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«Non ho per ora alcuna intenzione di scrivere, perché, essendo profondamente persuaso che ogni mia scrittura non avrebbe la menoma utilitá, mi trovo incapace di stendere una mezza pagina». Cosi il Gioberti in una lettera al Salvagnoli del 4 decembre 1849(0. E a chi gli avesse predetto che, non piú di due anni dopo, non solo avrebbe giá scritti e stampati due grossi volumi, ma sarebbe stato anche costretto a dedicare la sua stupefacente attivitá a difendere dagli attacchi degli avversari il suo capolavoro politico, avrebbe risposto soltanto con uno scettico sorriso. Verso la politica, in quel momento, egli serbava, o meglio credeva di serbare, presso a poco gli stessi sentimenti che Silvio Pellico quando scriveva Le mie prigioni: quelli d’un amante tradito verso la sua antica bella; le aveva quindi giurato eterno addio. Ma temperamento troppo diverso aveva il Gioberti dal Pellico, perché la passione che lo aveva agitato negli anni migliori della sua esistenza non ripigliasse ben presto in lui il sopravvento. E poiché, data la sua volontaria condizione di esule, solo mezzo per rientrare nella lotta, giusta i suoi medesimi principi, era quello d’ imbrandire di nuovo la penna che sei anni innanzi aveva suscitato quelP incendio che si chiamò «Risorgimento italiano»; era naturale che dopo soli pochi mesi del suo soggiorno parigino gli si venisse maturando nella mente il disegno d’una grande opera politica, la quale losse stata come la continuazione, il complemento e, ci si consenta la frase, anche l ’errata-corrige del Primato.

Di ciò coi suoi amici torinesi serbò per allora il piú profondo mistero. In tutto il suo epistolario fin oltre il mezzo del 1850 non

(1) Ricordi biografici e carteggio di F. G., raccolti per cura di G. Massari, hi (Torino, Botta, 1862), 454.