Del romanzo storico/Parte prima

Parte prima

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Avvertimento Parte seconda
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DEL ROMANZO STORICO


E, IN GENERE,


DE’ COMPONIMENTI MISTI DI STORIA E D’INVENZIONE





Intelligo te, frater, alias in historia
leges observandas putare, alias in
poemate.

(Cic., De Legibus, I, 1).


PARTE PRIMA.


Il romanzo storico va soggetto a due critiche diverse, anzi direttamente opposte; e siccome esse riguardano, non già qualcosa d’accessorio, ma l’essenza stessa d’un tal componimento; così l’esporle e l’esaminarle ci pare una bona, se non la migliore maniera d’entrare, senza preamboli, nel vivo dell’argomento.

Alcuni dunque si lamentano che, in questo o in quel romanzo storico, in questa o in quella parte d’un romanzo storico, il vero positivo non sia ben distinto dalle cose inventate, e che venga, per conseguenza, a mancare uno degli effetti principalissimi d’un tal componimento, come è quello di dare una rappresentazione vera della storia.

Per mettere in chiaro quanta ragione possano avere, bisognerà dire qualcosa di più di quello che dicono; senza però dir nulla che non sia implicito e sottinteso in quello che dicono. E noi crediamo di non far altro che svolgere i motivi logici di quel loro lamento, facendoli parlar così al paziente, voglio dire all’autore:

« L’intento del vostro lavoro era di mettermi davanti agli occhi, in una forma nova e speciale, una storia più ricca, più varia, più compita di quella che si trova nell’opere a cui si dà questo nome più comunemente, e come per antonomasia. La storia che aspettiamo da voi non è un racconto cronologico di soli fatti politici e militari e, per eccezione, di qualche avvenimento straordinario d’altro genere; ma una rappresentazione più generale dello stato dell’umanità in un tempo, in un luogo, naturalmente più circoscritto di quello in cui si distendono ordinariamente i lavori di storia, nel senso più usuale del vocabolo. Corre tra questi e il vostro la stessa differenza, in certo modo, che tra una carta geografica, dove sono [p. 328 modifica]segnate le catene de’ monti, i fiumi, le città, i borghi, le strade maestre d’una vasta regione, e una carta topografica, nella quale, e tutto questo è più particolarizzato (dico quel tanto che ne può entrare in uno spazio molto più ristretto di paese), e ci sono di più segnate anche le alture minori, e le disuguaglianze ancor meno sensibili del terreno, e i borri, le gore, i villaggi, le case isolate, le viottole. Costumi, opinioni, sia generali, sia particolari a questa o a quella classe d’uomini; effetti privati degli avvenimenti pubblici che si chiamano più propriamente storici, e delle leggi, o delle volontà de’ potenti, in qualunque maniera siano manifestate; insomma tutto ciò che ha avuto di più caratteristico, in tutte le condizioni della vita, e nelle relazioni dell’une con l’altre, una data società, in un dato tempo; ecco ciò che vi siete proposto di far conoscere, per quanto siete arrivato, con diligenti ricerche, a conoscerlo voi medesimo. E il diletto che vi siete proposto di produrre, è quello che nasce naturalmente dall’acquistare una tal cognizione, e dall’acquistarla per mezzo d’una rappresentazione, dirò così, animata, e in atto.

«Posto ciò, quando mai il confondere è stato un mezzo di far conoscere? Conoscere è credere; e per poter credere, quando ciò che mi viene rappresentato so che non è tutto ugualmente vero, bisogna appunto ch’io possa distinguere. E che? volete farmi conoscere delle realtà, e non mi date il mezzo di riconoscerle per realtà? Perchè mai avete voluto che queste realtà avessero una parte estesa e principale nel vostro componimento? perchè quel titolo di storico, attaccatoci per distintivo, e insieme per allettamento? Perchè sapevate benissimo che, nel conoscere ciò che è stato davvero, e come è stato davvero, c’è un interesse tanto vivo e potente, come speciale. E dopo aver diretta e eccitata la mia curiosità verso un tale oggetto, credereste di poterla soddisfare col presentarmene uno che potrà esser quello, ma potrà anche essere un parto della vostra inventiva?

«E notate che, col farvi questa critica, intendo di farvi anche un complimento: intendo di parlar con uno scrittore che sa e sceglier bene i suoi argomenti, e maneggiarli bene. Se si trattasse d’un romanzo noioso, pieno di fatti ordinari possibili in qualunque tempo, e perciò non notabili in veruno, avrei chiuso il libro senza curarmi d’altro. Ma appunto perchè il fatto, il personaggio, la circostanza, il modo, le conseguenze che mi rappresentate, attirano e trattengono fortemente la mia attenzione, nasce in me tanto più vivo, più inquieto e, aggiungo, più ragionevole il desiderio di sapere se devo vederci una manifestazione reale dell’umanità, della natura, della Provvidenza, o solamente un possibile felicemente trovato da voi. Quando uno che abbia la riputazione di piantar carote, vi racconti una novità interessante, dite di saperla? rimanete appagato? Ora voi (quando scrivete un romanzo, s’intende) siete simile a lui, cioè uno che racconta ugualmente il vero e il falso; e se non mi fate distinguere l’uno dall’altro, mi lasciate come mi lascia lui.

«Istruzione e diletto erano i vostri due intenti; ma sono appunto così legati, che, quando non arrivate l’uno, vi sfugge anche l’altro; e il vostro lettore non si sente dilettato, appunto perchè non si trova istruito.»

Potrebbero sicuramente dir la cosa meglio; ma, anche dicendola così, bisogna confessare che hanno ragione.

Ci sono però, come abbiamo detto da principio, degli altri, che vorrebbero tutt’il contrario. Si lamentano in vece che, in questo o in quel romanzo storico, in questa o in quella parte d’un romanzo storico, l’autore distingua espressamente il vero positivo dall’invenzione: la qual cosa, dicono, distrugge quell’unità che è la condizione Vitale di questo, come d’ogni altro lavoro dell’arte. Cerchiamo di vedere un po’ più in particolare su cosa si fondi anche quest’altro lamento.

[p. 329 modifica]«Qual è, mi par che vogliano dire, la forma essenziale del romanzo storico? Il racconto; e cosa si può immaginare di più contrario all’unità, alla continuità dell’impressione d’un racconto, al nesso, alla cooperazione, al coniurat amice1 di ciascheduna parte nel produrre un effetto totale, che l’essere alcune di queste parti presentate come vere, e altre come un prodotto dell’invenzione? Queste, se avete saputo inventare a modo, saranno affatto simili a quelle, meno appunto l’esser vere, meno la qualità speciale, incomunicabile, di cose reali. Ora, col manifestare una tal qualità in quelle che l’hanno, voi levate al vostro racconto la sua unica ragion d’essere, sostituendo a ciò che i diversi suoi materiali hanno d’omogeneo, di comune, ciò che hanno di repugnante, d’inconciliabile. Dicendomi espressamente, o facendomi intendere in qualunque maniera, che la tal cosa è di fatto, mi forzate a riflettere (e cos’importa che non sia questa la vostra intenzione?) che l’antecedenti non lo erano, che le susseguenti non lo saranno; che a quella conviene l’assentimento che si dà al vero positivo, e che a queste non può convenire se non quell’altro assentimento, di tutt’altro genere, che si dà al verosimile; e quindi, che la forma narrativa, applicata ugualmente all’una e all’altre, è per quella la forma propria e naturale, per l’altre una forma convenzionale e fattizia: che vuol dire una forma contradittoria per l’insieme.

«E vedete se la contradizione potrebbe esser più strana. Quest’unità, quest’omogeneità dell’insieme, la riguardate anche voi come una cosa importantissima, giacchè, dall’altra parte, fate di tutto per ottenerla. Quella lode che Orazio dà all’autore dell’Odissea:

          E mentisce così, col falso il vero
          Sa in tal guisa intrecciar, che corrisponde
          Sempre al principio il mezzo, al mezzo il fine2.

fate anche voi di tutto per meritarla, scegliendo e dal reale e dal possibile le cose che possono accordarsi meglio tra di loro. E con qual fine, se non perchè la mente del lettore, soggiogata, portata via dall’arte, possa, diremo così, accettarle per una cosa sola come le sono presentate? E venite poi a disfare voi medesimo il vostro lavoro, separando materialmente ciò che avete formalmente riunito! Quell’illusione che è lo sforzo e il premio dell’arte, quell’illusione così difficile a prodursi e a mantenersi, la distruggete voi medesimo, nell’atto del produrla! Non vedete che c’è ripugnanza tra il concetto e l’esecuzione? che con de’ pezzetti di rame e de’ pezzetti di stagno, congegnati insieme, non si fa una statua di bronzo?»

E a questi cosa risponderemo? In verità, non trovo che si possa dir altro, se non che hanno ragione.

Un mio amico, di cara e onorata memoria, raccontava una scena curiosa, alla quale era stato presente in casa d’un giudice di pace in Milano, val a dire molt’anni fa. L’aveva trovato tra due litiganti, uno de’ quali perorava caldamente la sua causa; e quando costui ebbe finito, il giudice gli disse: avete ragione. Ma, signor giudice, disse subito l’altro, lei mi deve sentire anche me, prima di decidere. È troppo giusto, rispose il giudice: [p. 330 modifica]dite pur su, che v’ascolto attentamente. Allora quello si mise con tanto più impegno a far valere la sua causa; e ci riuscì così bene, che il giudice gli disse: avete ragione anche voi. C’era lì accanto un suo bambino di sette o ott’anni, il quale, giocando pian piano con non so qual balocco, non aveva lasciato di stare anche attento al contradittorio; e a quel punto, alzando un visino stupefatto, non senza un certo che d’autorevole, esclamò: ma babbo! non può essere che abbiano ragione tutt’e due. Hai ragione anche tu, gli disse il giudice. Come poi sia finita, o l’amico non lo raccontava, o m’è uscito di mente, ma è da credere che il giudice avrà conciliate tutte quelle sue risposte, facendo vedere tanto a Tizio, quanto a Sempronio, che, se aveva ragione per una parte, aveva torto per un’altra. Così faremo anche noi. E lo faremo in parte con gli argomenti stessi de’ due avversari; ma per cavarne una conseguenza diversa e, da quella degli uni, e da quella degli altri.

Quando voi, diremo ai primi, pretendete che l’autore d’un romanzo storico vi faccia distinguere in esso ciò che è stato realmente, da ciò che è di sua invenzione, non avete certamente pensato se ci sia la maniera di servirvi. Gli prescrivete l’impossibile, niente meno. E per esserne convinti, basta che badiate un momento come queste cose devono esserci mescolate, affinchè possano far parte d’un racconto medesimo. Per circostanziare, verbigrazia, gli avvenimenti storici, coi quali l’autore abbia legata la sua azione ideale (e voi approvate di certo, che in un romanzo storico entrino avvenimenti storici), dovrà mettere insieme e circostanze reali, cavate dalla storia o da documenti di qualunque genere; perchè qual cosa potrebbe servir meglio a rappresentare quegli avvenimenti nella loro forma vera, e dirò così, individuale? e circostanze verosimili, inventate da lui; perchè volete che vi dia, non una mera e nuda storia, ma qualcosa di più ricco, di più compito; volete che rifaccia in certo modo le polpe a quel carcame, che è in così gran parte, la storia. Per le stesse ragioni, ai personaggi storici (e voi siete ben contento di trovare in un romanzo storico de’ personaggi storici) farà dire e fare, e cose che hanno dette e fatte realmente, quand’erano in carne e ossa, e cose immaginate da lui, come convenienti al loro carattere, e insieme a quelle parti dell’azione ideale, nelle quali gli è tornato bene di farli intervenire. E reciprocamente, ne’ fatti inventati da lui, metterà naturalmente circostanze ugualmente inventate, e anche circostanze cavate da fatti reali di quel tempo e di quel luogo; perchè qual mezzo più naturale per farne azioni che abbiano potuto essere in quel tempo, in quel luogo? Così a’ suoi personaggi ideali darà parole e azioni ugualmente ideali; e insieme parole e azioni che trovi essere state dette e fatte da uomini di quel luogo e di quel tempo, ben contento di poter rendere più verosimili le sue idealità coi propri elementi del vero. E basta questo per farvi vedere che non potrebbe fare tra queste cose la distinzione che voi gli chiedete, o piuttosto non potrebbe tentar di farla, se non spezzando il racconto, non dico ogni tanto, ma ogni momento, più volte in una pagina, non di rado in un solo periodo, per dire: questo è positivo, cavato da memorie degne di fede; questo è di mia invenzione, ma dedotto da fatti positivi; queste parole furono dette realmente dal personaggio a cui le attribuisco, ma furono dette in tutt’altra occasione, in circostanze che non entrano nel mio romanzo; quest’altre che metto in bocca a un personaggio immaginario, furono dette realmente da un uomo reale; ovvero, erano discorsi che correvano per le bocche di molti; e via discorendo. Dareste voi a un componimento così fatto il nome di romanzo? O trovereste che meritasse un nome qualunque? O piuttosto si può egli concepire un componimento così fatto?

Forse mi direte che non v’è mai passato per la mente di chieder tanto. [p. 331 modifica]E lo credo; ma qui si tratta di vedere, non solo cosa esprimano direttamente le vostre parole, ma anche cosa importino logicamente. Siano molti o pochi i casi in cui vorreste che l’autore vi facesse distinguere ciò che c’è di reale nel suo racconto: foss’anche un caso solo; perchè lo vorreste? per un vostro capriccio? No, di certo, ma per una bonissima ragione, e l’avete detta voi: perchè la realtà, quando non è rappresentata in maniera che si faccia riconoscere per tale, nè istruisce, nè appaga. Ed è forse una ragione particolare a que’ casi o a quel caso? Tutt’altro: è, di sua natura, una ragione generale, comune a tutti i casi simili. Se dunque vengono altri a lamentarsi di provare lo stesso dispiacevole effetto in altre parti del componimento, non vi par egli che le loro lagnanze meritino soddisfazione al pari delle vostre? Dovete dir di sì, poichè sono fondate su quella ragione medesima: l’esigenza della realtà. Vedete dunque che, imponendo al romanzo storico di farla distinguere o qua o là, gli’imponete in sostanza di farla distinguer per tutto: cosa impossibile, come ho dimostrato, o piuttosto v’ho fatto osservare.

Ecco ora cosa si può dire agli altri:

Il distinguere in un romanzo storico la realtà dall’invenzione, distrugge, secondo voi, l’omogeneità dell’impressione, l’unità dell’assentimento. Ma, di grazia, come si può distruggere ciò che non è? Non vedete che questa distinzione si trova negli elementi necessari e, dirò così, nella materia prima d’un tal componimento? Quando, per esempio, l’Omero del romanzo storico fa entrare nel Wawerley il principe Odoardo, e il suo sbarco in Scozia; in un altro componimento, Maria Stuarda, e la sua fuga dal castello di Lockleven; in un altro, Luigi XI re di Francia, e il suo soggiorno a Plessis-les-Tours; in un altro, Riccardo Cor di leone, e la sua spedizione in Terra Santa, e via discorrendo: non fa nulla dal canto suo per avvertirvi che si tratta di persone reali e di fatti reali. Sono loro che si presentano con questo carattere; sono loro che richiedono assolutamente, e ottengono inevitabilmente quell’assentimento sui generis, esclusivo, incomunicabile, che si dà alle cose apprese come cose di fatto; assentimento che chiamerò storico, per opporlo all’altro, ugualmente sui generis, esclusivo, incomunicabile, che si dà alle cose apprese come meramente verosimili, e che chiamerò assentimento poetico. Anzi, il male era già fatto prima che que’ personaggi comparissero in scena. Prendendo in mano un romanzo storico, il lettore sa benissimo che ci troverà facta atque infecta 3 e cose avvenute e cose inventate, cioè due oggetti diversi, dei due diversi, anzi opposti assentimenti. E voi accusate l’autore di far nascere una tale discordia, e gli prescrivete di mantenere nel corso dell’opera un’unità ch’era già stata portata via dal titolo!

Forse, mi direte anche voi, ch’io esagero le vostre pretensioni; che l’esserci in una cosa degl’inconvenienti inevitabili non è una ragione di aggiungercene degli altri; che, se quell’omogeneità d’assentimento desiderata dall’arte non si può ottenere così interamente, è però un danno gratuito il diminuirla; che, con quell’avvertire espressamente, o col far intendere che la tale o tal altra cosa è positivamente vera, l’autore fa nascere degli assentimenti storici, opposti all’intento dell’arte, dove forse non nascerebbero.

Può darsi; ma cosa potrebbe nascere in vece? Due cose sole, cioè o l’una o l’altra di due cose, opposte nè più nè meno all’intento dell’arte: l’inganno, o il dubbio.

[p. 332 modifica]Può darsi, dico, che il lettore, se non fosse stato avvertito che la cosa raccontata era realmente avvenuta, l’avrebbe presa, e se la sarebbe goduta per una bella invenzione poetica. Ma è forse a questo, che l’arte aspira? Bello sforzo, in verità, bella operazione dell’arte quella che consistesse, non nell’ideare cose verosimili, ma nel lasciar ignorare che le cose presentate da essa sono reali! E bell’effetto dell’arte, quello che dovesse dipendere da un’ignoranza accidentale! giacchè, se nell’atto che quel lettore si sta godendo la supposta invenzione poetica, viene uno e gli dice: sappiate che è un fatto positivo, cavato dal tal documento; ecco il pover’uomo trasportato di peso dagli spazi della poesia nel campo della storia. L’arte è arte in quanto produce, non un effetto qualunque, ma un effetto definitivo. E, intesa in questo senso, è non solo sensata, ma profonda quella sentenza, che il vero solo è bello; giacchè il verosimile (materia dell’arte) manifestato e appreso come verosimile, è un vero, diverso bensì, anzi diversissimo dal reale4, ma un vero veduto dalla mente per sempre o, per parlar con più precisione, irrevocabilmente: è un oggetto che può bensì esserle trafugato dalla dimenticanza, ma che non può esser distrutto dal disinganno. Nulla può fare che una bella figura umana, ideata da uno scultore, cessi d’essere un bel verosimile: e quando la statua materiale, in cui era attuata, venga a perire, perirà bensì con essa la cognizione accidentale di quel verosimile, non, certamente, la sua incorruttibile entità. Ma se uno, vedendo, da lontano e al barlume, un uomo ritto e fermo su un edifizio in mezzo a delle statue lo prendesse per una statua anche lui, vi pare che sarebbe un effetto d’arte?

L’altra cosa che potrebbe nascere è che il lettore, non avvertito dall’autore, che una o un’altra cosa, la quale eccita particolarmente la sua attenzione, è cosa di fatto; ma avvertito dalla natura o, per dir meglio, dall’assunto del componimento, che può benissimo esser cosa di fatto, rimanga in dubbio, esiti; e certo senza sua colpa, come contro sua voglia. Assentire, assentir rapidamente, facilmente, pienamente, è il desiderio d’ogni lettore, meno chi legga per criticare. E si assente con piacere tanto al puro verosimile, quanto al vero positivo; ma l’avete detto voi, con assentimenti diversi, anzi opposti; e, aggiungo io, con una condizione uguale in tutt’e due i casi; cioè che la mente riconosca nell’oggetto che contempla o l’una o l’altra essenza, per poter prestare o l’uno o l’altro assentimento. Dissimulando la realtà della cosa raccontata l’autore sarebbe riuscito, secondo il vostro desiderio, a impedire un assentimento storico, ma levando insieme al lettore il mezzo di prestarne uno qualunque. Effetto contrario anch’esso, quanto si possa dire all’intento dell’arte; poichè qual cosa più contraria all’unità, all’omogeneità dell’assentimento, che la mancanza dell’assentimento?

Ed è appunto per prevenire e l’inganno di cui ho parlato sopra, e questa esitazione; è per non fare al lettore una miserabile marachella, o per servire a un suo probabile desiderio, per non lasciar senza risposta una sua tacita interrogazione, che un autore può essere, in questo o in quel caso, tentato fortemente, o come trascinato a distinguere espressamente la realtà: è perchè sente quanto manchi alla cosa, rappresentata, mancandole la manifestazione d’una qualità di questa sorte. Non dico che faccia bene; non nego che faccia una cosa direttamente, manifestamente contraria all’unità del componimento: dico che il lasciar lui di farla non servirebbe ad ottenere questa unità. Fa come il povero maestro [p. 333 modifica]Iacopo del Molière, che si presenta, ora con la giacchetta di cuoco, ora col camiciotto di cocchiere, perchè l’Avaro, suo padrone, vuol che faccia tutt’e due i mestieri, e lui ha accettata una tal condizione.

Ricapitolando ora tutti questi pro e contro, ci pare di poter concludere che hanno ragione e gli uni nel volere che la realtà storica sia sempre rappresentata come tale, e gli altri, nel volere che un racconto produca assentimenti omogenei; ma che hanno torto e gli uni e gli altri nel volere e questo e quell’effetto dal romanzo storico, mentre il primo è incompatibile con la sua forma, che è la narrativa; il secondo co’ suoi materiali, che sono eterogenei. Chiedono cose giuste, cose indispensabili; ma le chiedono a chi non le può dare.

Ma se fosse così, ci si dirà ora, sarebbe in ultimo il romanzo storico che avrebbe torto per ogni verso.

Questa è appunto la nostra tesi. Volevamo dimostrare, e crediamo d’aver dimostrato, che è un componimento, nel quale riesce impossibile ciò che è necessario; nel quale non si possono conciliare due condizioni essenziali, e non si può nemmeno adempirne una, essendo inevitabile in esso e una confusione repugnante alla materia e una distinzione repugnante alla forma; un componimento, nel quale deve entrare e la storia e la favola, senza che si possa nè stabilire, nè indicare in qual proporzione, in quali relazioni ci devano entrare; un componimento insomma, che non c’è il verso giusto di farlo, perchè il suo assunto è intrinsecamente contradittorio. Gli chiedon troppo; ma troppo in ragion di che? Della sua possibilità? Verissimo; ma ciò appunto dimostra il vizio radicale del suo assunto, perchè, in ragione delle cose, chiedere al vero di fatto, che sia riconoscibile, e chiedere a un racconto, che produca assentimenti omogenei, è chiedere quello che ci vuole per l’appunto. Sono due cose incompatibili; ma dove? Nel romanzo storico? Verissimo ancora; ma peggio per il romanzo storico; perchè, in sè, sono due cose fatte apposta per andare insieme. E se ci fosse bisogno d’addurre le prove d’una verità, le troveremmo subito in uno de’ due generi di lavoro, che il romanzo storico contraffà e confonde, voglio dire la storia. Questa infatti si propone appunto di raccontare de’ fatti reali, e di produrre per questo mezzo un assentimento omogeneo, quello che si dà al vero positivo.

Ma, potrà qui forse opporre qualcheduno, s’ottiene egli codesto dalla storia? Produce essa una serie d’assentimenti risoluti e ragionevoli? O non lascia spesso ingannati quelli che sono facili a credere, e dubbiosi quelli che sono inclinati a riflettere? E indipendentemente dalla volontà d’ingannare, quali sono le storie composte da uomini, dove si possa esser certi di non trovare altro che la verità netta e distinta?

Certo, risponderemo, non mancano nella storia fandonie, anzi bugie. Ma è colpa dello storico, e non condizione del componimento. Quando d’uno storico si dice che fa la frangia alle cose, che vi fa un pasticcio di fatti e d’invenzioni, che non si sa cosa credergli, s’intende fargli carico d’una cosa che aveva il mezzo di schivare. E infatti il mezzo c’era, sicuro quanto facile; giacchè, qual cosa più facile che l’astenersi dall’inventare? Vedete se vi pare che l’autore del romanzo storico possa far uso di questo mezzo, per schivar, quanto è in lui, d’ingannare il lettore.

È certo ugualmente, che anche dallo storico più coscienzioso, più diligente, non s’avrà a gran pezzo, tutta la verità che si può desiderare, nè così netta come si può desiderare. Ma anche qui non è colpa dell’arte; è difetto della materia. Perchè un’arte sia buona e ragionevole, non si richiede che sia propria ad ottenere interamente e perfettamente il suo fine: non ce ne sono di tali. Arte buona e ragionevole è quella che, proponendosi un fine sensato, adopera i mezzi più adattati a ottenerlo fin [p. 334 modifica]dove si può, i mezzi che sarebbero adattati a ottenerlo interamente, ne’ limiti delle facoltà umane, quando ci fosse la materia corrispondente. De’ fatti reali, dello stato dell’umanità in certi tempi, in certi luoghi, è possibile acquistare e trasmettere una cognizione, non perfetta, ma effettiva: ed è ciò che si propone la storia: intendo sempre la storia in buone mani. Non arriva fin dove vorrebbe; ma non ne sta volontariamente indietro un passo. Non supera, a gran pezzo, tutte le difficoltà; ma si guarda bene di crearne veruna. Vi lascia anch’essa qualche volta nel dubbio; ma quando ci si trova essa medesima. Anzi (perché a chi è nella strada giusta, tutto viene a proposito), anche del dubbio la storia si serve. Non solo lo confessa apertamente, ma, all’occorrenza, lo promove, lo sostiene, cerca di sostituirlo a delle false persuasioni. Vi fa dubitare, perché ha voluto che dubitaste; non come il romanzo storico, per avervi eccitato ad assentire, sottraendovi insieme ciò ch’era necessario a determinar l’assentimento. Nel dubbio provocato dalla storia, lo spirito riposa, non come al termine del suo desiderio, ma come al limite della sua possibilità: ci s’appaga, dirò così, come in un atto relativamente finale, nel solo atto bono che gli sia dato di fare. Nel dubbio eccitato dal romanzo storico, lo spirito in vece s’inquieta, perché nella materia che gli è presentata vede la possibilità d’un atto ulteriore, del quale gli è nello stesso tempo creato il desiderio, e trafugato il mezzo. Credo che non ci sarà alcun autore di romanzi storici, o anche d’un solo romanzo storico, a cui non sia capitato qualche volta di sentirsi domandare se il tal personaggio, il tal fatto, la tale circostanza fosse cosa vera, o di sua invenzione. E credo ugualmente, che avrà detto tra sé: Ah traditore! sotto la forma d’una domanda innocente, tu mi fai una critica velenosa: mi protesti in fondo, che il libro t’ha lasciato, anzi t’ha dato il bisogno di tirar l’autore per il mantello. So bene che è merito d’un libro il dar la volontà di sapere più di quello che insegna; ma costì è un’altra faccenda. Le cose che tu desideri di sapere sono cose di cui t’ho parlato; mi chiedi, non d’aggiungere, ma di disfare.

Non sarà fuor di proposito l’osservare che, anche del verosimile la storia si può qualche volta servire, e senza inconveniente, perché lo fa nella buona maniera, cioè esponendolo nella sua forma propria, e distinguendolo così dal reale. E lo può fare senza che ne sia offesa l’unità del racconto, per la ragione semplicissima che quel verosimile non entra a farne parte. È proposto, motivato, discusso, non raccontato al pari del positivo, e insieme col positivo, come nel romanzo storico. E non c’è nemmeno pericolo che ne rimanga offesa l’unità del componimento, poiché qual legame più naturale, qual più naturale continuità, per così dire, di quella che si trova tra la cognizione e l’induzione? Quando la mente riceve la notizia d’un positivo che ecciti vivamente la sua attenzione, ma una notizia tronca e mancante di parti o essenziali, o importanti, è inclinata naturalmente a rivolgersi a cose ideali che abbiano con quel positivo, e una relazione generale di compossibilità, e una relazione speciale o di causa, o d’effetto, o di mezzo, o di modo, o d’importante concomitanza, che ci hanno dovuta avere le cose reali di cui non è rimasta la traccia. È una parte della miseria dell’uomo il non poter conoscere se non qualcosa di ciò che è stato, anche nel suo piccolo mondo; ed è una parte della sua nobiltà e della sua forza il poter congetturare al di là di quello che può sapere. La storia, quando ricorre al verosimile, non fa altro che secondare o eccitare una tale tendenza. Smette allora, per un momento, di raccontare, perché il racconto non è, in quel caso, l’istrumento bono, e adopra in vece quello dell’induzione: e in questa maniera, facendo ciò che è richiesto dalla diversa ragione delle cose, viene anche a fare ciò [p. 335 modifica]che conviene al suo novo intento. Infatti, per poter riconoscere quella relazione tra il positivo raccontato e il verosimile proposto, è appunto una condizione necessaria, che questi compariscano distinti. Fa, a un di presso, come chi, disegnando la pianta d’una città, ci aggiunge, in diverso colore, strade, piazze, edifizi progettati; e col presentar distinte dalle parti che sono, quelle che potrebbero essere, fa che si veda la ragione di pensarle riunite. La storia, dico, abbandona allora il racconto, ma per accostarsi, nella sola maniera possibile, a ciò che è lo scopo del racconto. Congetturando, come raccontando, mira sempre al reale: lì è la sua unità. Dove se ne va, o piuttosto, come si forma quella del romanzo storico, che erra tra due mire opposte?

Ci si permetta di prevenir qui un’altra obiezione, ancor meno fondata, ma pure da temersi, perché, in tutte le occasioni simili a questa, non manca mai. Si tratta del romanzo storico, ci si potrà dire, e voi lo paragonate alla storia, dimenticando che sono due specie di lavori, che hanno due intenti, in parte simili bensì, ma in parte affatto diversi.

Ci vuol poco a vedere che una tale obiezione non si fonda che su una petizione di principio. Certo, se il romanzo storico avesse un suo intento, più o meno diverso da quello della storia, ma ugualmente logico, sarebbe una stravaganza l’opporgli l’intento e le leggi della storia. Ma la questione è appunto se il romanzo storico abbia un suo intento logico, e quindi ottenibile; e se possa, per conseguenza, avere delle sue leggi particolari, ordinate a quell’intento. L’intento d’un’arte è condizionato alla materia, o a ciascheduna delle materie che adopera; e aver veduto quali siano le condizioni ingenite e necessarie d’una materia, in un’arte qualunque, è averlo veduto per tutte l’arti esistenti e possibili, che vogliano servirsi della materia medesima. Poiché il romanzo storico prende come parte della sua materia quella che è la propria e natural materia della storia, bisogna bene che, per questa parte, sia messo a paragone con essa. Non è per cagione del titolo, né della forma, né dell’assunto dell’opera, che della verità storica non si può far altro di bono, se non rappresentarla più distintamente che si può; è per la natura della verità storica. Anche l’alchimia aveva un suo intento, diverso in parte da quello della chimica: non le mancava altro, che d’ottenerlo; anch’essa supponeva che ci dovessero essere i mezzi adattati a quell’intento: non le mancava altro, che di trovarli. E nulla è stato più a proposito che l’opporle gli esperimenti e i raziocini della chimica, in quanto lavoravano tutt’e due sui metalli. E si veda come sarebbe parso strano se quella avesse risposto: Codesto anderà bene per la chimica, ma io mi chiamo l’alchimia.

Non ha il romanzo storico un intento suo proprio e insieme logico: ne contraffà due, come ho accennato. Certo, in questa proposizione - rappresentare, per mezzo d’un’azione inventata, lo stato dell’umanità, in un’epoca passata e storica, - c’è un’unità verbale e apparente. Ma la cosa che sarebbe necessaria per costituirne l’unità razionale, voglio dire la corrispondenza d’un tal mezzo con un tal fine, c’è gratuitamente e falsamente supposta. Il mezzo, e l’unico mezzo che uno abbia di rappresentare uno stato dell’umanità, come tutto ciò che ci può essere di rappresentabile con la parola, è di trasmetterne il concetto quale è arrivato a formarselo, coi diversi gradi o di certezza o di probabilità che ha potuto scoprire nelle diverse cose, con le limitazioni, con le deficienze che ha trovato in esse, o piuttosto nella attualmente possibile cognizione di esse; è in somma, di ripetere agli altri l’ultime e vittoriose parole che nel momento più felice dell’osservazione, s’è trovato contento di poter dire a sé medesimo. Ed è il mezzo di cui si serve la storia: ché, per storia, intendo qui, non la sola narrazione cronologica d’alcune specie di fatti [p. 336 modifica]

umani, ma qualsiasi esposizione ordinata e sistematica di fatti umani. È questa, dico, la storia che intendo d’opporre al romanzo storico; e che s’avrebbe ragione d’opporgli, quand’anche essa non fosse altro che possibile. Ma, del resto, chi non sa che ci sono molti lavori di questo genere, e alcuni lodati con gran ragione? lavori, lo scopo de’ quali è appunto di far conoscere, non tanto il corso politico d’una parte dell’umanità, in un dato tempo, quanto il suo modo d’essere, sotto aspetti diversi e, più o meno, moltiplici. Trovate forse, che, in questo ramo principalmente, la storia sia rimasta indietro da ciò che un tale intento poteva richiedere, da ciò che i materiali cercati e osservati con un proposito più vasto e più filosofico, potessero dare? che abbia trascurato d’occuparsi di certi fatti, o d’ordini interi di fatti, de’ quali non sentiva l’importanza? che non abbia voluto osservare certe relazioni, certe dipendenze reciproche di certi fatti, che pure aveva raccolti, e che ha riferiti, ma come estranei gli uni agli altri, perché, a prima vista, possono parer tali? Gridatela; ma raccomandatevi a lei, perché è la sola che possa riparare le sue omissioni. E c’è qualcheduno che, vedendo in particolare questa possibilità di far meglio, intorno a uno o a un altro momento del passato storico, si metta a una nova ricerca? Bravo! macte animo! frughi ne’ documenti di qualunque genere, che ne rimangano, e che possa trovare; faccia, voglio dire, diventar documenti anche certi scritti, gli autori de’ quali erano lontani le mille miglia dall’immaginarsi che mettevano in carta de’ documenti per i posteri, scelga, scarti, accozzi, confronti, deduca e induca; e gli si può star mallevadore, che arriverà a formarsi, di quel momento storico, concetti molto più speciali, più decisi, più interi, più sinceri di quelli che se ne avesse fino allora. Ma che altro vuoi dir tutto questo, se non concetti più obbligati?

Che se, in vece di trattar col lettore come tratta con sé, di presentare agli altri intelletti, intatta e schietta, l’immagine che, in ricompensa delle sue ricerche e delle sue meditazioni, è apparsa al suo; la ripone, per spezzarla di nascosto, e fare, co’ rottami di essa e con una materia di tutt’altra natura, qualcosa di più e di meglio; se, per renderla più animata, vuoi farla vivere di due vite diverse; se prende per mezzo ciò che era il fine; allora la ragione delle cose, la quale non sa nulla di questi progetti, ed è avvezza bensì a mantenere, e con gran puntualità, i suoi impegni, ma non quelli degli altri, non solo non permette che da un tale impasto resulti una rappresentazione più compita d’uno stato reale dell’umanità, ma nemmeno quella meno particolarizzata, che poteva resultare dal ritratto sincero delle cose reali. Ché il positivo non è, riguardo alla mente, se non in quanto è conosciuto; e non si conosce, se non in quanto si può distinguerlo da ciò che non è lui, e quindi l’ingrandirlo con del verosimile, non è altro, in quanto all’effetto di rappresentarlo, che un ridurlo a meno, facendolo in parte sparire. Ho sentito parlare (cosa vecchia e vera anche questa) d’un uomo più economo che acuto, il quale s’era immaginato di poter raddoppiar l’olio da bruciare, aggiungendoci altrettanta acqua. Sapeva bene che, a versarcela semplicemente sopra, l’andava a fondo, e l’olio tornava a galla; ma pensò che, se potesse immedesimarli mescolandoli e dibattendoli bene, ne resulterebbe un liquido solo, e si sarebbe ottenuto l’intento. Dibatti, dibatti, riuscì a farne un non so che di brizzolato, di picchiettato, che scorreva insieme, e empiva la lucerna. Ma era più roba, non era olio di più; anzi, riguardo all’effetto di far lume, era molto meno. E l’amico se n’avvide, quando volle accendere lo stoppino.

Ho serbata per l’ultima l’obiezione più tremenda e più inevitabile: il fatto. Tutte codeste, mi sento dire, saranno belle teorie; ma il fatto le [p. 337 modifica]manda a monte. Mi sapreste indicare, tra l’opere moderne e antiche, molte opere più lette, e con più piacere e ammirazione, de’ romanzi storici d’un certo Walter Scott? Voi volete dimostrare, con questo e con quell’argomento, che non devano poter produrre un tal effetto. Ma se lo producono.

Obiezione, però, tremenda solamente in apparenza; giacché tutta la sua forza è riposta in un equivoco, cioè nel chiamar fatto una cosa che si sta facendo. Che quei romanzi siano piaciuti, e non senza di gran perché, è un fatto innegabile, ma è un fatto di que’ romanzi, non il fatto del romanzo storico: che poi questa specie di componimento continui a piacere, quindi a esser coltivata, è la questione, e non il fatto. In questa, come in tante altre cose, il fatto d’un tempo non è certamente una malleveria del fatto avvenire; e gli esempi di giudizi d’un’età cassati da un’altra sono troppi e troppo spesso rammentati perché ci sia bisogno d’allegarne. Che se, rammentandoli così spesso, e con tanto compatimento, non badiamo poi abbastanza al pericolo di darne de’ novi, è perché, ne’ giudizi attuali, ci par di vedere qualcosa di più maturo, di più autorevole, di definitivo. E non c’è da maravigliarsene: sono i nostri. Per compatire quelli del tempo passato, siamo la posterità, che non è poco; per fidarci de’ nostri, siamo il secolo, che non è meno.

Tra quegli esempi notissimi, ci si permetta però di citarne uno che ha un’analogia importante col nostro argomento. Qual voga maggiore di quella ch’ebbero i romanzi storico-eroico-erotici (non saprei come chiamarli con un nome solo) di M.elle Scudéri, e d’alcuni suoi antecessori e successori meno famosi? e non già in un paese o in un secolo rozzo, poiché era la Francia di Luigi XIV. Basti la testimonianza di Boileau, il quale, nel discorso premesso al dialogo dove canzona que’ romanzi, confessa che, «essendo giovine quando facevano più furore, gli aveva letti con grand’ammirazione, come li leggeva ognuno, e gli aveva riguardati come capolavori della lingua francese5».

Sarebbe certamente una stravaganza, ancora più che un’ingiustizia, il mettere que’ lavori del pari co’ lavori di Walter Scott. Ma, con tutta la distanza che passa, non solo tra questo e quegli autori, ma anche tra le due specie di componimenti, c’è tra queste, come ho accennato, un’analogia, anzi un’identità importante: l’essere ugualmente romanzi ne’ quali ha parte la storia. E non si dica che, in que’ primi, la storia non c’era messa che per pretesto, e quasi per burla; che nessuno badava alla storia nel leggere quelle strane vicende d’amori furibondi e platonici, e quelle dissertazioni e dispute sull’amore, più strane ancora delle vicende. Si supponga un poco, che M.elle Scudéri, in quella sua Clelia già tanto letta, e ancora rammentata ogni tanto, avesse dato il nome di Virginia alla donna oltraggiata da Sesto Tarquinio; avesse fatto di Porsena II un re della Macedonia, o anche della Gallia Cisalpina; avesse fatto che, per fuggire dal campo nemico, l’eroina del titolo si buttasse a noto nell’Eufrate, o anche nel Po; e si pensi come sarebbe parso strano a que’ lettori medesimi, per altro così tolleranti. Non era in essi un’intera e assoluta indifferenza per la veracità della storia ficcata in que’ componimenti: era bensì, e solamente, una tolleranza molto maggiore di quella che ora è possibile. Badavano anche loro alla storia, leggendoli: e come no, poiché ce la volevano? Poiché, dico, s’accettavano dal pubblico, e con tanto gradimento, de’ componimenti, ne’ quali la storia entrava come [p. 338 modifica]una parte essenziale, ai quali la storia somministrava delle condizioni fondamentali, non solo di luogo e di tempo, ma di fatti e di persone; bisogna dire che in que’ componimenti si voleva la storia. E non si poteva volerla senza badarci. Solo ci si badava meno di quello che ci si badi al presente.

Ora, come è nata una tale differenza? Di punto in bianco, e da un momento all’altro? Non fu così, né poteva essere. Quella tolleranza andò gradatamente scemando: si volle sempre più storia, e in quel dipiù, una maggior quantità di circostanze storiche. E intendo qui parlare, non solo relativamente a quell’effimera e capricciosissima specie di componimenti, ma a qualunque specie di componimenti misti di storia e d’invenzione, come intendo parlare, non d’un progresso regolarmente continuo, d’una tendenza unanime, ma d’un progresso effettivo nell’insieme, d’una tendenza prevalente, facendo astrazione da quelle fermate temporanee, e da quegli accidentali passi indietro, che hanno luogo in qualunque corso d’idee e di fatti. La tolleranza, dico, andò scemando nel pubblico, e, parte in conseguenza di ciò, parte senza di ciò, ma sempre per la medesima cagione, andò scemando l’audacia negli scrittori. Fu qualche volta il pubblico (e in questo comprendo naturalmente, e come parte importante, i critici dì professione), fu qualche volta il pubblico, che, mostrando o col biasimo o col disprezzo, di non poter più soffrire un tal grado, un tal modo d’alterazione della storia, obbligò gli scrittori a metterne di più, e con un maggior corredo di circostanze reali; furono qualche volta gli scrittori, che, o meditando in astratto sull’arte loro, o sentendo, nell’atto pratico della composizione, più vivamente de’ foro antecessori o anche de’ loro contemporanei, l’importanza e la connessione del vero storico, trovarono qualche nova maniera di dargli un po’ più di posto ne’ loro componimenti. E ognuno di questi progressi speciali, sia nella teoria, sia nella pratica, poté (come accade d’ogni ripiego a un inconveniente che, in quel momento, dia più nell’occhio) esser trovato bastante. Ma dopo qualche tempo, il desiderio della verità storica, desiderio sempre crescente, per ragioni indipendenti dall’arte, e accresciuto, relativamente all’arte, da quelle modificazioni medesime, fece sentire novi inconvenienti, e cercar novi ripieghi. Ognuna di quelle successive contentature fu un fatto; nessuna, il fatto: ognuna di quelle modificazioni fu un passo; nessuna fu, né poteva esser l’arrivo. Poiché (siamo sempre lì) quale può essere il punto d’arrivo nella strada della verità storica, se non l’intera (relativamente, s’intende) e pura verità storica? Nelle cose formate di parti consentanee, ogni miglioramento d’una parte qualunque serve a render più solido il tutto; in quelle composte d’elementi contrari e incompatibili, il miglioramento conduce alla distruzione.

E con questo siamo venuti a dichiarare espressamente (cosa, del resto, implicita in tutto il detto fin qui) che, opponendo al romanzo storico la contradizione innata del suo assunto, e per conseguenza, la sua incapacità di ricevere una forma appagante e stabile, non abbiamo punto inteso d’opporgli un vizio suo particolare, e d’andar dietro a quelli che l’hanno chiamato e lo chiamano un genere falso, un genere spurio. Questa sentenza inchiude una supposizione, al parer nostro, affatto erronea, cioè che la maniera di congegnar bene insieme la storia e l’invenzione, fosse trovata e praticata, e che il romanzo storico sia venuto a guastare. Non è un genere falso, ma bensì una specie d’un genere falso, quale è quello che comprende tutti i componimenti misti di storia e d’invenzione, qualunque sia la loro forma. E aggiungiamo che, come è la più recente di queste specie, così ci pare la più raffinata, il ritrovato più ingegnoso per vincere la difficoltà, se fosse vincibile. [p. 339 modifica]

Ognuno riconoscerà senza dubbio che, per poter portare un giudizio compito sul romanzo storico, era necessario d’entrare in una tale questione. Ma siamo, certo, ben lontani dall’immaginarci che l’opinione da noi espressa su questo punto ci si passi così facilmente. Cercheremo dunque di giustificarla, paragonando l’assunto del romanzo storico con quello dell’epopea e della tragedia, e accennando le variazioni avvenute nella teoria e nella pratica di queste due principali e più illustri forme del genere, per ciò che riguarda la loro relazione con la storia. Variazioni che poterono bensì esser segnate (chi non lo sa? o chi potrebbe dimenticarsene?) da splendidi e perenni monumenti d’ingegno, perché l’ingegno imprime una forma durevole anche alle cose che non avrebbero per sé la ragion di durare; ma variazioni mosse da una cagione ben potente, poiché la bellezza sempre sentita, e l’autorità sempre viva di que’ monumenti non bastarono, in nessun tempo, a troncarne il corso. Fabbricati, non solo da mani maestre, ma in parte con istrumenti che hanno persa la loro attitudine, par che dicano a chi più e meglio li guarda: ammirami, e fa altrimenti.

Note

  1. Horat., Art. Poet. v. 411.

  2. Atque ita mentitur, sic veris falsa remiscet,
    Primo ne medium, medio ne discrepet imum.
  3. Sacri igitur vates, facta atque infecta canentes ... Vida. Poet., Lib. III, v. 112
  4. Vedi il Dialogo che segue questo discorso
  5. Les héros du roman. Dialogue. Il discorso fu scritto molt’anni dopo, e per una nova edizione.