Dell'uomo di lettere difeso ed emendato/Parte prima/6
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6.
Il Savio infermo.
Un Deucalione hanno avuto le favole, che di sassi poteva fare nomini: un Zenone ha avuto la Filosofia, che d’uomini potea fare sassi.
Deucalione ristoratore del mondo, dalle nude cime di Parnaso, unico porto di tutta la terra sepolta in un diluvio e fatta tutta un mare, gittavasi dietro le spalle i sassi, ossa della gran Madre, e, secondo l’Oracolo1,
Saxa (quis hoc credat, nisi sit pro teste vetustas?)
Ponere duriciem coepere, suumque rigorem,
Mollirique mora, mollitaque ducere formam.
All’incontro Zenone, in coloro, che uomini riceveva per iscolari, trasfondeva una vena di sasso, e insensibili e duri li rendeva con isveller loro dal cuore tutti gli affetti sì che il Portico, dove egli insegnava, era più tosto una stanza di scultore dove si lavoravano statue, che una scuola di Sapienza dove si formassero Filosofi. La prima e l’ultima lezione era insegnare a metter l’animo in Fortezza reale, si che nè le sorprese dell’amore, nè gli assalti dell’odio, nè gli assedj delle speranze, nè le batterie della disperazione, nè le scalate dell’audacia, infine, che nè le armi nè le arti di veruno affetto potessero sforzare il cuore a rendersi, e cedere la piazza nè a discrezione nè a patti. Nelle tempeste del corpo infermo, de gli umori sconvolti, della vita pericolante, vuole che l’animo stia velut pelagi rupes immota, che sparsa, ma non iscossa dalle onde, se le sfragella al piede, e le spolvera in ischiuma.
Tutti i dolori del mondo, quantunque a stretto torchio ci premano ad uno ad uno le membra, non hanno mai a vederci smarrimento di pallidezza nel volto, o fiacchezza di coraggio nel petto: non hanno a spremerci un’oimè di bocca, nè una lagrima sola da gli occhi. Anzi, quanto più incrudeliscono i dolori, tanto più viva ci dee lampeggiare in fronte l’allegrezza; appunto come nel cielo, allora è più limpido il sereno, quando più gagliardi e più freddi soffiano gli Aquiloni.
Ma che dico Zenone e gli Stoici? Epicuro stesso, quell’animale, a cui l’anima non servì che di sale perchè non marcisse vivo ne’ piaceri, insegnò, che beato esser non può chi non sa mutarsi le spine in fiori, e cavar dall’assenzio il mele, voltandosi in giubilo i dolori, e le miserie in godimento. Imperciochè essendo fonte della beatitudine il diletto (diceva egli), nè potendo dirsi beato chi non è sempre beato, ha di bisogno ch’egli sappia così ne’ tormenti come ne’ contenti godere. Quare sapiens (disse Epicuro riferito da Seneca2) si in Phalaridis Tauro peruratur, exclamabit: Dulce est; ad me nihil pertinet.
Ma troppo volevan costoro, a cui non dava l’animo di mettere in altrui la Sapienza, senza torgli l’umanità. Più saggiamente insegnarono altre scuole, gli affetti non doversi svellere dalla radice come piante velenose, ma come salvatiche e spinose migliorarsi coll’innestamento. Esser voci di molti tuoni, che, dove non vi sia chi le accordi, fanno bruttissime dissonanze; ma, se dalla Ragione ricevano Tempo e Misura, formarsene musiche di soavissima armonia. Ma dall’avere quelle rigide scuole voluto tanto, quanto è svellerne le passioni dal cuore, questo almeno se n’ha, che la retta Filosofia tanto imperio può darci sopra gli affetti, che, s’ella non incanta il senso a’ dolori nè ci rende stupido l’animo per non sentirli, certo non lascia che egli o si abbandoni come disperato, o s’impazienti come infastidito, o per molta tempesta, che gli muovano le miserie del corpo, perda mai o intorbidi la pace del cuore.
Or dunque eccovi un Savio infermo. Eccovelo, dirò, non prosteso su un letto, ma posto in una nave; non fra le febbri ed i dolori d’una gagliarda infermità, ma fra le voragini e i marosi d’una lunga e ostinata tempesta. Che si dibatta la vela, che gemano i fianchi, che tremi l’albero, che tutta da poppa a proda cigoli e si risenta la nave, questo non è pericolo di rompimento, è condizione di marea. La pratica del piloto e la prontezza de’ marinai la condurranno, non vo’ dir quieta fra tanti tumulti, ma fra tanti pericoli sicura. Sieda pure al maneggio dell’animo e al governo degli affetti timoniera la Sapienza, che in una, quantunque esser possa, fiera tempesta di pene, dove altri romperebbe, guiderassi un Savio infermo, se non con la bonaccia delle calme, almeno con la sicurezza del porto.
Vedrete in un corpo abbattuto un’animo sì ritto, in un corpo sconcertato un’animo sì composto, che vi parrà che in un solo uomo sieno due persone, una di Filosofo e l’altra d’Infermo. Questa, come i fianchi dell’Olimpo ingombrati da nuvole, bagnati da piogge, e traforati da fulmini; quella, come l’alta sua cima, che sempre gode il cielo sereno, sempre vede o il Sole o le stelle. Quella, quasi una nuvola, che si strugge e si distilla in pioggia; questa, come una Iride, allegra nella malinconia, e ridente nel pianto.
Che se volete saper come ciò avvenga, ditemi: La tranquillità dell’animo non giova ella alla sanità del corpo? Sono sì uniti insieme, che l’un si risente dell’altro, (come avviene alle corde tirate all’unisono) se l’un si tocca, l’altro ancorchè non toccato si muove. Sono gli affetti dell’animo i venti, gli umori del corpo il mare; mentre i venti imperversano, il mare si sconvolge e si mette in tempesta. All’opposto, quidquid animum evexit, disse Seneca3, etiam corpori prodest. Se dunque la Filosofia altro non facesse che insegnar a stimar la morte quel solo ch’ella è (del che ha sì nobili e sì generosi dettati), quanti e quanto gagliardi parosismi di timori, assalitori tal volta più mortali delle febbri stesse, con ciò ci leva ella dal cuore? Quanti, mezzo sani e tutto sicuri, ad un piccol tocco di male muojono solo per timor di morire, e si uccidon miseramente con nulla? a guisa di quel Diofante4, che si appiccò con la fune d’un filo tolto della tela d’un Ragno.
Enea, appressandosi alle porte dell’Inferno, ebbe un terribile incontro di Centauri, d’Arpie, di Chimere, di Gorgoni, d’Idre; e a tal vista gli corse il sangue al cuore per timore, e la mano alla spada per difesa:
Et ni docta comes tenues sine corpore vitas
Admoneat volitare cava sub imagine formæ,
Irruat, et frustra ferro diverberet umbras5.
Appunto questo fa in un Savio infermo la Sapienza. I timori della morte, che con varie spaventose sembianze quasi dalle porte dell’Inferno gli vengono incontro, avvisa che sono Tenues sine corpore vitæ; e raccorda ciò che scrisse quel Savio di Roma6, che non hominibus tantum, sed et rebus persona demenda est, et reddenda facies sua. Tolle istam pompam, sub qua lates, et staltos territas. Mors es, quam nuper servus meus, quam ancilla contempsit, etc. In tanto gli stolti, che, cercando medicina al male, non hanno rimedio a’ timori ne’ quali gelano più che non ardano nelle febbri, non vogliono nè veder cosa veruna, nè lasciarsi veder da alcuno, che possa loro svegliar nella memoria ricordanza di morte. Pare, che facciano come quello stolto, che, per non esser veduto dalle Pulci che lo mordeano, spense il lume, e, Non me, inquit, cernent amplius hi pulices7: ma troppo buon’occhio hanno i timori, avvezzi a veder meglio nell’ombre che nel chiaro.
Se dunque tanto può la disposizione dell’animo nelle impressioni del corpo; qual vantaggio del Savio infermo, aver sì intrepido l’animo e sì tranquilla la mente, che e non possa in lui il timore per cagionargli angosce e sfinimenti di cuore, e l’acerbezza stessa del male nella tranquillità dell’animo si rabbonacci e rimetta del suo furore? Levem morbum (disse Seneca8), dum putas facies. Omnia ad opinionem suspensa sunt. Non ambitio tantum ad illam respicit, aut luxuria, aut avaritia. Ad opinionem dolemus. Tam miser est quisque, quam credet.
Ma non accrescersi il male è poco, se di più non si scema: e si scema; e tanto, quanto, occupando la mente altrove (che ad uomo di studio è agevolissimo), ella si ritoglie dalsenso del dolore presente, e, quasi un’aghirone in tempo di grandine e di pioggia, sormonta le nuvole e va a godere il sereno.
Presa Siracusa da Marcello, e piena delle grida de’ vincitori e delle strida de’ vinti, mentre quegli inondano e questi fuggono per tutte le strade, solo Archimede ha l’animo si raccolto fra le linee d’alcune figure matematiche che descrive, che non vede, non sa, non ode nulla di quanto fuori di lui si fa, anzi ha perduto sè stesso ne’ suoi pensieri; sì che ucciso da un’impaziente soldato, prima s’avvede d’esser morto che di morire, e più si duole di non finire la dimostrazione che di finire la vita. All’incontro Solone, boccheggiando ne gli ultimi fiáti mentre stava morendo, in udire alcuni Filosofi che di non so quale accidente attaccaron disputa vicino al suo letto, si dimenticò di morire; e richiamando al capo l’anima fuggitiva, come chi o si sveglia o risuscita, aprì gli occhi e gli orecchi, nè prima finì di vivere, che essi finissero di disputare. Seneca non fuggì egli una volta, sì come egli medesimo riferisce, dalle febbri che lo cercacorrendo nell’ore vicine all’accessione a nascondersi nelle più segrete speculazioni della filosofia? L’angiolo San Tomaso non sottrasse il senso al dolore che gli avria cagionato un tocco di fuoco, col raccorre avvedutamente vano, tutta l’anima in un profondo pensiero; ch’era l’ordinario raccoglimento ch’egli avea negli studj?
Voi siete fisso in un letto col corpo, ma non vi ci lasciate incatenar con la mente; e tanto non sarete presente a’ vostri dolori, quanto con questa ve ne dilungherete9. Illud est, quod imperitos in vexatione corporis male habet. Non assueverunt animo esse contenti. Multum illis cum corpore fuit. Ideo vir magnus ac prudens animum deducit a corpore, et multum cum meliore ac divina parte versatur; cum hac querula ac fragili, quantum necesse est. Vuol dire (e parla ivi Seneca del Savio infermo ), ch’egli è come un Compasso, che se ha una parte sua immobilmente fissa col piè, coll’altra d’intorno s’aggira, descrivendo maggiori o minori i cerchj, sì come più o meno dal centro si dilunga.
Ma eccovi nell’esempio d’un solo i precetti di tutti. Nella vista di Possidonio Savio infermo, l’autentica di quanto ho detto; che le Lettere e la Sapienza portano il letto sopra l’inondazione de’ dolori, come i Coccodrilli il lor nido sopra quella del Nilo.
Questi era Filosofo, e di molt’anni infermo, e carico di più dolori che membra, poichè in ogni parte del corpo molti ne pativa; e se si fossero ripartiti a molti uomini, avrebbero fatto un’intero spedale d’infermi, dove che, raccolti in lui solo, non facevano nè anche un’infermo. Mercè che la fortezza dell’animo suppliva alla debolezza del corpo; e non gli penetravano al cuore i dolori delle membra inferme, più di quello che le saette arrivino alle viscere dell’Elefante, mentre gli muojono nella pelle, sì che
Tot jaculis unam non explent vulnera mortem;
Viscera tuta latent penitus10.
Quella tanto da gli Scrittori celebrata gran pruova del romano valore che Muzio Scevola diede al Re Porsena, quando, più dolendosi dell’errore che dell’incendio della sua mano, la mirò intrepidamente arder nel fuoco egli che non l’avea veduta senza sdegno errare nel colpo, con sì gran maraviglia del Re nemico, che gli convenne non solo lodare il suo uccisore nell’atto medesimo del pentimento ch’egli faceva di non averlo ucciso, ma essergli anche difenditore contro a lui stesso, togliendo il fuoco di sotto a quella mano, che solo era degna di luce e più meritevole di palma nel suo errore che non sarebbe stata nel colpo; questo, dico, fu un solo atto, fu in una sola mano, fu per brieve tempo, fu in un’uomo reo di morte, in un’uomo acerbamente sdegnato contra sè stesso. Possidonio per tanti anni nel letto, quasi un’Anassarco nel mortajo, pesto a membro a membro, e sminuzzato da’ suoi dolori, nè sopravivente alla continua morte che pativa, senon per andar più lungamente morendo, mirava sè e le sue miserie con occhio non solamente asciutto ma allegro; gl’istessi suoi dolori prendea per suggetto di filosofare, mutandosi in iscuola la camera, e in catedra il letto. In fine, faceva come la Luna, che se cade in eclissi e perde il lume, non perde però il filo de gl’incominciati suoi giri, e proseguisce il corso nientemeno che s’ella fosse, come prima era, piena di luce.
Si veniva dalle città d’intorno a Rodi, per vedere e udire un’uomo, che dalle ferite sue cavava il balsamo per le altrui; e più ammiratori aveva egli giacente in un letto, che non quel famoso Colosso di bronzo, ritto su la foce del porto, superbia di Rodi, e miracolo del mondo.
Pompeo il magno, passato in Grecia, e tirato dalla fama di Possidonio, volle vederlo; e s’avvenne appunto in tempo, ch’egli era più che mai sotto i martelli de’ suoi dolori. Venne, vide, e restò vinto. Parea Pompeo l’infermo, compatendo al male di Possidonio; pareva Possidonio il sano, discorrendo lungamente con Pompeo, e provando la verità di quest’argomento: Nihil bonum est, nisi quod honestum sit11; e con sì gran franchezza di volto e con animo sì intrepido lo faceva, che lacerandolo i suoi dolori, in vece di stridere, gli sgridava, come altri farebbe una fiera, e diceva: Nihil agis, dolor: quamvis sis molestus, numquam te esse confitebor malum.
Così la Sapienza, ch’è il colmo delle più nobili Lettere, meglio che nella Palude stigia Achille, rende l’animo impenetrabile alle ferite del corpo, e tiene tanto alienata dal senso de’ suoi dolori la mente, quanto sa occuparle intorno a più felice oggetto i pensieri.
Sia dunque il Savio povero, sia in prigione, sia sbandeggiato, sia infermo, eccovi in due parole per ognuno di questi mali la medicina: Pauper fiam? inter plures ero. Exul fiam? Ibi me natum putabo’, quo mittar. Alligabor? Quid enim? Nunc solutus sum? ad hoc me Natura grave corporis mei pondus adstrinxit. Moriar? hoc dicis: Desinam ægrotare posse, desinam alligari posse, desinam mori posse12.
Così accennato quanto un’uomo di Lettere sia felice di quel solo che da esse ne cava; perchè spicchi meglio questo poco chiaro che ho saputo dare ad una sì illustre materia, gli porrò appresso la sua ombra; e se v’ho fatto vedere la Sapienza star bene anche nel male, ora vi mostrerò l’Ignoranza star male anche nel bene.