conversare onorato fra persone riguardevoli e per lo più di qualche sapere, dovrà egli essere come i tamburi, che in tempo di pace perdono affatto la voce, dov’erano si strepitosi in guerra?
o pur, conforme all’antico costume di que’ buoni Cavalieri Romani, finita la guerra, dovrà applicarsi a cultivare i suoi campi; come se un’uomo di vita militare fosse una fiera, che, fatta preda nell’abitato, ritorna alla foresta e si rinselva?
Paolo Emilio, vinto il Re Persio e soggiogata la Macedonia, si tratteneva co’ Baroni di quel Regno a celebrare le feste della vittoria con ispessi conviti; ne’ quali usava sì ingegnosa maniera d’imbandire, che la tavola sembrava un campo, in cui contra i convitati marciavano le ordinanze de’ piatti, che primi attaccavan la mischia e davan l’assalto, facendo a tempo le ritirate i già vuoti e scarichi, e dando luogo a’soccorsi d’altri nuovi che di fresco venivano. V’eran vivande, che teneano sempre il primo posto in tavola; ve n’eran, che, quasi presa la carica, ehi più tosto e chi più tardi cedevano. Alcune venivano copertamente e di soppiatto, quasi insidiose; altre scopertamente investivano: in fine non era men dilettevole la materia, che la maniera dell’imbandigione: e dandosene da tutti i convitati lode a Paolo Emilio, egli così rispondeva: Ejusdem viri esse, et armatam aciem quam maxime terribilem, et convivium quam jucundissimum instruere5. Ma se il saper d’un soldato non giunge che solo fin qui, sì che il passare da’ tempi di guerra a que’ di pace sia mutare gli scommodi della campagna con le delizie della città, ed essere come Ajace, jeri un Guerriero, oggi un Fiore; questo è ben poco sapere, e ancor tale, che forse meglio sarebbe il non saperlo. Quanto più onorato e dilettevole trattenimento è quello, che dell’ingegno fanno le Lettere? attissime, oltre ciò a raddolcire la ferocia della natura, e ad umanare quel non so che di fiero, che ci s’attacca nel sanguinoso mestiere dell’armi.
Sono l’armi, disse Cassiodoro6 in bello necessaria, in pace decora. Delle Lettere altrettanto è vero, se solo si muti il tempo, e si dica in pace necessariae, in bello decora. Achille, che ogni giorno prendeva due lezioni, una nelle selve dove entrava in battaglia co’ Lioni, l’altra nella caverna di Chirone dove toccava armoniosamente una lira e apprendeva i segreti della naturale Filosofia, s’ammaestrava per vivere in amendue i tempi, e di guerra e di pace: di guerra, terribile a’ nemici; di pace amabile a’ cittadini. Questa ancor fu la gloria di quell’Achille di Roma, Scipione il maggiore, che in guerra come fulmine era tutto fuoco di generoso ardire, in pace tutto luce di chiarissimo ingegno; nè minor maraviglia era vederlo armeggiare, che udirlo discorrere. Semper enim aut belli aut pacis servit artibus (disse Vellejo7); semper, inter arma ac studia versatus, aut corpus periculis aut animum disciplinis exercuit.
Rari se ne veggon di questi; e par miracolo trovare orecchi, che sieno avvezzi al suon delle trombe e allo strepito de’ tamburi, e non sieno incalliti, si che dentro vi faccian senso le voci della Sapienza. Rari sono gli Ercoli guerrieri, che, compiute le loro fatiche, consagrino a Mercurio la mazza dell’ulivo presa da Pallade: ma que’ pochi che vi sono, tanto più riguardevoli quanto più rari, hanno quelle due parti impareggiabili, e certo divine quando si uniscono, terrorem pariter et decorem; ch’è quello, che Cassiodoro disse d’una squadra di Galee armate, che, o festeggino, non possono esser più belle; o combattano, non possono esser più terribili.