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parte prima | 329 |
«Qual è, mi par che vogliano dire, la forma essenziale del romanzo storico? Il racconto; e cosa si può immaginare di più contrario all’unità, alla continuità dell’impressione d’un racconto, al nesso, alla cooperazione, al coniurat amice1 di ciascheduna parte nel produrre un effetto totale, che l’essere alcune di queste parti presentate come vere, e altre come un prodotto dell’invenzione? Queste, se avete saputo inventare a modo, saranno affatto simili a quelle, meno appunto l’esser vere, meno la qualità speciale, incomunicabile, di cose reali. Ora, col manifestare una tal qualità in quelle che l’hanno, voi levate al vostro racconto la sua unica ragion d’essere, sostituendo a ciò che i diversi suoi materiali hanno d’omogeneo, di comune, ciò che hanno di repugnante, d’inconciliabile. Dicendomi espressamente, o facendomi intendere in qualunque maniera, che la tal cosa è di fatto, mi forzate a riflettere (e cos’importa che non sia questa la vostra intenzione?) che l’antecedenti non lo erano, che le susseguenti non lo saranno; che a quella conviene l’assentimento che si dà al vero positivo, e che a queste non può convenire se non quell’altro assentimento, di tutt’altro genere, che si dà al verosimile; e quindi, che la forma narrativa, applicata ugualmente all’una e all’altre, è per quella la forma propria e naturale, per l’altre una forma convenzionale e fattizia: che vuol dire una forma contradittoria per l’insieme.
«E vedete se la contradizione potrebbe esser più strana. Quest’unità, quest’omogeneità dell’insieme, la riguardate anche voi come una cosa importantissima, giacchè, dall’altra parte, fate di tutto per ottenerla. Quella lode che Orazio dà all’autore dell’Odissea:
E mentisce così, col falso il vero
Sa in tal guisa intrecciar, che corrisponde
Sempre al principio il mezzo, al mezzo il fine2.
fate anche voi di tutto per meritarla, scegliendo e dal reale e dal possibile le cose che possono accordarsi meglio tra di loro. E con qual fine, se non perchè la mente del lettore, soggiogata, portata via dall’arte, possa, diremo così, accettarle per una cosa sola come le sono presentate? E venite poi a disfare voi medesimo il vostro lavoro, separando materialmente ciò che avete formalmente riunito! Quell’illusione che è lo sforzo e il premio dell’arte, quell’illusione così difficile a prodursi e a mantenersi, la distruggete voi medesimo, nell’atto del produrla! Non vedete che c’è ripugnanza tra il concetto e l’esecuzione? che con de’ pezzetti di rame e de’ pezzetti di stagno, congegnati insieme, non si fa una statua di bronzo?»
E a questi cosa risponderemo? In verità, non trovo che si possa dir altro, se non che hanno ragione.
Un mio amico, di cara e onorata memoria, raccontava una scena curiosa, alla quale era stato presente in casa d’un giudice di pace in Milano, val a dire molt’anni fa. L’aveva trovato tra due litiganti, uno de’ quali perorava caldamente la sua causa; e quando costui ebbe finito, il giudice gli disse: avete ragione. Ma, signor giudice, disse subito l’altro, lei mi deve sentire anche me, prima di decidere. È troppo giusto, rispose il giudice: