Del principe e delle lettere (Alfieri, 1927)/Libro secondo/Capitolo IV
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Capitolo Quarto
Come, e fin dove, gli uomini sommi possano assoggettarsi agli infimi.
Ma pure, quella smania stessa che tormenta l’uomo, e lo sforza a tentare di farsi superiore ai suoi simili per via dell’opere d’ingegno, spesso anche lo martira sotto altri men nobili aspetti, inducendolo a tentare di superarli negli agi, nella ricchezza e nel lusso. Il grand’uomo è pure uomo; e quindi picciolissima cosa è anch’egli; e quindi, in mezzo al piú sublime delirio di vera gloria, ammette anch’egli benissimo il desiderio d’una migliore mensa, di un comodo cocchio e in somma d’una piú delicata e morbida vita. Anzi, la vita letteraria ha in sé questo veleno che, sfibrando ella il corpo, l’animo ammollisce non poco. Da questo provengono quei tanti immoderati desideri di migliorar sorte, che o tutti poi o in parte identificandosi, minorano di cosí gran lunga l’intrinseco pregio e la fama del letterato. E in queste o simili puerilitá, sentendomi io piú uomo che ogni altro, mi mostrerei pure stolido e superbo, se a tali naturalissime debolezze non compatissi. Ma, ciò non ostante, io sempre ridico ciò che sopra giá ho detto: che questa voglia di migliorar sorte può adattarsi, e non pregiudica, a qualunque altro mestiere; ma ch’ella è mortifera all’arte delle lettere. Io perciò consiglierei di farsi scrittori a quei pochi soltanto che non hanno bisogno, o non vogliono migliorare il loro stato quanto alla ricchezza; e a chi non si trova in queste circostanze consiglierei pur sempre di prescegliere ogni altra arte a quella dello scrivere.
Nulladimeno, per non escludere pure cosí assolutamente di mia propria autoritá dalle lettere i bisognosi di pane o di superfluitá, voglio imparzialmente, e con lume di sana ragione, esaminare se un letterato vero possa lasciarsi proteggere da un uomo piú potente di tutti, e fino a qual punto; ciò viene a dire come e fin dove il piú sommo uomo possa assoggettare se stesso al piú infimo. E, a voler provare che questi due opposti in superlativo grado sian veri, basta porre in contrapposto i nomi di eccellente scrittore e di principe. Quegli, se veramente degno è di un tal nome, dev’essere l’apice della possibilitá umana; questi, se nato è ed educato al trono, dev’essere il piú picciolo prodotto di essa, e lo è quasi sempre. In una tale aderenza dunque, passiva affatto per parte dello scrittore, ci fa egli piú guadagno il principe o piú scapito il letterato? Si esamini.
Che può egli dare il principe allo scrittore? onori, parole, ricchezze; cose tutte, che da lui possedute in copia, nulla gli costano e nessuno ingegno richiedono per darle altrui; vi sarebbe pur quello di discernere il merito; ma siccome non lo fanno presso che mai, né possono né debbono farlo, io prescindo interamente da questo. Che dá egli in contraccambio al principe lo scrittore? s’egli è poeta, lodi; se istorico, menzogne; se filosofo, falsitá; se politico, inganni; e cosí di qualunque altra provincia egli sia, (toltone però sempre le scienze esatte, di cui parlerò a suo luogo) il letterato a ogni modo non può mai piacere né guadagnarsi né scontare il suo debito col principe, se non sacrificando o interamente o in parte la veritá, e quindi l’utile di tutti, al lustro e al soverchiante potere di un solo.
Ed a ciò dimostrare, parlino per me i fatti. Socrate, Platone, e l’immensa turba di greci filosofi; Omero, Eschilo, Demostene, Sofocle, Euripide, e tanti altri ottimi antichi scrittori non cercarono costoro di piacere a principe nessuno; e quindi il loro divino ingegno se n’andò esente ed illeso dalla terribile protezion principesca. Cosí fra i moderni che hanno veramente illuminato il mondo, sviscerando la facoltá e i diritti dell’uomo, Locke, Bayle, Rousseau, Machiavelli; e fra quelli che l’hanno dilettato con utile, Dante, Petrarca, Milton e pochi altri, non ebbero costoro nulla che fare con principi. E, se pure alcuni degli ottimi ve ne furono, maculati di corte, come Molière, Corneille, Racine, Ariosto, Tasso, ed altri pochi, che la sublimitá del lor temere e adulare colla sublimitá del loro immaginare e scrivere rattemprarono; convien pur confessare che per tutto poi dove essi possono mostrarla, traluce la loro indegnazione contra le circostanze, contra i principi e contra se stessi; spessissimo deplorando la necessitá che gli aveva fatti schiavi. Ma, siccome chi legge tien conto all’autore del solo suo libro, e non di veruna sua privata circostanza (poiché se egli non avea la libertá dell’alto scrivere, avea pur sempre quella del nulla scrivere) da ciò ne risulta, che codesti autori vengono giudicati minori di se stessi, appunto di quel tanto che vilmente sagrificarono al proprio timore e all’altrui forza; ciecamente vendendo il loro intelletto, il lor tempo, i loro costumi, a quegli insultanti benefattori del corpo loro, ma micidiali ad un tempo fierissimi della lor fama.
Io dunque penso e conchiudo che il letterato tanto piú va perdendo delle sue intellettuali facoltá, quanto piú accresce egli stesso la sua dipendenza, qual ch’ella sia. E per contrario, conchiudo che tanto piú l’animo, il pensiero, e lo scrivere gli s’innalza, quanto egli piú si fa libero e sciolto da ogni qualunque risguardo o timore; toltone però sempre quello di non offendere le giuste leggi e gli onesti costumi.
— Ma il letterato potrebbe pure ricevere un’altra protezione assai meno insultante, qual è per esempio quella di un suo eguale ed amico; ora, perché dunque non potrá egli riceverla dal principe, quasi da un suo amico privato? — Rispondo: — Il dipendere da un uguale può bensí molto amareggiare la vita allo scrittore, ma non può influire affatto sul pensare e scrivere suo; poiché quell’eguale od amico può pur pensare com’egli sulle cose umane, e non abborrire né temere la veritá che a lui può giovare altresí come a tutti. Ma il principe non ha né amici né uguali; e non può mai essere nel sopraddetto caso.
In nessun’altra maniera dunque potrebbe il letterato lasciarsi protegger dal principe, senza guastare né sé, né il suo libro, né la sua fama, fuorché cavandone quelle tanto desiderate necessitá superflue della vita, vivendo ad un tempo sempre fuori degli stati suoi, e non gli facendo mai capitare alcun de’ suoi scritti. Questa inurbana e stravagante aderenza, che io do per una pura chimera, prova bastantemente che sotto niuno aspetto vi può essere commercio onesto e legittimo fra il letterato ed il principe. Ma posto pure che un tal principe proteggente e non inquirente potesse esistere, quel letterato che ne trarrebbe mercede, senza null’altro restituirgli che oltraggi, (lo scrivere il vero è un continuo oltraggiare chi vive del falso) non vi scapiterebbe forse come scrittore; ma moltissimo vi scapiterebbe come uomo onorato, in riga di gratitudine. Non si può onoratamente cercare di nuocere a chi ti giova; e come si può egli scrivere un buon libro qualunque, che alle massime, all’esistenza, e al potere del principe non contraddica? e che quindi non lo offenda? e che quindi, in tutto o in parte, immediatamente o col tempo, non gli riesca dannoso?
Tra il principe dunque e il letterato vero, che facciano e sappiano amendue l’arte loro, non vi può essere comunanza, né reciprocitá, né armonia, né assolutamente legame nessuno giammai.