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62 | dell’uomo di lettere |
altre scopertamente investivano: in fine non era men dilettevole la materia, che la maniera dell’imbandigione: e dandosene da tutti i convitati lode a Paolo Emilio, egli così rispondeva: Ejusdem viri esse, et armatam aciem quam maxime terribilem, et convivium quam jucundissimum instruere1. Ma se il saper d’un soldato non giunge che solo fin qui, sì che il passare da’ tempi di guerra a que’ di pace sia mutare gli scommodi della campagna con le delizie della città, ed essere come Ajace, jeri un Guerriero, oggi un Fiore; questo è ben poco sapere, e ancor tale, che forse meglio sarebbe il non saperlo. Quanto più onorato e dilettevole trattenimento è quello, che dell’ingegno fanno le Lettere? attissime, oltre ciò a raddolcire la ferocia della natura, e ad umanare quel non so che di fiero, che ci s’attacca nel sanguinoso mestiere dell’armi.
Sono l’armi, disse Cassiodoro2 in bello necessaria, in pace decora. Delle Lettere altrettanto è vero, se solo si muti il tempo, e si dica in pace necessariae, in bello decora. Achille, che ogni giorno prendeva due lezioni, una nelle selve dove entrava in battaglia co’ Lioni, l’altra nella caverna di Chirone dove toccava armoniosamente una lira e apprendeva i segreti della naturale Filosofia, s’ammaestrava per vivere in amendue i tempi, e di guerra e di pace: di guerra, terribile a’ nemici; di pace amabile a’ cittadini. Questa ancor fu la gloria di quell’Achille di Roma, Scipione il maggiore, che in guerra come fulmine era tutto fuoco di generoso ardire, in pace tutto luce di chiarissimo ingegno; nè minor maraviglia era vederlo armeggiare, che udirlo discorrere. Semper enim aut belli aut pacis servit artibus (disse Vellejo3); semper, inter arma ac studia versatus, aut corpus periculis aut animum disciplinis exercuit.
Rari se ne veggon di questi; e par miracolo trovare orecchi, che sieno avvezzi al suon delle trombe e allo strepito de’ tamburi, e non sieno incalliti, si che dentro