Del principe e delle lettere (Alfieri, 1927)/Libro terzo/Capitolo II
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Capitolo Secondo
Se le lettere possano nascere, sussistere e perfezionarsi, senza protezione.
Il solo titolo che promuove una sí fatta quistione mi pare a bella prima una cosa interamente degna di riso. Egli è lo stesso per l’appunto come il muovere quest’altra: se sia vero che abbiano esistito e scritto un Platone, un Cicerone, un Locke, e la lunga serie di tanti altri e greci e romani, ed inglesi sommi, i di cui libri rimanenti e palpabili immediatamente la sciolgono.
Ma la viltá moderna, che si fa riparo ed usbergo di se stessa, non osa pure, abbenché sfacciatissima, negare che tali lettere e sí perfetti letterati senza protezione nessuna esistessero; ma ella afferma bensí, ciò non potere oramai esser piú, vista la differenza dei tempi e degli uomini. Ed in prova di quanto asserisce, ne arreca gli esempi di diciotto secoli consecutivi; ed armandosi dei venerandi nomi di Virgilio, di Orazio e degli altri dell’aureo secolo augustano; e quindi dei nomi a noi non men cari, dell’Ariosto, Tasso, Bembo, Casa, e degli altri molti nomi benché inferiori, posti pure a confronto coi grandi del secolo leonino, ed in ultimo armandosi dei recenti nomi dei Corneille, Racine, Molière, Boileau, ed altri del bel secolo gallico; a conchiudere ne viene la moderna viltá che, senza gli Augusti, i Leoni e i Luigi, codesti sommi scrittori non sarebbero stati; e che altri simili non ne potrebbero rinascere, senza dei simili protettori.
Io discuterò da prima se non ne potrebbero esistere dei simili a questi, senza protezione veruna; quindi, se non sarebbero molto migliori, cioè piú utili, que’ sommi scrittori che in quasi nulla si assomigliassero a questi, e in quasi tutto si assomigliassero a quelli del secolo d’Atene.
E incomincio col domandare: — Qual parte dell’ingegno e del libro di Orazio e di Virgilio era loro somministrata da Augusto? — Mi si risponde: — L’ozio, e gli agi e quella pubblica stima, necessaria pur tanto al ben fare; e n’ebbero inoltre i molli costumi di una splendida corte, la puritá ed eleganza di un aureo sermone, che soltanto si può creare o perfezionare nelle corti. — Cioè (interpreto io la parola, «nelle corti») in que’ tristi luoghi, dove gli uomini, pel troppo desiderare e temere, nulla vagliono; dove, pel molto conoscersi ed odiarsi fra loro, e dal non ardirsi mostrare a viso scoperto il loro vicendevole dispregio, ne cavano i sottili e delicati modi di offendere, di lusingare, di chiedere, di negare e di prendere. E questi sottili modi dappoi (perché la tirannide, finché non è giunta al sommo, non ritorna mai indietro) dai popoli, che nascendo dopo, nascono piú schiavi ancora dei precedenti, vengono qualificati e reputati in appresso come la vera perfezione dell’eleganza del favellare.
Ecco dunque quanto può aver somministrato Augusto a Virgilio e ad Orazio. Ma poniamo che Virgilio ed Orazio fossero nati cavalieri romani, bastantemente provvisti dei beni di fortuna e altamente educati; non avrebbero essi potuto senza Augusto scrivere con la stessa eleganza, e pensare qualche cosa piú? Cosí l’Ariosto ed il Tasso, senza gli Esti, in Italia; Corneille, Racine, e Molière, senza i Luigi, in Francia? Costoro dunque avrebbero, per sé ed in se stessi, avute tutte le facoltá del loro ingegno per iscrivere, e ad un tempo tutti i mezzi che a loro venivano somministrati dai protettori; ma di piú avuta ne avrebbero tutta quella altezza d’animo che è sí necessaria al fortemente pensare, al fortemente sentire ed al dir fortemente; e questa suole esser figlia soltanto degli indipendenti natali, e questa mai non s’impara; ma questa bensí dai protettori necessariamente si viene a togliere a chi da natura l’avesse; né questa insomma si potrá mai da nessun protettore prestare a chi non l’avesse. Degli scrittori adunque simili a Virgilio, Orazio, Ariosto, Tasso, Racine, Molière, ecc., ne possono nei nostri, come in tutti i tempi, sussistere e fiorire senza protezione veruna, tosto che bisognosi di essa non nascono.
Ora, perché dunque sempre gridare che non vi sono Mecenati? che, se vi fossero... Quanto piú ragionevole grido sarebbe il dolersi che nella classe dei ben nati ed agiati uomini non vi siano degli animi forti, innestati sopra forti ed acuti ingegni: poiché chiarissima cosa è che alto animo, libere circostanze, forte sentire ed acuto ingegno sono i quattro ingredienti che compongono il sublime scrittore; ma non mai la mediocritá innestata su la protezione. Ma se pure alcuno di questi sopra nomati, avvedendosi in tempo d’avere queste quattro doti, si riscuote, e si pone all’impresa, chi può negare che quegli, senza Mecenate nessuno, il tutto fará? e che tanto maggiormente il fará che niuno protetto schiavo? Ora, perché mai questi nobili o ricchi, e non stolti, che tanto orgoglio insultatore dispiegano nella pompa del loro servaggio; perché costoro, con piú vera nobiltá d’animo, non si fanno eglino, non protettori inetti di lettere, ma valenti letterati e scrittori essi stessi, e protettori quindi efficaci della veritá e degli uomini? Ben altri mezzi avrebbero costoro nel principato, che ogni altr’uomo natovi umile e povero. Ma il timore, che maggiormente può in chi piú ha, li disvia e impedisce: oltre che il nascere, per opinione stolta, fra i primi, toglie lor quell’impulso e quel divino furore di volersi far primi per realitá. Ma se pure il timore non concederá ai nobili o ricchi di divenire nel principato sublimi scrittori di feroci veritá, qual cosa mai potrá loro impedire di assomigliarsi ai Virgilii, agli Orazi, Ariosti, Tassi, Racine e simili? Si noti inoltre che questi nobili facendosi scrittori, a eguale ingegno, tosto maggiori sarebbero di quelli non nobili e poveri: poiché, come non necessitosi e assai men dipendenti, mondati sarebbero ed essi e i loro libri dalla feccia della vile adulazione e della sfacciata menzogna.
Ma i nobili e i ricchi, nel principato, non vogliono essere (pur troppo!) né poeti filosofi, né semplicemente poeti. Quindi, vedendo io che, in tale governo, chi ha piú mezzi per coltivare le lettere meno le coltiva; e vedendo che vi si danno solamente coloro che a ciò fare hanno tutti gli ostacoli; o quelli che, mossi da un mediocrissimo impulso d’ingegno, sospinger si lasciano da un impulso assai piú incalzante, dalla necessitá, che è morte in parte del primo; verrei facilmente a conchiudere che le lettere nel principato, ancorché protette, non vi possono sussistere se non a stento, e male e posticcie; appunto per quella necessaria protezione che elle vi ricevono. Il che mi pare assai diverso dal non potere esse sussistere senza protezione.
Venendo quindi alla seconda parte del mio assunto, brevemente dimostrerò che quegli scrittori che farsi saprebbero dissimili dai sopra mentovati scrittori cortigiani, sarebbero assai migliori di essi. Chi vuole con imparzialitá riflettere ed attribuire gli effetti alle vere cagioni, ed a ciascuno restituire il suo, è pur costretto a dire che sí il nascimento come la perfezione delle lettere sono stati frutto da prima di libertá e non di principato; ma che i principi trovandosele poscia tra’ piedi, le hanno, col proteggerle, assai piú deviate al mero diletto che non accresciutele col farle piú utili. E gli esempi pure una tal cosa ci provino. Virgilio ed Orazio tolsero bensí le invenzioni ed i metri dai greci; ma da Augusto e dai loro tempi null’altro ne trassero che la timiditá e la lusinga; e non ardirei aggiungervi l’eleganza; poiché certamente questi due autori, come tutti gli altri latini, piú assai ne accattarono e ne trasportarono nel loro idioma dal greco, che non dal bel favellare di Augusto e de’ suoi cortigiani. La piú nobile parte di questi due eccellenti scrittori era dunque in loro trasmessa dalla passata greca libertá; la peggiore e la men necessaria dal loro presente servaggio.
Cosí l’Ariosto ed il Tasso, che sono pure le due gemme del nostro bel secolo, presero dai nostri antichi, Dante, Petrarca e Boccaccio, le invenzioni, i metri e di piú tutto il nerbo, il fiore e la eleganza del favellare, che giá si era perfezionato in Toscana, senza né l’ombra pure di niuna medicea protezione. Ma da essi stessi e dai loro protettori e dai tempi altro non presero l’Ariosto ed il Tasso fuorché il timore, le adulazioni, il poco e debolmente pensare. E cosí in Francia gli eleganti scrittori, benché non vi appaiano se non sotto l’apice della tirannide di Lodovico decimoquarto, non sono perciò figli di essa; ma le lettere, preparate giá nel precedente meno avvilito secolo, fiorirono poscia in quello; e, a dir vero, piú assai vi fiorirono per forza d’imitazione dei greci, latini e toscani che non per forza di protezione. Che la protezione, in somma, altro aiuto non può dare ai letterati fuorché i mezzi d’investigare, traspiantare e farsi (ma deviandole) proprie quelle lettere giá nate, coltivate e perfezionate senza protezione, nel seno della creatrice libertá.
Ma questo triplice incalzante esempio di Dante, Petrarca e Boccaccio, che non fiorirono sotto nessun principe, piú che niun altro è atto a terminar la questione. La lingua toscana si è fatta colossale in mano di questi tre grandi, che per proprio impulso scrivevano, e non protetti: nelle loro mani riuniva questa lingua in se stessa la maggiore eleganza e delicatezza alla maggior brevitá ed energia; ed ecco che la toscana, come la greca, perfezionavasi senza macchia di protezione. Ma nei due secoli susseguenti, l’italiana letteratura, essendo dai protettori traviata, poco o nulla si accrebbe la lingua quanto alla nuda eleganza, e tutto perdé quanto al sugo, brevitá e robustezza. In oltre, questi tre sommi scrittori mi vagliano anche per una viva prova della immensa superioritá degli ingegni sprotetti sovra i protetti. A volersi convincere di quanto questi tre, e massime Dante, soverchiassero tutti i nostri seguenti scrittori, sí pel robusto pensare e forte sentire che pel libero e ardito inventare e per la eleganza e originalitá di locuzione, credo che basti il metter loro a confronto l’Ariosto ed il Tasso, come i due migliori che a quello succedessero. E lascierò anche giudice colui che sará il piú parziale di questi, se ci sia in essi cosa, e massime quanto alla locuzione e al concepire, che si possa agguagliare all’Ugolino, e ai tanti altri squarci non meno perfetti, ma meno conosciuti, di Dante, ovvero ai perfetti sonetti, canzoni, e squarci dei Trionfi del Petrarca. E giudice lascio parimente ciascuno se il Tasso e l’Ariosto, scrivendo fra i ceppi di corte, avrebbero ardito mai concepire quei veracissimi sonetti del Petrarca su Roma, o le tante satiriche, ma vere e libere terzine di Dante, ed anche quel solo suo verso su Roma (Paradiso, canto XVII, verso 51):
Lá, dove Cristo tutto dí si merca.
E cosí, se l’Ariosto e il Tasso avrebbero, senza l’aiuto di quei nostri due primi, e con l’aiuto dei soli loro Esti, inventata e condotta a sí alto punto la lingua. Ma giudichi pur anche chiunque all’incontro, se quegli stessi Dante e Petrarca, nati due secoli dopo, e preceduti giá da due altri Dante Petrarchi, non avrebbero anch’essi potuto eseguire i due poemi dell’Ariosto e del Tasso, e forse qualche cosa di meglio: mentre a me par dimostrato che l’Ariosto e il Tasso, o sia per l’essere stati protetti, o per l’essere nati minori, non avrebbero potuto mai eseguire molte canzoni, trionfi e squarci liberi e forti del Petrarca, e nulla quasi del maschio e feroce poema di Dante. E mi conviene pure osservare di passo che in codesto poema di Dante era facile a chi fosse venuto dopo lui di emendare o sfuggirne le bizzarie e le incoerenze; ma non mai di agguagliarne le infinite stragrandi bellezze. E circa al Petrarca si osservi che, ancorché andasse egli vagando di corte in corte, non essendo tuttavia inceppato in nessuna, non si contaminò quindi né di adulazione né di falsitá. Attribuisco io ciò al non essere egli nato suddito di nessun di quei principi, in corte di cui praticava; al non essere i principi d’allora cosí immensamente assoluti né cosí oltraggiosamente distanti dai privati, come i nostri; poiché il re Roberto di Napoli, che poetava egli stesso, (e Dio sa come) piú amico era e compagno, che non protettor del Petrarca; lo attribuisco in fine all’animo stesso del poeta, che per non essere egli nato in servitú, ancorché perseguitato poscia dalla fortuna e bisognoso d’ogni cosa non poté pure mai in appresso in nessun modo smentire i suoi non servi natali. Il Tasso all’incontro, nato figlio d’un segretario di un principuccio di Sorrento, ancorché d’alto animo ei fosse, si trovava pure abbagliato dalla corte dei principotti Estensi, che bisognoso di tutto lo avevano raccolto.
Ma d’una in un’altra prova, e seguendo io oramai piú assai l’impeto del cuore che l’ordine delle ragioni, parmi pure che due se ne presentino a me cosí forti che bastino sole a provare l’assunto di questo capitolo. Per convincere anche i piú ostinati che degli scrittori simili a Virgilio ed Orazio ne possono pure nascere e sussistere senza protezione, basta l’esempio del nostro Petrarca. Questi, per quanto le moderne povere ed inceppate lingue ardiscano correre a prova delle due bellissime antiche, diede alla nostra una tale lirica sublimitá ed eleganza che non si andò mai piú oltre. Il Petrarca nel fraseggiare imitato con poca felicitá, e con assai minore negli effetti, non è tuttavia niente sentito né imitato nell’alto e forte pensare ed esprimersi; anzi, sotto un tale aspetto, non è conosciuto se non da pochissimi. Cosí, a convincere che degli scrittori meno simili ai sopraccennati dei tre ultimi bei secoli, ma piú simili a quelli del secolo primo d’Atene sussistere potrebbero e perfezionarsi nei moderni tempi, basti soltanto l’esempio di Dante. Se questo poeta non agguaglia sempre gli scrittori d’Atene nell’eleganza o delicatezza, o sia che nol voglia, o che nol creda necessario, o che, inventando egli stesso la propria lingua, nol possa; non resta certamente egli mai indietro di loro nella profonditá, nell’ardire, nell’imitazione, evidenza, brevitá, libertá ed energia; qualitá che quasi tutte non ammettono principato, o che certo almeno protezion non ammettono. E se in una nazione due Danti consecutivi nascessero, il secondo ritroverebbe certamente il non plus ultra della letteratura; e tali due scrittori farebbero pensare gli uomini assai piú che non dieci Orazi e Virgilii.
Da quanto ho allegato finora, o siano ragioni o sian fatti, mi pare (se pur non m’inganno) che non solamente possano sussistere le lettere e perfezionarsi senza protezione, ma che la sublimitá di esse non possa veramente sussistere sotto protezione. E di Dante mi sono prevaluto per prova, perché io molto lo leggo, e mi pare di sentirlo e d’intenderlo; di Omero, di Sofocle o di altri simili massimi e indipendenti scrittori mi sarei pure prevaluto per prova, se nella loro divina lingua mi fosse dato di leggerli. Ma in Dante solo mi pare d’aver io bastantemente ritrovata la irrefutabile dimostrazione del mio assioma; poiché Dante senza protezione veruna ha scritto, ed è sommo, e sussiste e sempre sussisterá: ma nessuna protezione ha mai fatto, né vorrebbe, né potrebbe far nascere un Dante. Potrebbe la protezion principesca bensí, dove un tanto uomo nascesse, impedirlo: pur troppo!