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a penna sappia consagrarsele all’eternità, scrivendo fedelmente ciò che fortemente operò, istorica di sè stessa, doppiamente gloriosa, e pari al Sole, che, per comparire quel grande ch’gli è, non ha bisogno di chi i faccia lume; non è questo il sommo auge di quella gloria, fin dove può salire il merito in terra?

Tanto più, che bene spesso sono sceme se tarde, o sospette se preste, le relazioni degli Storici: trovandosene oggidì tanti, che nello scriver le altrui battaglie ad altro non mirano, che alle vittorie del proprio guadagno. Dico certi uomini, che per non morir di fame vendono a chi più paga l’immortalità della fama. Corvi ingordi, che cantano il victor Cæsar non a chi vince, ma a chi li pasce.

Vilissime Lucciole, che dalla pancia si cavano il lume, con che danno splendore alle cose altrui, e cercano cibo, per se, e a guisa di quell’adulatore del Pirgopolinice di Plauto, fanno le istorie all’odor della mensa, e danno, le lodi alla misura della fame. Quanto meglio è essere Istorico di sè stesso, e usar la penna si come riechieggono e onore di lealtà che non lascia aggiunger nulla di finto, e amore di gloria che non lascia, levar nulla di vero?

Giulio Cesare più obligato alla sua penna, che alla sua spada, perché quella uccise i suoi neinici, questa tiene lui vivo anche oggi nel mondo, e non lascia che perisca la doppia gloria ch’egli ha meritata, di Storico e di Guerriero. E se quel bravo Ruggieri Re di Sicilia, quasi per confessarsi debitore alla sua spada, o mostrarsele grato, perché gli avea aperta a più d’un Regno la strada, vi scolpì dentro con ingegnoso intaglio,

Apulus, et calaber, Siculus mihi servit, et Apher;

Cesare poteva scrivere su il suo stilo, più che su la sua spada, le vittorie di tante battaglie, le glorie di tanti suoi trionfi: poiché se la spada lo fece vittorioso ne’ carnpi dove combattè; lo stilo scrivendo gli dié per teatro i popoli di tutto il mondo, e per trionfi gli applausi di tutti i secoli avvenire.