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una parte essenziale, ai quali la storia somministrava delle condizioni fondamentali, non solo di luogo e di tempo, ma di fatti e di persone; bisogna dire che in que’ componimenti si voleva la storia. E non si poteva volerla senza badarci. Solo ci si badava meno di quello che ci si badi al presente.
Ora, come è nata una tale differenza? Di punto in bianco, e da un momento all’altro? Non fu così, né poteva essere. Quella tolleranza andò gradatamente scemando: si volle sempre più storia, e in quel dipiù, una maggior quantità di circostanze storiche. E intendo qui parlare, non solo relativamente a quell’effimera e capricciosissima specie di componimenti, ma a qualunque specie di componimenti misti di storia e d’invenzione, come intendo parlare, non d’un progresso regolarmente continuo, d’una tendenza unanime, ma d’un progresso effettivo nell’insieme, d’una tendenza prevalente, facendo astrazione da quelle fermate temporanee, e da quegli accidentali passi indietro, che hanno luogo in qualunque corso d’idee e di fatti. La tolleranza, dico, andò scemando nel pubblico, e, parte in conseguenza di ciò, parte senza di ciò, ma sempre per la medesima cagione, andò scemando l’audacia negli scrittori. Fu qualche volta il pubblico (e in questo comprendo naturalmente, e come parte importante, i critici dì professione), fu qualche volta il pubblico, che, mostrando o col biasimo o col disprezzo, di non poter più soffrire un tal grado, un tal modo d’alterazione della storia, obbligò gli scrittori a metterne di più, e con un maggior corredo di circostanze reali; furono qualche volta gli scrittori, che, o meditando in astratto sull’arte loro, o sentendo, nell’atto pratico della composizione, più vivamente de’ foro antecessori o anche de’ loro contemporanei, l’importanza e la connessione del vero storico, trovarono qualche nova maniera di dargli un po’ più di posto ne’ loro componimenti. E ognuno di questi progressi speciali, sia nella teoria, sia nella pratica, poté (come accade d’ogni ripiego a un inconveniente che, in quel momento, dia più nell’occhio) esser trovato bastante. Ma dopo qualche tempo, il desiderio della verità storica, desiderio sempre crescente, per ragioni indipendenti dall’arte, e accresciuto, relativamente all’arte, da quelle modificazioni medesime, fece sentire novi inconvenienti, e cercar novi ripieghi. Ognuna di quelle successive contentature fu un fatto; nessuna, il fatto: ognuna di quelle modificazioni fu un passo; nessuna fu, né poteva esser l’arrivo. Poiché (siamo sempre lì) quale può essere il punto d’arrivo nella strada della verità storica, se non l’intera (relativamente, s’intende) e pura verità storica? Nelle cose formate di parti consentanee, ogni miglioramento d’una parte qualunque serve a render più solido il tutto; in quelle composte d’elementi contrari e incompatibili, il miglioramento conduce alla distruzione.
E con questo siamo venuti a dichiarare espressamente (cosa, del resto, implicita in tutto il detto fin qui) che, opponendo al romanzo storico la contradizione innata del suo assunto, e per conseguenza, la sua incapacità di ricevere una forma appagante e stabile, non abbiamo punto inteso d’opporgli un vizio suo particolare, e d’andar dietro a quelli che l’hanno chiamato e lo chiamano un genere falso, un genere spurio. Questa sentenza inchiude una supposizione, al parer nostro, affatto erronea, cioè che la maniera di congegnar bene insieme la storia e l’invenzione, fosse trovata e praticata, e che il romanzo storico sia venuto a guastare. Non è un genere falso, ma bensì una specie d’un genere falso, quale è quello che comprende tutti i componimenti misti di storia e d’invenzione, qualunque sia la loro forma. E aggiungiamo che, come è la più recente di queste specie, così ci pare la più raffinata, il ritrovato più ingegnoso per vincere la difficoltà, se fosse vincibile.