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sì gran maraviglia del Re nemico, che gli convenne non solo lodare il suo uccisore nell’atto medesimo del pentimento ch’egli faceva di non averlo ucciso, ma essergli anche difenditore contro a lui stesso, togliendo il fuoco di sotto a quella mano, che solo era degna di luce e più meritevole di palma nel suo errore che non sarebbe stata nel colpo; questo, dico, fu un solo atto, fu in una sola mano, fu per brieve tempo, fu in un’uomo reo di morte, in un uomo acerbamente sdegnato contra sé stesso. Possidonio per tanti anni nel letto, quasi un’Anassarco nel mortajo, pesto a membro a membro, e sminuzzato da’ suoi dolori, né sopravivente alla continua morte che pativa, senon per andar più lungamente morendo, mirava sé e le sue miserie con occhio non solamente asciutto ma allegro; gl’istessi suoi dolori prendea per suggetto di filosofare, mutandosi in iscuola la camera, e in catedra il letto. In fine, faceva come la Luna, che se cade in eclissi e perde il lume, non perde però il filo de gl’incominciati suoi giri e proseguisce il corso nientemeno che s’ella fosse, come prima era, piena di luce.

Si veniva dalle città d’intorno a Rodi, per vedere e udire un’uomo, che dalle ferite sue cavava il balsamo per le altrui; e più ammiratori aveva egli giacente in un letto, che non quel famoso Colosso di bronzo, ritto su la foce del porto, superbia di Rodi, e miracolo del mondo.

Pompeo il magno, passato in Grecia, e tirato dalla fama di Possidonio, volle vederlo; e s’avvenne appunto in tempo, ch’egli era più che mai sotto i martelli de’ suoi dolori. Venne, vide, e restò vinto. Parea Pompeo l’inferme, compatendo al male di Possidonio, pareva Possidonio il sano, discorrendo lungamente con Pompeo, e provando la verità di quest’argomento: Nihil bonum esi, nisi quod honestum sit; e con sì gran franchezza di volto e con animo sì intrepido lo faceva, che lacerandolo i suoi dolori, in vece di stridere, gli sgridava, come altri farebbe una fiera, e diceva: Nihil agis, dolor: quaimvis sis molestus, numquam te esse confitebor malum.