Del principe e delle lettere (Alfieri, 1927)/Libro secondo/Capitolo V
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Capitolo Quinto
Differenza totale che passa, quanto alla protezion principesca,
fra i letterati e gli artisti.
Ma un’altra classe d’uomini sublimi a me si appresenta, che io chiamerei letterati muti. Questi con tele, bronzi, marmi o altri simili, grandissima fama acquistano a se stessi, e moltissimo diletto, misto pur anche d’alcuna utilitá, procacciano altrui. Costoro, come imitatori anch’essi e ritrattori della natura, vanno quasi del pari coi letterati. Le opere loro vengono poste in cielo dall’opinione universale, e dagli stessi scrittori; i piú grandi tra essi vengono paragonati ai maggiori letterati. Si dice in oltre, e si crede, che l’impulso dei sommi artisti fosse assolutamente lo stesso che quello degli scrittori: talché, a stringere in una parola, le arti e le lettere sarebbero una cosa stessa; e tra Michelangelo e Dante non passerebbe altro divario che d’aver l’uno spiegato i suoi sensi con lo scarpello e pennello, l’altro con la penna e l’inchiostro.
Agli artisti sublimi io tributo quel rispetto e ammirazione tutta che loro è dovuta; ma non penso interamente cosí. E volendo io investigare il fonte di questo moderno e tardivo entusiasmo che si professa per le arti assai piú che per le lettere, principalissima cagione di esso ritrovo pur anche essere l’assoluta potenza, che non teme in nulla le arti, e quindi le favorisce; mentre le temute lettere disturba, se può, o almeno le svolge o le discredita o le impedisce. Ma pare che anche l’arti stesse, smentendo in questo nostro secolo la loro dipendente natura, concorrono a gara con le lettere a schernire la protezion principesca; poiché in questi tempi, ove elle sono pur tanto ricompensate, incoraggite e protette, elle negano assolutamente di dare nessun sommo artista, mentre pur tanti ne diedero allorché assai meno ci si pensava.
Ma tornando al mio tema, che è di provare la differenza che passa fra l’arti e le lettere, dico e sempre dirò che un ottimo quadro non volta però mai il foglio; onde egli è pur sempre un assai minore sforzo d’invenzione, di composizione, di condotta, di giudizio, di combinazioni, di abbondante e maturo pensare, di quel che lo sia un gran libro qualunque, e massimamente un poema: quindi è pur sempre assai minore l’effetto che egli produce nell’animo altrui. Che se in vece dei libri antichi greci e latini, pervenute ci fossero soltanto le greche pitture e sculture, noi certamente saremmo ignorantissimi e barbari; poiché la vera grandezza dei romani sta nelle cose che di loro ci narra Tito Livio, e non giá nel Panteon, o nel Colosseo: anzi le opere grandiose, e perciò di gran costo, fanno sempre fede di un’assoluta sterminata autoritá, di molto ozio politico e di gran corruzione. Le altre imprese al contrario, e gli uomini che lo condussero fanno fede di un popolo libero e grande.
Perciò, anche ammettendo che uno stesso impulso per diversa via spinga e il sublime artista e il sublime scrittore, si dée pure sempre anteporre l’opera di colui che ha trascelto la piú utile, la piú durevole, difficile e pericolosa impresa. Onde, a chi guarda le umane cose con occhio filosofico e sano, non ripugna affatto il confondere insieme e pareggiare i letterati e gli artisti, ma intieramente ripugna bensí il confondere o pareggiare in nulla le lettere e le arti.
E per sola prova della immensa differenza che passa tra l’effetto di quelle e di queste, si esamini imparzialmente qual cosa utile e grande potrebbe sapere, operare o pensare quell’uomo che, non sapendo leggere, né usando con gente cólta di nessuna maniera, avesse tuttavia sortito dalla natura un gusto finissimo per le belle arti, e avesse visto ed esaminato e sentito tutti i prodigi di esse. Costui al certo nulla saprebbe; e tutti i piú dotti dipinti non gli potrebbero mai aprir l’intelletto; anzi ignorandone i soggetti, non li potrebbe né intendere, né gustare. Ma, che vo io perdendo le parole in cosa che non abbisogna di prove? Dico bensí che, se l’artista stesso non si è fatto dotto quanto basta su i libri, ancorché dalla natura avesse egli ottenuto il dono del piú eccellente pennello o scarpello, riuscirá pur sempre un ignorante e mediocre pittore o scultore; né da una vera ma sterile imitazione della natura, perverrá egli mai a ricavarne quel vero e perfetto sublime a cui può giungere l’arte sua. Ogni bell’arte è figlia del molto pensare; il che vuol dir leggere o parlare con chi ha letto: poiché il pensare altro non è che il combinare il giá detto e pensato; ed una idea, che chiamiam nuova, non può essere se non figlia di cento antiche.
Tra le lettere dunque e le arti corre, a mio parere, il divario che corre tra lo sviluppo intero della facoltá pensatrice e l’esercizio della potenza degli occhi e delle mani. Si può benissimo non aver visto mai quadro ed esser Dante, e farne dei maravigliosi con poche righe d’inchiostro; ma non si può essere Michelangelo, senza avere in molti Danti imparato a pensare, inventare e comporre.
E a voler provare questa primazia delle lettere, non solo su le arti mute, che troppo chiara cosa ella è, ma anche su tutte le cose grandi e grandissime che gli uomini possono eseguire, si dimostri soltanto che lo scrivere è la sola arte che basti a se medesima, e il di cui artista ritrovi tutta in se stesso la materia per eseguire. Onde, non solamente il pittore, scultore e architetto, abbisognano di tele, di colori, di marmi, e di chi loro commetta e paghi il lavoro; ma il legislatore, il politico, il capitano, ove non abbiano e stato e popolo e soldati, nulli affatto per se stessi riescono; o, se pure adombrare vogliono i lori vasti e negati disegni, si fanno scrittori; e cosí all’immortalitá arrivano per via piú lenta ma piú durevole. E non mi si dica che appunto per lo aver tutto in se stesso, lo scrittore abbia piú facilitá, che non è per certo cosí; anzi tanto è severo il mondo per gli scrittori, che ai soli eccellenti accorda la fama; in vece che anche ai non sommi artisti ne accorda pure una certa; perché un quadro, una statua, una reggia od un tempio, ancorché non siano eccellenti, non costano però niuna fatica a chi li rimira, e di alcun utile riescono a chi se ne prevale. Cosí anche una certa fama si accorda ai legislatori benché mediocri; ed una, ma assai meno durevole, ai capitani felici. Tanto può piú, presso al comune degli uomini, il fare che il dire. Non pensano essi che il dire altamente alte cose è un farle in gran parte; e che per lo piú chi ben disse, in paritá di circostanze, di tanto avrebbe superato chi ben fece di quanto dovea il dicitore aver avuto un ben maggior impulso per darsi interamente ad esaminare, conoscere, innovare o rettificare una cosa da cui, non potendola egli eseguire, niuno altro frutto per allora sperava che la semplice gloria d’averla ben ideata e ben detta. Non si può fortemente ritrarre ciò che fortissimamente non si sente; ed ogni gran cosa nasce pur sempre dal forte sentire. Esemplifico e domando: Omero in paritá di circostanze non avrebbe egli potuto essere quello stesso Achille o quell’Agamennone o quel Priamo che con tanta fantasia, con tanta dignitá e veritá egli immagina e ritrae? Ma Omero è maggiore assai di costoro nella piú lontana memoria degli uomini, perché, oltre la possibilitá che si vede in lui di far cose grandi in valore ed in senno, riunisce anco in sé la divina arte di ben inventarle e di ottimamente colorirle ed esprimerle.
Io perciò credo che lo scrittore grande sia maggiore d’ogni altro grand’uomo; perché oltre l’utile che egli arreca maggiore, come artefice di cosa che non ha fine e che giova ai presenti ed ai lontani, si dée pur anche confessare che in lui ci è per lo piú l’eroe di cui narra, e ci è di piú il sublime narratore. Ed in fatti, gli eroi nati dopo quell’Achille (interamente forse fabbricato nella testa d’Omero) tutti vollero piú o meno rassomigliarsi a lui. Ma se un eccellente scrittore vuol dipingere un eroe, lo crea da sé; dunque lo ritrova egli in se stesso. L’uomo in somma non può perfettamente inventare e ritrarre ciò che egli non potrebbe (avendone però i mezzi necessari) eseguire; ma può bensí l’uomo eseguire ciò che ritrar non saprebbe. Onde io nell’esecutore di una impresa sublime ci vedo un grand’uomo; ma nel sublime inventore e descrittore di essa, a me pare di vedercene due.
Ritornando ora al mio proposito (da cui pure mi son forse dilungato assai meno di quel che si paia) dico che se innegabil cosa è che lo scrittore di cose sublimi debba essere di sublimissimo animo, e ch’egli abbia tutti in se stesso i mezzi dell’arte sua, innegabilissima sará ch’egli disonora l’arte e se stesso, cercando o ricevendo protezione o soccorsi di cui non ha egli bisogno; poiché i suoi mezzi per eseguire sono semplicemente poca carta, inchiostro ed ingegno; mezzi che nessun principe gli può dare, se a lui gli ha negati natura. Ma non è giá delle arti cosí. Da prima, per esser elle opera di mano, raramente vi si acconciano persone altamente educate, ed agiate dei beni di fortuna; poi, perché l’esecuzione di esse riesce faticosa, dispendiosa ed incomoda, non ne può essere mai indipendente l’artefice. E in fatti la pittura, che pure è la meno incomoda di tutte le belle arti, si può ella vantare di aver avuto mai alcuno eccellente artefice che prezzolato non fosse? Una cosa che si fa per vendersi abbisogna di compratore; ed ecco tosto la dipendenza e servitú di quell’arte. E benché si vendano anche i libri, si possono pur farli senza venderli; e prima della stampa cosí accadeva per lo piú. Ma un pittore che abbia e molto e bene dipinto per serbare o donare i propri quadri non vi è stato mai; cosí, né scultore delle sue statue, e molto meno architetto; ché questo artefice piú di tutti ha bisogno d’altrui per esercitar l’arte sua, ove però non si voglia egli contentare di dar vita alle sue idee nei semplici disegni.
La musica, nobilissima arte anch’essa, e la prima forse per muovere e per esprimere (benché passeggeramente) le passioni tutte e gli affetti; la musica potrebbe, in un certo aspetto, bastare ella pure a se stessa. Ma nei nostri tempi da alte persone non viene esercitata se non per proprio diletto; in oltre, le sue creazioni abbisognano pure d’esecutori, poiché quelle carte notate sono mute per se stesse, se a farle parlare non vengono gli strumenti. E la musica, vocale che dée pur preferirsi a tutte l’altre, le quali altro non sono che una imperfetta imitazione di essa, la musica vocale è schiava nata dello scrittore; ed anzi (come giá era in Grecia per lo piú) non si dovrebbe ella mai scompagnar dal poeta.
Si lascino dunque proteggere dai principi queste quattro arti, che per se stesse o sussistere non possono, o non abbastanza fiorire; e che, anzi, dalla protezione e dai premi ottengono incoraggiamento e miglioramento, senza che all’artefice ne scemi punto la fama. Ma le alte e sacre lettere sdegnino, abborriscano e sfuggano ogni protezione, come a loro mortifera; poiché pur tanto debbono elle scapitarvi, e per se stesse e per gli artefici loro.
I principi, senza avvedersi forse della vera ragion che li muove, ricompensano in fatti le arti, e le fanno anzi stromento della loro grandezza. Non possono dissimulare a se stessi che una vasta e bene architettata reggia in cui, fra loro e i ben ideati arredi, campeggino molti dipinti e statue sublimi, ella è la maggiore e la piú nobile parte del loro essere. Ben sanno i principi che la stoltezza del volgo reputa veramente grande colui che in mezzo a cose preziose e grandi si ricovera. Ma sfuggono essi bensí di proteggere, di ricompensare e d’accogliere i veramente alti scrittori; perché, al confronto di questi, appariscono vie piú sempre minori essi stessi. Se il tiranno Dionisio avesse albergato nella sua reggia Platone, chi avrebbe piú badato a Dionisio?
E benché la scultura e pittura con una certa maschia libertá e filosofia possano lumeggiare i piú utili tratti della storia antica, e consecrare le piú libere imprese, nulladimeno, come arti mute, elle vengono lasciate fare e di esse poco si teme. Un principe non dará forse per tema ad un pittore la morte di Lucrezia, ma pure ne ricompenserá l’autore, e ne collocherá il quadro nella sua reggia, ancorché il gran Bruto col ferro in mano, e pien di mal talento contra i tiranni, nel quadro primeggi. Ma quello scrittore che sovra Bruto dicesse tutto ciò che l’eccellente pittore dée e vuole farne pensare e che la maestá di un tanto uomo richiede, non sarebbe certamente né egli né il suo libro egualmente ricompensato ed accolto nella reggia. E ciò perché? Perché assai piú dicono sopra Bruto le poche parole di Livio di quello che mai esprimerá o fará pensare un Bruto dipinto, o scolpito; e il fosse pur anco da Michelangelo stesso, il quale solo era degno di ritrarlo. E le parole di Livio son queste: «Iuro nec illos, nec alium quemquam regnare Romae passurum»1.
Note
- ↑ «Giuro, che né i Tarquini né uomo altro nessuno lascerò io giammai in Roma regnare». Livio, lib. I.