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manda a monte. Mi sapreste indicare, tra l’opere moderne e antiche, molte opere più lette, e con più piacere e ammirazione, de’ romanzi storici d’un certo Walter Scott? Voi volete dimostrare, con questo e con quell’argomento, che non devano poter produrre un tal effetto. Ma se lo producono.

Obiezione, però, tremenda solamente in apparenza; giacché tutta la sua forza è riposta in un equivoco, cioè nel chiamar fatto una cosa che si sta facendo. Che quei romanzi siano piaciuti, e non senza di gran perché, è un fatto innegabile, ma è un fatto di que’ romanzi, non il fatto del romanzo storico: che poi questa specie di componimento continui a piacere, quindi a esser coltivata, è la questione, e non il fatto. In questa, come in tante altre cose, il fatto d’un tempo non è certamente una malleveria del fatto avvenire; e gli esempi di giudizi d’un’età cassati da un’altra sono troppi e troppo spesso rammentati perché ci sia bisogno d’allegarne. Che se, rammentandoli così spesso, e con tanto compatimento, non badiamo poi abbastanza al pericolo di darne de’ novi, è perché, ne’ giudizi attuali, ci par di vedere qualcosa di più maturo, di più autorevole, di definitivo. E non c’è da maravigliarsene: sono i nostri. Per compatire quelli del tempo passato, siamo la posterità, che non è poco; per fidarci de’ nostri, siamo il secolo, che non è meno.

Tra quegli esempi notissimi, ci si permetta però di citarne uno che ha un’analogia importante col nostro argomento. Qual voga maggiore di quella ch’ebbero i romanzi storico-eroico-erotici (non saprei come chiamarli con un nome solo) di M.elle Scudéri, e d’alcuni suoi antecessori e successori meno famosi? e non già in un paese o in un secolo rozzo, poiché era la Francia di Luigi XIV. Basti la testimonianza di Boileau, il quale, nel discorso premesso al dialogo dove canzona que’ romanzi, confessa che, «essendo giovine quando facevano più furore, gli aveva letti con grand’ammirazione, come li leggeva ognuno, e gli aveva riguardati come capolavori della lingua francese1».

Sarebbe certamente una stravaganza, ancora più che un’ingiustizia, il mettere que’ lavori del pari co’ lavori di Walter Scott. Ma, con tutta la distanza che passa, non solo tra questo e quegli autori, ma anche tra le due specie di componimenti, c’è tra queste, come ho accennato, un’analogia, anzi un’identità importante: l’essere ugualmente romanzi ne’ quali ha parte la storia. E non si dica che, in que’ primi, la storia non c’era messa che per pretesto, e quasi per burla; che nessuno badava alla storia nel leggere quelle strane vicende d’amori furibondi e platonici, e quelle dissertazioni e dispute sull’amore, più strane ancora delle vicende. Si supponga un poco, che M.elle Scudéri, in quella sua Clelia già tanto letta, e ancora rammentata ogni tanto, avesse dato il nome di Virginia alla donna oltraggiata da Sesto Tarquinio; avesse fatto di Porsena II un re della Macedonia, o anche della Gallia Cisalpina; avesse fatto che, per fuggire dal campo nemico, l’eroina del titolo si buttasse a noto nell’Eufrate, o anche nel Po; e si pensi come sarebbe parso strano a que’ lettori medesimi, per altro così tolleranti. Non era in essi un’intera e assoluta indifferenza per la veracità della storia ficcata in que’ componimenti: era bensì, e solamente, una tolleranza molto maggiore di quella che ora è possibile. Badavano anche loro alla storia, leggendoli: e come no, poiché ce la volevano? Poiché, dico, s’accettavano dal pubblico, e con tanto gradimento, de’ componimenti, ne’ quali la storia entrava come

  1. Les héros du roman. Dialogue. Il discorso fu scritto molt’anni dopo, e per una nova edizione.