Del rinnovamento civile d'Italia/Nota

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Documenti e schiarimenti - XVI Indice dei nomi

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NOTA

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«Non ho per ora alcuna intenzione di scrivere, perché, essendo profondamente persuaso che ogni mia scrittura non avrebbe la menoma utilitá, mi trovo incapace di stendere una mezza pagina». Cosi il Gioberti in una lettera al Salvagnoli del 4 decembre i8491. E a chi gli avesse predetto che, non piú di due anni dopo, non solo avrebbe giá scritti e stampati due grossi volumi, ma sarebbe stato anche costretto a dedicare la sua stupefacente attivitá a difendere dagli attacchi degli avversari il suo capolavoro politico, avrebbe risposto soltanto con uno scettico sorriso. Verso la politica, in quel momento, egli serbava, o meglio credeva di serbare, presso a poco gli stessi sentimenti che Silvio Pellico quando scriveva Le mie prigioni: quelli d’un amante tradito verso la sua antica bella; le aveva quindi giurato eterno addio. Ma temperamento troppo diverso aveva il Gioberti dal Pellico, perché la passione che lo aveva agitato negli anni migliori della sua esistenza non ripigliasse ben presto in lui il sopravvento. E poiché, data la sua volontaria condizione di esule, solo mezzo per rientrare nella lotta, giusta i suoi medesimi principi, era quello d’ imbrandire di nuovo la penna che sei anni innanzi aveva suscitato quell’incendio che si chiamò «Risorgimento italiano»; era naturale che dopo soli pochi mesi del suo soggiorno parigino gli si venisse maturando nella mente il disegno d’una grande opera politica, la quale fosse stata come la continuazione, il complemento e, ci si consenta la frase, anche l’errata-corrige del Primato.

Di ciò coi suoi amici torinesi serbò per allora il piú profondo mistero. In tutto il suo epistolario fin oltre il mezzo del i850 non [p. 366 modifica]c’è al Rinnovamento la piú piccola allusione. E soltanto mercé una congettura possiamo stabilire che egli vi lavorasse giá dall’aprile di quell’anno. Infatti il i6 aprile i850 il filosofo subalpino chiedeva a Domenico Carutti l’«indirizzo di Massimo d’Azeglio ai suoi elettori, in cui si malmenava il ministero democratico [quello presieduto dal Gioberti], e l’indirizzo del Pinelli pure ai suoi elettori, in cui si dava garbatamente del bugiardo a me ed ai miei riveriti colleghi»2. A che cosa mai gli potevano servire quegli indirizzi se non pel Rinnovamento?

Comunque, certa cosa è che nell’autunno del i850 il Gioberti doveva alacremente lavorarvi intorno. All’amico Giorgio Pallavicino, che lo invitava a scrivere una serie di articoli anonimi per l’Opinione3, rispondeva, il i° ottobre, che «le occupazioni in cui si trovava erano tali che non pativano la menoma interruzione né perdita di tempo, ed erano inaccordabili coll’opera che gli si proponeva»4. Ché anzi il lavoro doveva essere tanto inoltrato che al Le Monnier, proprio in quei giorni di passaggio per Parigi5, il Gioberti poteva giá proporre di farsi editore della nuova opera, la quale sarebbe stata compiuta al piú presto. E la promessa non era campata in aria. Due mesi dopo egli si metteva in traccia d’un altro documento, che inseriva poi tra i Documenti e schiarimenti6; e il 22 decembre i850 poteva finalmente scrivere [p. 367 modifica]al Le Monnier: «L’opera di cui le avevo parlato è tutta abbozzata, e probabilmente il primo volume [ossia il primo libro] sará al netto e pronto per la pubblicazione al principio di marzo; e nel corso della pubblicazione di esso volume avrò il tempo richiesto per ricopiare e dar l’ultima mano al secondo, che chiuderá il mio lavoro»7.

L’autografo di questo primo abbozzo (nel quale, a dir dello stesso Gioberti, c’erano parecchi brani i duali vennero poi «tagliati» nella redazione definitiva: p. e., alcune pagine laudative del Salvagnoli, del Lambruschini e di «altri valentuomini»8) non ci è giunto se non in piccola parte in un codice della Nazionale di Napoli9, ivi pervenuto mercé dono dell’abate Vito Fornari, [p. 368 modifica]i cui forse era stato regalato da Giuseppe Massari. A dir vero, piú che di un abbozzo si tratta d’una completa stesura, quasi sempre assai piú piena di quella definitiva, e che, se dal punto di vista scientifico non offre varianti che esorbitino da un’interesse di mera curiositá erudita, da quello letterario costituisce un documento di prim’ordine, in quanto mostra quale cura minuziosa ponesse il Gioberti nel curare la forma del suo lavoro, che nell’ultima redazione prese una veste toto caelo diversa e sempre molto migliore di quella adoperata nel primo getto10. [p. 369 modifica]

Ripigliando la storia esterna del Rinnovamento , nuovi documenti chiedeva il Gioberti, e stavolta al Massari, il i8 gennaio i85i11; e cioè il programma del ministero D’Azeglio, il discorso della corona e il resoconto della «tornata della Camera, in cui egli ex-ministro, diede del mentitore ai colleghi che negavano aver saputo dell’intervento»; il qual resoconto inserí anche nei Documenti e schiarimenti12. Frattanto il segreto sulla nuova opera era cosi ben mantenuto, che a Torino moltissimi domandavano al Pallavicino: — Perché Gioberti non scrive? — Al che egli rispondeva: — A quanto io so, l’altissimo filosofo s’occupa di filosofia13. — Ma piú che occuparsi di filosofia, il Gioberti, in quel momento, cercava di venire a una conclusione col Le Monnier. E gli [p. 370 modifica]riscriveva il 20 febbraio14, ponendogli come condizione sine qua non che la stampa fosse eseguita a Parigi, ove egli avrebbe potuto direttamente sorvegliarla. Soggiungeva poi: «Mi è diffícile il determinare la mole dei volumi, anzi impossibile, una parte dell’opera non essendo ancora ridotta al netto». Ma, o che la condizione apposta dal filosofo torinese riuscisse troppo gravosa all’editore fiorentino, o quale altra sia stata la ragione, le trattative tra l’uno e l’altro vennero bruscamente interrotte, e del Rinnovamento nel carteggio giobertiano fino al giugno i85i non si parla piú.

Nel frattempo, per altro, il Gioberti non solo aveva continuato a dedicarvi tutte le sue cure, ma era anche riuscito a trovare definitivamente, per mezzo del Carutti, un editore: il Bocca di Torino. A lui infatti proponeva i8 giugno i85i15 d’assumersi lo smercio della nuova opera, che egli, Gioberti, avrebbe fatta stampare a proprie spese a Parigi, dopo che il Bocca, insieme con gli amici torinesi, avesse trovati i500 sottoscrittori, ciascuno dei quali avrebbe dovuto sborsare diciotto franchi. Questa proposta autorizzava i pochi iniziati a non serbare piú il segreto; svelato il quale, fu in Torino un gran chiacchierare e arzigogolare sull’atteggiamento che avrebbe assunto il Gioberti nella nuova opera. C’era perfino chi diceva che egli avrebbe fatto mostra di sentimenti repubblicani16.Intanto la gente correva ad associarsi. «Mi farete grazia — scriveva a questo proposito scherzosamente il filosofo al suo Pallavicino17 — di pregare donn’Anna a non fare alcun invito ai codini né ai semicodini di associarsi. La loro coda non è rispettata nel mio libro, e però non conviene far loro alcuna proposta. Tanto piú che sono cosí ingegnosi e magnanimi, che direbbero che senza il loro concorso la soscrizione non avrebbe avuto luogo. Se taluno di essi, mosso da curiositá, vorrá aver l’opera, potrá scriversi presso i librai».

Senonché al Bocca le condizioni proposte dovettero sembrare troppo onerose, non per sé, ma per l’autore. Al quale, assai piú praticamente, consigliava di cedere a lui la proprietá dell’opera, mediante un compenso; ed egli poi avrebbe provveduto alle spese di stampa e a quanto fosse occorso per la vendita dei volumi. Al [p. 371 modifica]Gioberti non sembrò vero di trovare cosí onesto editore: chiese dunque diecimila franchi di compenso18, aggiungendo sempre la condizione che la stampa si facesse a Parigi, e riservandosi la facoltá di poter ristampare per proprio conto il lavoro dopo un certo tempo (che fu poi fissato in dieci anni), nel caso che volesse raccogliere in un sol corpo le proprie opere19. Il Bocca annui a tutto; e il Gioberti dal suo canto promise d’iniziare la stampa nell’agosto i85i20. E mantenne la parola. «Sto copiando la mia opera, perché la stampa ne dovrá cominciare nell’agosto», scriveva al Massari, il 5 luglio21. E il 27, al Pallavicino: «Sto mettendo al netto la mia fagiuolata, a cui in breve darò la punta»22. E finalmente, il 29 luglio, al Farini, con un gran sospiro di soddisfazione: «L’opera è compiuta»23. E ancora una volta, il 6 agosto, al Carutti: «La mia opera è finita»24.

In mezzo a questo ardente fervore di lavoro, non mancò all’autore del Rinnovamento qualche preoccupazione: nientedimeno gli si era susurrato all’orecchio che il governo piemontese, temendo chi sa quali rivelazioni e non potendo sottoporre l’opera al sindacato della censura, che piú non esisteva, avrebbe còlto il pretesto che il libro era stato stampato all’estero per farlo capitare sotto gli artigli della polizia, la quale avrebbe ben saputo trovarvi dentro tanto da vietarne l’introduzione negli Stati sardi. «Il Bocca le avrá comunicato le mie risoluzioni intorno alla censura del mio libro. Se il governo vorrá farmi questo smacco e sottoporre al sindacato della polizia la mia scrittura come si sottopongono i libri forestieri, io rinunzierei alla stampa di Parigi e, benché con mio grave incomodo, andrei a Torino come cittadino sardo e vi pubblicherei l’opera alla barba dei revisori»25. Ma dovett’essere una sciocca diceria, che il fatto poi mostrò completamente infondata. [p. 372 modifica]

Dai principi dell’agosto fino, su per giú, al 20 ottobre il Gioberti menò siffatta vita da ridurre nel piú completo abbrutimento chi non avesse avuta la sua tenace fibra di lavoratore. «Lavoro come un facchino e, ciò che è peggio, senza speranza», scriveva il 26 agosto al Pallavicino26. Giacché del Rinnovamento furono stampate contemporaneamente una editio maior in ottavo27 e una editio minor in sedicesimo28, con diversa composizione tipografica; e tutto ciò nel tempo di due mesi e mezzo e, quel che è piú, in una tipografia francese (la tipografia C. Crapelet, in via di Vaugiraud, n. 9)! Come quell’uomo straordinario sia riuscito nell’impresa, non sappiamo; certo è che, il 22 ottobre i85i29, scriveva all’abate Unia: «Avrai dal Bocca una copia del mio libro»; e il 30, al Lambruschini30: «Dall’opera mia raccoglierete», ecc. ecc.; e lo stesso 30, al Salvagnoli31: «Io non posso offrire né a voi né agli altri amici di costi la mia opera, poiché sento che il governo toscano ne ha giá interdetta l’introduzione»: il che prova che il lavoro era tutto stampato.

A Torino ne giunsero le prime copie verso il i3 o i4 novembre32. Si può bene immaginare come andassero a ruba. «Qui tutti leggono con entusiasmo il Rinnovamento civile d’Italia. E l’altro di uno de’ miei amici, visitando il Cavour, lo trovò nel suo gabinetto tutto assorto nella lettura del vostro libro»33. E ancora: «Ho letto il vostro libro, che tutti leggono a gara, plaudendo gli [p. 373 modifica]uni e strillando gli altri come anime dannate. Altro che la Frusta del Baretti! Voi non trattate la frusta ma la folgore. Oh, se vedeste la laida smorfia che fanno cadendo i poveri fulminati! L’altro dí, alla veglia del Balbo, parlavasi del vostro libro, e gli uomini municipali mordevanlo come cani rabbiosi. Il Balbo li lasciò dire: poi, girando uno sguardo sulla brigata, esclamò: — Tutto vero, ma non è men vero che il gigante vale tutti noi, poveri nani! — So che il Cavour approva in generale le vostre sentenze e sorride a molti de’ vostri giudizi. Il D[abormida] è furioso; e mi dicono ch’egli si proponga di muovervi querela per diffamazione dinanzi ai tribunali»34. L’opera anzi ebbe un lettore augusto, che non soleva di certo leggere libri di filosofi. «Siete taumaturgo. Voi faceste leggere due grossi volumi a un personaggio che non ama troppo la lettura. Non vi nomino il personaggio: dovete indovinarlo. E non solo, mi dicono, egli ha letto il vostro libro, ma lo ha in piú luoghi commentato: un doppio miracolo. In generale il libro gli piacque, e gli piacquero sopra tutto i capitoli quarto e quinto del secondo volume, dove trattasi dell’Egemonia piemontese. Dice che avete ragione, e soggiunse: — L’autore mi tratta bene, ma io non sono ancora morto...; — alludendo al severo giudizio da voi pronunciato contro Carlo Alberto»35.

Ma a voler proseguire in questo elenco di lettori piú o meno illustri, ci sarebbe da fare un libro grosso quanto il Rinnovamento. Dunque punto e basta. Giacché delle polemiche, cui esso dette luogo, discorreremo un’altra volta nella Nota al volume in cui ci proponiamo di raccoglierle.



  1. Ricordi biografici e carteggio di V. G., raccolti per cura di G. Massari, iii (Torino, Botta, i862), 454.
  2. Massari, p. 459.
  3. Lettera del Pallavicino del 25 settembre i850, in Il Piemonte negli anni i850-51-52. — Lettere di V. G. e G. P., per cura di B. E. Maineri (Milano, Rechiedei, i875). p. 44
  4. Maineri, p. 49.
  5. Ciò si desume da uua lettera del G. al Farini del i5 ottobre i850, inviatagli a mano per mezzo, appunto, del Le Monnier. Cfr. Massari, p. 479.
  6. Ossia l’atto della mediazione anglo-francese: si veda piú sopra p. 32i sgg. Mette conto narrare tutta la fatica che dovè durare il G. per procurarselo. Il 9 dec. i850 egli dunque scriveva al Pall. (Maineri, p. 62): «Avrei bisogno di avere una copia dell’atto della mediazione anglofrancese, soscritta dal conte di Revel ai i5 di agosto i848. Mi pare alcuni mesi fa di aver veduto il titolo della raccolta dei documenti diplomatici a ciò relativi, stampati in Piemonte: questa raccolta dovrebbe contenere l’atto desiderato. In caso poi che questo atto non sia ancora uscito alla luce, si potrebbe vedere di ottenerne una copia dagli Esteri; ma bisognerebbe far la domanda in modo che non si subodorasse nemmen da lontano che essa si faccia per conto mio. — Alla peggio, in difetto del documento, si potrebbe colle medesime cautele chiamare a Rattazzi, che lo lesse, quali erano le clausole relative alle basi della mediazione. Anch’io lessi l’atto quando ero ministro, e me ne ricordo benissimo; ma siccome allora la mediazione non aveva piú alcuna importanza, lo lessi una volta sola, e perciò non ho certezza assoluta di rammentarmi con esattezza i particolari. Quando l’esposto che ne facesse Rattazzi combinasse colle ricordanze che ne tengo io, ciò basterebbe ad assicurarmi che non prendo abbaglio, e non avrei piú bisogno del documento. Ma, in ogni caso, è necessario che né Rattazzi né altri penetri che l’inchiesta venga da me». — Al che il P. rispondeva il 22 dec. (Maineri, p. 65): «Cercai nella raccolta dei documenti diplomatici che voi m’indicaste; ma di essa usci soltanto il primo fascicolo, nel quale non trovasi l’atto... Allora mi rivolsi col mezzo d’un amico al signor Farini, non sembrandomi consiglio prudente il chiederne al ***, il quale avrebbe di leggieri subodorato che la domanda si facea per conto vostro. Il Farini promise di cercare fra le sue carte il bramato documento: cercò, ma indarno. Se non che io venni a sapere da quel valentuomo che il documento di cui si tratta fu stampato a Londra in un libro che reca questo titolo: Blue hook. Siffatto libro dovrebbe trovarsi anche in Parigi. Intanto col mezzo di Bianchi Giovini farò domandare al Rattazzi, che lesse il documento, quali erano le clausole relative alla mediazione». Cercò allora il G. di procurarsi il Blue book (lett. del 29 dec., p. 69), nel tempo stesso che il P. faceva interpellare, per mezzo del Bianchi Giovini, il Rattazzi, «il quale promise... il documento; ma... all’avvicinarsi delle feste se ne andò non so dove e non ritorna che domani o posdomani» (lett. del 3 genn. i85i, p. 73). Senonché il Rattazzi, quando ritornò, non riusci a pescare l’atto; sicché ne parlò al marchese Vincenzo Ricci, «il quale si risovvenne d’averne copia in Genova. Fu quindi scritto colá e si attende la risposta» (lett. del 19 genn. i85i, p. 93). E cosí finalmente, il 29 genn. (p. 103), il P. scriveva: «L’altrieri mi venne affidato il noto documento. Ieri lo trascrissi, ed oggi ve lo mando col solito mezzo. Copista fedele, copiai tutto, anche gli spropositi: ne troverete molti».
  7. Massari, p. 48i.
  8. Lett. al Salvagnoli del 20 maggio i852, in Massari, p. 600.
  9. Segn. xiv, A, 42. Consta di pp. 208 numerate dallo stesso G. Ma mancano le pp. 25-6 e nientemeno le pp. 101-200. Inoltre parecchi fogli (pp. 5-6, 7-8, 9-10, 11-12, 33-4, 45-6, 47-8, 95-6) sono tagliati o in mezzo o ai margini superiore o inferiore. Contiene i primi sei capitoli del i libro; ma si badi che i capp. ii-iii erano, in questa prima redazione, fusi in un solo, intitolato: Della rivoluzione francese del quarantotto.
  10. Non posso, per amore di brevitá, entrare in maggiori particolari. E debbo limitarmi a dare qui, in nota, a titolo di saggio, soltanto un brano di questa prima redazione, tolto dal n capitolo e corrispondente alle pp. 71-3, 75-8 del i volume della presente edizione. — «Il breve periodo corso da questa repubblica si può distinguere in tre spazi, che io chiamerei, dall’elemento che prevalse, economico, regressivo e progressivo. 11 primo si stese fino ai tumulti di giugno, e fu un conato innocente per mettere in atto certe utopie impossibili, che ebbe un fine sanguinoso e spaventevole. Quei pochi mesi mostrarono quanto i repubblicani fossero impreparati alla repubblica. Le cinque terribili giornate di giugno necessitarono la dittatura; e il sangue sparso tolse il credito alla repubblica e agevolò ai conservatori e ai fautori della monarchia il riassumere lo Stato e apparecchiare il ristauro di quella. E avrebbero sortito l’intento senza due errori capitali degli orleanesi e costituzionali, che erano la parte piú forte dei conservatori, cioè la lega loro coi legittimisti affezionati all’assoluto dominio e odiosi al popolo di Parigi, e coi gesuiti odiatissimi. Promotore ardente di questa politica fu un uomo [corretto su «il signor Thiers»], il quale non s’accorse che, cosi governandosi, ripeteva gli errori del suo precessore e rivale [corretto su «del signor Guizot»], da lui biasimato, e che voleva salvare la societá, sotto la repubblica, cogli stessi spedicnti che l’aveano rovinata sotto la monarchia; anzi che gli esagerava e aggiugneva coi traviamenti del secondo quelli del primo ramo borbonico, poiché Filippo non calò mai sí basso da abbracciarsi colla Compagnia. L’altro fu la spedizione di Roma, non giá in se stessa ma pel modo, come piú innanzi discorreremo; piú iniqua moralmente e piú assurda politicamente che l’antica spedizione di Spagna, che favori da lontano la caduta di Carlo; onde si fece in nome della repubblica e nel quarantanove ciò che saria stato soverchio sotto gli ordini del quindici. Con questi due falli enormi, che lasciano desiderar nei loro autori il senno piú volgare, cioè colla lega retrograda e gesuitica che fu il principio e colla spedizione romana che ne fu l’applicazione e l’effetto, si chiuse il secondo periodo e cominciò il terzo che ancor dura... [lacuna: tutto librano che segue è cancellato]. Vero è che il ministero Cavaignac e quello del Barrot erano disposti a aiutarci e che il loro buon volere andò a male per l’incredibile stoltezza del governo piemontese. Ma essi vollero farlo mollemente, imperfettamente, e cedettero alla resistenza subalpina, in vece di superarla. Nel che non condanno quegli uomini, ma il partito che rappresentavano. Un governo ardito e forte, che avesse compreso l’Europa e antiveduto l’avvenire, avrebbe compreso che la grandezza d’Italia è necessaria alla grandezza di Francia. Avrebbe compreso che l’antica politica, per cui l’unione e la forza della penisola era creduta nociva ai francesi, non è piú adattata ai di nostri; imperciocché la Francia non può conservare la sua potenza se non mediante la libertá, se non costituendo un Occidente libero da opporre all’Oriente dispotico e alla marittima dell’Inghilterra. Napoleone volle rifare servilmente l’opera di Carlomagno; dovecché avrebbe dovuto esser non il Carlomagno del medio evo ma quello della etá moderna, ricostituendo la nazionalitá e la libertá. Ciò che non fece il Bonaparte, ciò che non fecero i Borboni instaurati, ciò che non fece Filippo, dovea farlo la repubblica francese. Ma in vece questa segui gli errori di Filippo, degli altri Borboni, del Bonaparte, e lasciò indietro solo le loro virtú. I potentati del settentrione erano nel quarantotto impreparati a ogni evento; armi poche, indisciplinate, infedeli ; la rivoluzione in casa. La Francia potea esser arbitra di Europa. Dopo i disastri della prima campagna di Lombardia dovea andar senz’esser chiamata, accorrere a soccorso del Piemonte, costituire il regno dell’alta Italia, vincere le irresoluzioni di Pio, opporsi alla riazione napolitana, tener unita la Sicilia col Regno, opporsi ai tentativi dei demagoghi, promuover la confederazione italiana, fare dell’ Italia costituzionale una confederazione unita, forte, potente. Ma in vece fece tutto il contrario. Secondò la sciocca politica del Piemonte, fu delusa dall’Inghilterra, accettò il disegno della mediazione, si rallegrò della riazione di Napoli per gelosia del regno dell’alta Italia (passo di Massari), lasciò in alcune parti d’Italia [in margine: «Genova, Toscana, Livorno»] oratori che fomentavano scioccamente le mene dei demagoghi, lasciò che Pio stesse a lungo in Gaeta, quasi novella Avignone, e perdesse i pochi sensi di libertá che gli erano rimasi, non si oppose ai moti disordinati di Toscana e di Roma; e mentre i repubblicani francesi sinceri favorivan in Roma un fantasma di repubblica impossibile a durare, i conservatori si facevano vili strumenti dell’Austria per soffocarvi ogni libertá e ristabilire l’esoso dominio pretesco. L’intelligenza coll’Austria, che rovinò Filippo, rovinerá pure i conservatori, i quali sono si folli che lusingano e ubbidiscono a una potenza decrepita e dopo che mostrò la nullitá delle sue forze, nel mentre che l’astuta Inghilterra se ne separa. Non capi insomma questa gran veritá, pure ignorata da’ suoi precessori; che la leva della Francia per ordinare l’interno è al difuori e specialmente in Italia. La politica casalinga ed egoistica la rovinò. Le grandi tradizioni di Ermanno Richelieu sono spente».
  11. Massari, p. 490.
  12. Si veda sopra, p. 340 sgg.
  13. Lett. del Pall. del 23 genn. i85i, in Maineri, p. 96.
  14. Massari, p. 490.
  15. Massari, p. 492.
  16. Massari, p. 496.
  17. Lett. del 9 giugno i85i, in Maineri, p. 144.
  18. «Quando ricevette dall’editore Bocca 10000 franchi per la cessione a lui fatta del Rinnovamento, li rinchiuse in un cassettino del suo scrittoio e li spese a poco a poco, mangiandosi il piccolo capitale, senza curarsi di darlo a frutto, almeno in parte. Nella vita pratica era un vero bambino». Pallavicino, Ultimi momenti di V. G., in Maineri, p. 374.
  19. Lett. al Carutti del i7 giugno i85i, in Massari, p. 493.
  20. Lett. al Carutti del 25 giugno i85i, in Massari, p. 494.
  21. Massari, p. 486.
  22. Maineri, p. 149.
  23. Massari, loc. cit.
  24. Massari, p. 499.
  25. Lett. al Carutti cit., in Massari, loc. cit.
  26. Maineri, p. 152.
  27. Del Rinnovamento civile d’Italia per V. G. Tomo primo [secondo]. Parigi e Torino. A spese di Giuseppe Bocca, libraio di SS. R. M., Chamerot, rue de Jardinet, i3, i85i. Il vol. i consta di pp. xxvm-752, oltre l’errata-corrige; il ii, di pp. 862. Su questa edizione, non esente qua e lá (ma abbastanza raramente) di qualche erroruccio di stampa, non indicato nell’Errata, è condotta la presente ristampa.
  28. Stesso frontespizio dell’editio maior. Il primo vol. consta di pp. xvii-540, il secondo di 6i0. Circa posteriori ristampe del Rinnovamento, ho visto quella con la data di Losanna, i860, in 2 voll. in-8; e l’altra pubbl. a Napoli dal Morano nel 1864, anche in 2 voll. in-8. Né l’una né l’altra peccano per eccessiva eleganza e correttezza di tipi. Una parziale ristampa di 19 passi del Rinn. fu fatta col titolo: Profezie politiche di, V. G. intorno agli odierni avvenimenti d’Italia (Torino, stamperia dell’ Unione tipografica editrice, i859, pp. 46 in-16).
  29. Massari, p. 543.
  30. Massari, p. 544.
  31. Massari, p. 545.
  32. Cfr. la lett. del G. al Carutti dell’8 nov. i85i, in Massari, p. 550; e quella al Pallavicino del i3 nov., in Maineri, p. 156.
  33. Lett. del Pallavicino del i8 nov. i85i, in Maineri, p. 165.
  34. Lett. del Pallavicino del 25 nov., in Maineri, p. 173.
  35. Lett. del Pallavicino del 3 dec., in Maineri, p. 176.