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che nè le armi nè le arti di veruno affetto potessero sforzare il cuore a rendersi, e cedere la piazza nè a discrezione nè a patti. Nelle tempeste del corpo infermo, de gli umori sconvolti, della vita pericolante, vuole che l’animo stia velut pelagi rupes immota, che sparsa, ma non iscossa dalle onde, se le sfragella al piede, e le spolvera in ischuma.

Tutti i dolori del mondo, quantunque a stretto torchio ci premano ad uno ad uno le membra, non hanno mai a vederci smarrimento di pallidezza nel volto, o fiacchezza di coraggio nel petto: non hanno a spremerci un’oimè di bocca, nè una lagrima sola da gli occhi. Anzi, quanto più incrudeliscono i dolori, tanto più viva ci dee lampeggiare in fronte l’allegrezza; appunto come nel cielo, allora è più limpido il sereno, quando più gagliardi e più freddi soffiano gli Aquiloni.

Ma che dico Zenone e gli Stoici? Epicuro stesso, quell’animale, a cui l’anima non servì che di sale perchè non marcisse vivo ne’ piaceri, insegnò, che beato esser non può chi non sa mutarsi le spine in fiori, e cavar dall’assenzio il mele, voltandosi in giubilo i dolori, e le miserie in godimento. Imperciochè essendo fonte della beatitudine il diletto (diceva egli), nè potendo dirsi beato chi non è sempre beato, ha di bisogno ch’egli sappia così ne’ tormenti come ne’ contenti godere. Quare sapiens (disse Epicuro riferito da Seneca1) si in Phalaridis Tauro peruratur, exclamabit: Dulce est; ad me nihil pertinet.

Ma troppo volevan costoro, a cui non dava l’animo di mettere in altrui la Sapienza, senza torgli l’umanità. Più saggiamente insegnarono altre scuole, gli affetti non doversi svellere dalla radice come piante velenose, ma come salvatiche e spinose migliorarsi coll’innestamento. Esser voci di molti tuoni, che, dove non vi sia chi le accordi, fanno bruttissime dissonanze; ma, se dalla Ragione ricevano Tempo e Misura, formarsene musiche di soavissima armonia. Ma dall’avere quelle rigide scuole voluto tanto, quanto è svellerne le passioni dal cuore,

  1. Ep. 66.