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dove si può, i mezzi che sarebbero adattati a ottenerlo interamente, ne’ limiti delle facoltà umane, quando ci fosse la materia corrispondente. De’ fatti reali, dello stato dell’umanità in certi tempi, in certi luoghi, è possibile acquistare e trasmettere una cognizione, non perfetta, ma effettiva: ed è ciò che si propone la storia: intendo sempre la storia in buone mani. Non arriva fin dove vorrebbe; ma non ne sta volontariamente indietro un passo. Non supera, a gran pezzo, tutte le difficoltà; ma si guarda bene di crearne veruna. Vi lascia anch’essa qualche volta nel dubbio; ma quando ci si trova essa medesima. Anzi (perché a chi è nella strada giusta, tutto viene a proposito), anche del dubbio la storia si serve. Non solo lo confessa apertamente, ma, all’occorrenza, lo promove, lo sostiene, cerca di sostituirlo a delle false persuasioni. Vi fa dubitare, perché ha voluto che dubitaste; non come il romanzo storico, per avervi eccitato ad assentire, sottraendovi insieme ciò ch’era necessario a determinar l’assentimento. Nel dubbio provocato dalla storia, lo spirito riposa, non come al termine del suo desiderio, ma come al limite della sua possibilità: ci s’appaga, dirò così, come in un atto relativamente finale, nel solo atto bono che gli sia dato di fare. Nel dubbio eccitato dal romanzo storico, lo spirito in vece s’inquieta, perché nella materia che gli è presentata vede la possibilità d’un atto ulteriore, del quale gli è nello stesso tempo creato il desiderio, e trafugato il mezzo. Credo che non ci sarà alcun autore di romanzi storici, o anche d’un solo romanzo storico, a cui non sia capitato qualche volta di sentirsi domandare se il tal personaggio, il tal fatto, la tale circostanza fosse cosa vera, o di sua invenzione. E credo ugualmente, che avrà detto tra sé: Ah traditore! sotto la forma d’una domanda innocente, tu mi fai una critica velenosa: mi protesti in fondo, che il libro t’ha lasciato, anzi t’ha dato il bisogno di tirar l’autore per il mantello. So bene che è merito d’un libro il dar la volontà di sapere più di quello che insegna; ma costì è un’altra faccenda. Le cose che tu desideri di sapere sono cose di cui t’ho parlato; mi chiedi, non d’aggiungere, ma di disfare.
Non sarà fuor di proposito l’osservare che, anche del verosimile la storia si può qualche volta servire, e senza inconveniente, perché lo fa nella buona maniera, cioè esponendolo nella sua forma propria, e distinguendolo così dal reale. E lo può fare senza che ne sia offesa l’unità del racconto, per la ragione semplicissima che quel verosimile non entra a farne parte. È proposto, motivato, discusso, non raccontato al pari del positivo, e insieme col positivo, come nel romanzo storico. E non c’è nemmeno pericolo che ne rimanga offesa l’unità del componimento, poiché qual legame più naturale, qual più naturale continuità, per così dire, di quella che si trova tra la cognizione e l’induzione? Quando la mente riceve la notizia d’un positivo che ecciti vivamente la sua attenzione, ma una notizia tronca e mancante di parti o essenziali, o importanti, è inclinata naturalmente a rivolgersi a cose ideali che abbiano con quel positivo, e una relazione generale di compossibilità, e una relazione speciale o di causa, o d’effetto, o di mezzo, o di modo, o d’importante concomitanza, che ci hanno dovuta avere le cose reali di cui non è rimasta la traccia. È una parte della miseria dell’uomo il non poter conoscere se non qualcosa di ciò che è stato, anche nel suo piccolo mondo; ed è una parte della sua nobiltà e della sua forza il poter congetturare al di là di quello che può sapere. La storia, quando ricorre al verosimile, non fa altro che secondare o eccitare una tale tendenza. Smette allora, per un momento, di raccontare, perché il racconto non è, in quel caso, l’istrumento bono, e adopra in vece quello dell’induzione: e in questa maniera, facendo ciò che è richiesto dalla diversa ragione delle cose, viene anche a fare ciò