Deifira/Dialogo
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DEIFIRA
Pallimacro. E quanto stimi tu sedere dentro a me grave quel dolore, el quale ancora tanto prema chi da lungi il mira? Quello incendio certo conviene sia pur grandissimo, il quale dentro a più muri inchiuso ancora nuoce a’ prossimi edifici. E non volere, Filarco mio, da me ora quello che la fortuna mia tanto iniqua mi vieta ch’io possa. A me conviene avvezzare me stessi a quello in che omai, mentre che io viva, sarà necessario continuo essercitarmi, acciò che questo uso in me renda meno aspro quel che ora troppo m’è acerbo. Fuggono i sospiri miei altrove che ivi sempre essere ove in me arde il mio dolore; e le mie lacrime cadendo pel seno tornano onde furono premute al cuore. E questo mio dolore come cosa feroce e troppo mordace, quanto più dentro al mio petto starà rinchiuso e in oscuro nascoso, tanto forse dismetterà suo impeto e rabbia.
Filarco. Io, vedendo te così solo errare fra queste selve tanto afflitto, non potea, Pallimacro mio, non maravigliarmi molto, disiderando sapere onde in questo fronte tuo, sempre in altro tempo lietissimo, ora subito così fosse tanto indizio di superchio dolore. Tu giovine, bello, ricco, gentile, destro, virtuoso, e più che qualunque altro di tua età e fortuna amato da tutti e riverito; cognoscoti prudente, studioso, e in ogni laude e gentilezza tale, che io in me mai saprei desiderare felicità altra che questa, quale a te ave o la fortuna o la virtù tua concesso e acquistato. So quanto me stimi fra tuoi fidatissimi amici. Per questo a me parse o debito o licito richiedere da te che tu a me, come ad amico, imponessi parte di questi tuoi incarchi, quali così te atterrano in tristezza e miseria. Ed emmi teco intervenuto qual suole chi appresso il fabro ben dubitava quel ferro fussi inceso, ma per più certificarsi il prese e molto si cosse la mano. Così a me: ove io pure stimava in te essere qualche non piccola molestia e ardentissima cura d’animo, ora io la sento in questa tua risposta tale ch’ella troppo mi cuoce, e quanto ella sia maggiore, tanto più a te desidero levarla. Non è solo utile, ma più virtù levarsi dall’animo le cose moleste; e dove il dolore superchi le nostre forze, se gli vuol cedere, poichè così solo il dolore si vince fuggendo. E tu stima quanto giovi non tenere il corso a quella ruota, sotto la quale stia il piede tuo premuto. Ma poichè a te mai fu cosa sì cara della quale negassi me esserne, quanto io volessi, participe, qui, se questo tuo dolore a te pare caro, fanne, qual suogli, a me, come ad amico, parte. E se t’è molesto, non dubitare che forse noi due insieme potremo quello che tu solo non puoi. Per certo io ti sarò in aiuto o a consiglio da qualche parte utile a vincere l’avversità o a sofferirla.
Pallimacro. Ohimè, Filarco! Nè oro nè gemme nè qual si sia grandissima ricchezza possono a’ mortali rilevare il dolore. E resta, Filarco, resta meco fare come a chi cade l’anello di mano in quello pelago, quale quanto più si trassina, più si intorbida e meno si scorge a ritrovarlo. Quanto più cercherai conoscere le mie profonde miserie, tanto più a me rimescolerai l’animo, e meno da me le potrai discernere. Nè cercare qui essermi utile in altro che in aiutarmi piangere, poichè la fortuna così di me dispone.
Filarco. Ohimè, Pallimacro! Non piangere più. Rammentati in quanti modi tu hai altrove vinta la fortuna con animo virile e fortissimo. E che giova tanto dolersi de’ casi avversi, se non ad aggravare e fare maggiore quel che troppo ti spiace? Lascia questo officio alle femmine, le quali solo sanno fingere e lacrimare. Vedi una minima ferita non governata quanto non rado diventi mortale, e qual si sia ferita profonda con aiuto e studio altrui spesso si sani. Io sento in sue avversità gli altri, per onestare il dolore suo e non parere d’animo enervato o femminile, accusare o la iniquità di suoi nimici, o la perfidia di chi si sia, o la ingiuria della fortuna, e molto avere caro che più e più persone sappino quanto e’ sieno indegni di tanta calamità, e in quel modo sfogano le fiamme della sua incesa ira e cocente dolore. Tu ora da chi ti chiami tu offeso? Quale ingiuria ti sta qui tanto molesta? Quale stimolo te tanto punge ad urtare te stesso con sì ostinato dispiacere e acerbità d’animo?
Pallimacro. Misero me! Misero me! Quanto i miei pensieri in me sono gravi, tanto più stanno profondi e meno li posso risollevare. L’onda che surge fuori del sasso, discopre e muove le piccole petroline; le grandi stanno, e quanto maggiore onda sopraggiugne, tanto più si coprono di minuta ghiaia. Tu con questo argumentare, quanto maggiore fiume d’eloquenza effunderai, tanto più mi darai materia da ricoprire quello ch’io nè voglio nè posso discoprirti.
Filarco. E qual sarà in te cosa da non poterla comunicare con chi t’ama? E quale segreto sarà sì dubbio che non si debbi aprire all’amico? Abbi ch’io potrò riputarti non amico, se tu mosterrai poco fidarti di me. Chi non si fida teme essere ingannato, nè si può amare colui in cui tu tema essere perfidia. E chi non ama per certo non può essere amato. Il seme dell’amicizia sempre fu amare, onde poi si prende frutto quando pari te senti essere amato. E chi conosce sè, quanto da me ti senti, molto amato, per certo erra non si porgendo amico e aperto a chi l’ama. L’amicizia vuole fede e merito. Non manchi in te fede, tu mai da me arai che desiderare cosa quale io per te possa. Sempre me arai pronto a meritare da te benivolenza e grazia. Ora o piacciati o dispiacciati, io voglio sapere che doglia ti prema. Benchè all’infermo dispiaccia quello che lo sana, pure si vuole prima sodisfare alla ragione che al suo giudicio e falso gusto.
Pallimacro. Io amo, Filarco. Io ardo, Filarco. Io spasimo amando.
Filarco. Ora bene in tutto scorgo io vero quel che si dice, che uomo si trova mai tanto felice, in cui non sia molta e molta parte di miseria. In te ogni cosa concorre a molto adornarti di felicità: patria, parenti, amici, ricchezze, grazia, e fra queste vedi in che modo la fortuna immetta quel che disturbi ogni tua dolce vita e riposo d’animo, e fa in te un minimo pensiere tanto essere grave e molesto, che soprapesa, nè lascia te gustare parte alcuna della tua grande felicità. E quale errore ti teneva a non volere ch’io sapessi quello che ora gioverà avermi detto? Ma sempre fu il primo comune errore, in quale peccano tutti gli amanti poco prudenti, che quello che e’ cercano più occultare, quel medesimo con loro guardi e sospiri a tutti discoprono sempre ove non giova, e dove gioverebbe discoprirsi, ivi fuggono fidarsi di chi loro può essere molto utile. Nè so come a chi ama tacendo pare dolce il suo dolore. L’amore in uno giovane non si biasima. Anzi come a’ nostri corpi umani sono vaiuoli, rosolie e simili mali comuni tanto e dovuti, che quasi troverai niuno invecchiato sanza averli in sè provati, così pare a me sia all’animo destinata questa una infermità gravissima certo e molestissima, quale possa niuno quando che sia non sentire. E beato chi pruova le forze d’amore in età giovinile sanza perdere le sue magnifiche imprese e ottimi principiati studi. Beato chi ne’ teneri anni provando impara fuggire amore. Sogliono e’ vaiuoli più nuocere agli occhi annosi che a’ fanciulleschi. Così per lo amore più pare s’accechino le menti ferme e virili che le puerili e leggieri. Una medesima fiamma incende un tronco annoso, quale a pena abronza uno ramo verzoso. E si vuole in questa età amando discoprirsi onesto amante, poichè amore mai fu chi potesse tenere ascoso. Nè si truova chi cerchi sapere le cose palesi. Vero, ma ciascuno quasi da natura disidera più investigare quello che sia occulto. Nè giova in sè d’ogni minima cosa sospettare, però che alle grandi imprese poco nuoceno i piccoli impacci. E benchè forse da qualche parte sia da sospettare, mai però si vuole mostrarsi sospettoso, però che il tuo sospetto insegna sospettare altrui. Sempre fu il sospetto indizio di mala mente. Mostrare d’amare dolce e onesto mai fu nocivo e mai dispiacque, ma mostrarsi vinto da troppo amore sempre fu dannoso, non tanto appresso gli altri suoi, quanto appresso di chi tu ami. Questo costume troverai in ogni femmina, che mai amerà chi troppo ami lei. Stimano le femmine servo, non amante, chi troppo loro stia suggetto, e godono non della molta affezione di chi loro sia troppo ubidiente, ma del servigio, e per non perdere il servigio, mai sofferano lo infelice amante esca di tormento. Anzi per bene averlo suggetto, ogni dì porgono nuovo dolore. Ma dimmi, questa quale tu ami, merita ella essere amata da te, però che sarebbe troppo biasimo amare persona di che tu avessi arrossirti quand’ella ti fussi in presenza lodata?
Pallimacro. Oh felice chi può amare e non amare a sua posta! Io nè potei fare ch’io non amassi, nè posso restare di dolermi amando. Non, Deifira mia, non, Deifira, non meriti essere amata da me. Tu bella, tu gentile, tu leggiadra, sì, ma troppo sdegnosa, troppo ostinata, troppo sospettosa, poco pietosa. Uno piccolo ghiaccio in una preziosissima gemma la ’nvilisce, e un atto sdegnoso disonesta ogni bel volto. E benchè tu così mi sia inimica, oh Deifira mia, tu pure mi se’ cara. E bench’io mi dolga esserti con mie lacrime gioco, pur mi piace contentarti d’ogni mio male. Tu così vuoi, e io tanto posso sofferire dolore quanto a te piace. Così amore m’ha insegnato offerirmi a qualunque oltraggio. Quando che sia, piangerai tu, Deifira mia, quando che sia, piangerai avere straziato me, in chi tu conoscerai fede e amore più che in persona qual mai fossi, qual sia, qual mai possi essere. Mai fu, Deifira mia, mai fu, mai sarà chi tanto e con sì ferma fede ami quanto io amo te, e amerotti certo mentre ch’io viva; ancora e morto ti seguirò amando. Ma tu tardi piangerai esser tanto tempo indarno da me stata amata. Ohimè, con quante lacrime desidererai il dolce perduto tempo e sollazzo!
Filarco. E questo altro errore mi pare non piccolo in chi ama, che mai restano tra se stessi pregare, lodare e dolersi a chi non l’ode, e poi in presenza dimenticano se stessi, stupefanno, diventano muti, o solo dicono cose di che poi s’adolorano averle dette. E si vuole fra sè prima pensare che atti, che guardi, che parole, in che modo ogni minima cosa sia meglio e più utile a te e più accetto a chi tu ami, e mai esserli in cosa alcuna ben minima se non grato e giocondo: tacere non troppo, parlare non superbo, chiedere gentile, ascoltare grazioso, rimirare dolce, motteggiare festivo, sollazzare vezzoso, e in ogni cosa usare facilità, costume e leggiadra maniera, e piacerli in qualunque virtù di te possi mostrarli, profferirteli tale ch’ella non ti sdegni, partirsi tale ch’ella ti disideri, ritornare ch’ella s’allegri vederti, udirti, e rimirarti, sempre lasciarli che pensare di te cosa pur lieta e amorosa, e così sempre seguire pascendo amore di dolci e giocondi ragionamenti. Ma dimmi, Pallimacro, in che modo cadesti tu in questo amore? Cercasti tu il male tuo, com’io vedo fanno molti, che per tutto porgono gli occhi a qualche nuova ferita?
Pallimacro. Io nè cercava nè mi piaceva intrare sotto questa servitù, quale ora pruovo e prima da te avea udito troppo era grandissima. Ma certo i nostri animi qualche volta non sono nostri, e qualche volta ci conviene volere cosa che ci duole. Quanto io, affermo questo, che sforzato mi convenne amare. Amai contro a mia volontà, volli quello che mi dispiacea, e dispiacevami quello che al continuo pronto facea e dicea. Nè però io restava di seguire dove la fortuna mia me conduceva in tanta miseria in quanta ora mi truovo. Qui m’ha condotto la fortuna mia. Ma quale uomo fussi sì duro, il quale non amassi sentendo sè essere amato, quanto certo io in molti modi conobbi me molto essere amato?
Filarco. E qui ancora peccano i giovani, i quali stimandosi degni d’essere amati, subito giudicano ogni minimo sguardo venire da grande amore. Sono e’ segni di vero amore cangiare colore, rimirare fiso cadendo col sguardo dolce a terra, raccorsi sospirando.
Pallimacro. Molto più che questi erano certi segni d’amore quegli e’ quali mi vinsero ad amare. Oh Deifira mia, a te ogni mio atto, ogni parola, ogni cosa mia piaceva. Tu fra le genti con gli occhi mi ricercavi da lungi; tu mai eri sazia di lodarmi a tutti e proferirmi; tu, quanto io era dove tu fussi, mai ti pareva se non poco guardarmi in fronte ridendo e ragionarti meco. E quanto spesso, tristo me, vidi te rimanere addolorata, ove io da te mi dipartia. E quante cagioni non raro fingesti per ritrovarti dove io fossi. E quanto sospirando spesso accusasti me, che sì tardo fussi ad amarti. E io, misero me, misero me, non so quale allora presagio di miei ch’ora soffero mali m’impauriva, onde forse giudicasti che io fuggissi te, Deifira mia, il quale ora ti seguo piangendo. Oh infelice me! Io dandoti più scuse, Deifira mia, così t’insegnai quanto ora sai troppo straziarmi. Oh Pallimacro sfortunato! Che sciagura fu la tua fabbricare e porre in mano l’arme a questa spiatata, con che ora ella mai si senta sazia d’accorarti! Questi qual soffero, tutti sono miei colpi; queste piaghe mortali sono in me da’ primi miei errori. Imparate, amanti: non ubidite amore men che vi chiegga. Più che gli altri piace quel destriere qual corre sanza troppe spronate. E chi fa quel che non vuole, soffera due mali: quanto s’afatica, e quanto gli dispiace. Ma tu, Deifira mia, sai bene ch’io da te merito se non pietate. Io mai fuggii d’amarti; anzi cercai che l’amore nostro durassi sanza averci a pentire di cosa alcuna.
Filarco. Certo questi erano segni di vero amore, ed era villania la tua, vedendoti amare, se non accettavi aperto quel che tanto a te era proferto. Ma sempre pare, non in amare solo ma in ogni cosa, che i doni troppo proferiti fastidiano, e i dinegati diletti sollecitano a farsi disiderare. Amando, a me nè molto piacerebbe chi mi saziassi; e certo arei in odio chi mi si porgessi troppo acerba.
Pallimacro. Ahimè, Filarco! Beato chi può d’ogni suo pensiero avere ragione. Stima che grande cagione in questo mi facea così essere restio. Quel medesimo sole, quale tu fiso miravi stamani quando e’ surgeva, ora fra ’l dì in alto cresciuto abaglia chi lo guarda. Così io da primo scorsi il mio male quando e’ nasceva, quale medesimo fatto grande acceca ogni mia ragione e consiglio. Nè mi ritenni salire quella erta, onde ora stracco posso nè scendere nè affermarmi.
Filarco. E che adunque non fuggivi tu in tutto quel che tu tanto prevedevi essere dannoso?
Pallimacro. Previdi, sì, Deifira mia, tutto conobbi, tutto da lungi scorsi, e in parte prima ne feci te certa di quel che poi m’è teco intervenuto. Ma se tu, Filarco mio, hai di me ora, quanto certo hai, compassione vedendomi, perchè io ami altrui, sì penoso, come potevo io non avere piatà di chi amando me ardeva?
Filarco. Sempre fu debito d’umanità amare chi ami te. Ma dicesi officio ancora di prudenza in ogni cosa aversi tale che a nulla sia troppo.
Pallimacro. Sai tu come uno grande e grave sasso con più fatica e tardezza si volge, ma poi che comincia a rotolare alla china fracassando, a nulla si ritiene. Uno piccolo e leggiero sassetto, poca cosa lo muove e poco cespuglio il ferma. Così gli animi nostri, quanto più sono grandi e gravi, tanto, benchè tardi mossi, meno si possono in suo corso contenere. Non però rimase da me con ogni astuzia e argumento storli dall’animo quello furore quale, io provo, non è in nostra libertà potere se non ubidirli. E poichè io al tutto provai ogni mia industria ivi essere perduta, Deifira mai tu sai, quant’io conoscea, tanto m’ingegnava che tu amassi con modo e ragione. Ohimè, che ancora io non sapea quanto amando mai si possa in sè tenere ragione alcuna. E come il nocchiero, se mai vento superchio lo urteggia, per non correre con quello impeto in qualche scoglio, suole accomandare a poppa qualche peso, quale trainato ritenga il troppo furioso corso della nave, così io a te, Deifira mia, non per darti, qual mi dolea così darti, affanno, ma per raffrenare il tuo disciolto amore, ora con metterti uno e un altro pure utile sospetto, ora con mostrarti uno e un altro pericolo, ritardava il troppo ardito tuo correre ad amarmi. Tu vedi ch’io soffero il mio male sanza tuo sconcio, ma del sinistro tuo caso troppo mi sarebbe doluto. E per rendere in te meno ardente quelle fiamme, le quali ora consumano me, io ti profersi fare e dire, quanto poi sempre feci, qualunque cosa a te piacessi.
Filarco. Oh pazzo Pallimacro! Tu adunque sì poco stimasti la libertà tua? Tu stolto così te facesti servo d’una femmina? Tu in tutto sì matto stimasti pietà fare a te uno umile servo essere signore? Non è pietà così nuocere a sè per compiacere altrui. Non sapevi tu che le cose promesse non sono più di chi le promise? Non dando quello che tu prometti, acquisti odio; e dove il dai, non però a te cresce grazia. Tu adunque in un tratto perdesti quello di che più volte a te ne sarebbe, donandolo, stata referita grazia.
Pallimacro. Perdetti sì, Deifira mia. Se tu così perseveri verso di me essere ingrata, e se in queste bellezze sta sì grande impietà, certo in te commise il cielo grande errore ponendo fra tanti beni un male sì grande. Ma io pure conobbi il danno mio, e savio e prudente entrai sotto ’l giogo. Ma così parse a me officio d’animo nobile, ove diliberai amare, ivi non porre altro termine all’amore se non, quanto facea, tanto amare te quanto io potea.
Filarco. Tu adunque stimasti debito a chi ama, diventare servo?
Pallimacro. Oh infelici amanti, imparate da me. Non sia chi amando cerchi di sè avere libertate alcuna. Chi non può servire, non sa amare. Convienti spesso ripregare benchè spregiato, e spesso partirti con repulsa benchè ingiusta, e spesso picchiarti la faccia e ’l petto per troppe ingiurie benchè sanza ragione e cagione ricevute, e non raro piangere e’ tuoi e gli altrui errori. E intervienci, oh miseri amanti, come in la targa: quanto lo strale la truova più doppia e dura, tanto più vi si ferma e affigge e con più fatica si sferra. Così l’amore quanto più truova l’animo fermo e ostinato a repugnarli, tanto più vi si assiede e insiste. Non adunque sia chi insuperbisca contro amore, però ch’amore sa più severo aspreggiare e più tardi licenziare i contumaci, che chi umile il segue a ubbidirlo. Ubbidite, amanti, ubbidite allo amore, nè più combattete con amore e con voi stessi, non fate le piaghe vostre più profonde, aggravandovi in sul ferro che vi impiaga. Piacciavi piuttosto donare voi stessi a chi v’assedia, che perdere combattuti ogni bene. Grandissimo dono acquista poca grazia, quando tu mal volentieri il dia. Uno lieto e pronto servigio aspetta due premi, de’ quali non sarà minore quello che si riferisca alla volontà, che quello che si renda all’opera.
Filarco. Nè qui a me piace lasciare te e gli altri amanti errare, e’ quali poco conoscendo il costume delle femmine, subito se li fanno servi. Sono le femmine, come ciascuno palese vede, di natura troppo gareggiosa, e in ogni cosa troppo godono contrapporsi e soprastare contendendo. Di qui nasce quello antico proverbio appresso i comici poeti qual si dice: "Ove tu vuoi, ella non vuole; se tu non vuoi, ella in pruova ti si profferisce", e questo certo non per donarti grazia di sè alcuna, ma per teco vincere concertando. Adunque giova sapere, non dico spregiarle nè isvilirle, però che la femmina offesa mai si ricorda dimenticarsi la ingiuria o grande o piccola cagione che la muova; ma ben giova, mostrandosi d’animo libero e a maggiori cose occupato, farsi richiedere. E rammentivi, amanti, che piglierà più facile e più numero d’uccelli chi sa allettarli, che chi sa perseguirli. Conviensi co’ be’ costumi, con ogni virtù e gentilezza allettarle a prendere piacere di spesso vederti, onde a poco a poco s’incenda e acresca in loro amore. E ivi, amanti, fate qual suole l’uccellatore dietro alle coturnici, seguendole con modo e bellamente, chè assai viene presto il termine quale sia certo; e contenete voi stessi, acciò che la troppo seguita amata non lievi sè in superbia, ove poi quanto più la seguite servendo, ella tanto più vi fugga. E se pure, o vostra disaventura o loro instabile natura, come femmine sempre apparecchiate a nuove gare, forse accennano di levarsi, tiratevi adrieto, amanti, e lasciatele bene prima consigliarsi. Cosa per vile ch’ella sia, pure duole a chi la perde, e niuna sarà tanto stolta, la quale non pregi uno amante fra le prime carissime cose. Onde avviene che chi prima si parte, prima è richiesto. E se pure, loro superbia e stoltizia, elle saliscono in fastidirvi, voi, fermatevi e lasciatele straccarsi, dibattendosi co’ suoi leggieri e volatili pensieri, tanto ch’elle scendano d’ogni alterigia e superbo sdegno; e così in loro subito vederete mancato lo sdegno, ritornato l’amore.
Pallimacro. Tutti questi e simili altri documenti are’ io saputo insegnare ad altri. Ma che giova sapere schermire a chi abbi legate le mani? Io così ora mi truovo, infelice, legato in questa servitù, in quale solo m’è licito piangere la miseria mia. E felice chi può il suo male piangere palese.
Filarco. Reputi tu miseria servire chi, quanto tu dicevi, ami te! Ogni servitù certo fu sempre con dispiacere, ma ubbidire a chi t’ama, pare officio di liberalità e cortesia piuttosto che di servitù. E beato colui el quale, quanto egli ama, tanto sente sè essere amato. Nè vuolsi d’ogni minimo sinistro caso tanto attristarsi. Voi amanti, se chi voi amate forse si mostra verso di voi meno facile che l’usato, subito v’adolorate. Stolti amatori, se non stimate ogni astuzia e arte delle femmine essercitarsi solo per essere guardate da molti e lodate. Nè sa amare chi non può patire due ciglia crucciose in uno bel viso.
Pallimacro. Ohimè! Sfortunato me! Meschino me! Niuno caso avverso, niuna infelicità, niuno dolore può avenire a uno amante quale non sia intervenuto a me, e quale, misero me, non abbi troppo sofferto. Ma tanto mi si conviene, poichè ogni cosa mal volentieri principiata mal si finisce.
Filarco. Mai fu amante che non si dolessi; mai fu amore non pieno di sospiri e lacrime. Comune vizio di chi ama, che sempre interpetra ditti, atti e fatti pure in piggiore parte, e sempre argumenta pure contro a sè, e le più volte crede quel che non è, e di quello che certo sia, sempre dubita. Sete, voi amanti, con la volontà troppo arditi, con l’opera troppo timidi, col pensiero troppo astuti, con l’astuzia troppo sospettosi, col sospetto troppo creduli, col credere troppo ostinati. E si vuole del passato solo ridursi a memoria le cose felici e liete, e al presente prendere quanto el tempo ti concede, e di dì in dì sperare meglio e sanza troppa sollecitudine bene aspettare.
Pallimacro. O Filarco, chi può quanto e’ vuole nell’amore, non ama. Conviensi volere quel che si può. E come posso io del passato non dolermi, poich’a si gran torto mi truovo avere perduto quel tutto che me faceva amando esser felice? E come poss’io testè non piangere, se ora il mio servire acquista nulla altro che ingratitudine? Cosa si truova niuna tanto molesta e penosa, quanto servire e non essere gradito. E ora quale speranza a me qui può mai rilevare una minima parte de’ miei mali, poich’e’ tempi, quali con tanto desiderio aspettavamo a noi, Deifira mia, pieni di piaceri e sollazzi, que’ medesimi a me sono con tanta tristezza e dispiacere passati? Oh fortuna mia acerbissima! Que’ luoghi, quali io mi fidava fussono a’ nostri diletti più apparecchiati e atti, que’ medesimi sono a me stati e chiusi e pieni di repulsa. Ehimè, Pallimacro infelice! E quelle persone, quali io mi pensava fussero alle nostre espettazioni e disideri, quanto doveano, pronte e utili, tristo me, ohi tristo me, quelle medesime sono state cagione d’ogni mia calamità. Ora, oh dolore mio acerbissimo, da chi poss’io sperare più mai aiuto alcuno, poichè di chi io più mi fido, più mi nuoce. Oh Iddio, e quanto amore fugge in piccol tempo!
Filarco. Tristo Pallimacro! Quella tua Deifira, quale tanto amava te, non ama ella più quanto solea?
Pallimacro. Non ami più, no, Deifira mia, non ami me, no. Ed èmmi teco intervenuto come spesso si vede chi da lungi tiene il toro allacciato, seguendolo se forse fugge, e gittandosi a terra se gli si rivolge, e se si ferma, in molti modi lo incita a muoversi, e così lo infesta perfino che volge la fune a qualche fermo luogo, onde poi, scostatosi, ride vedendo el toro legato solo nuocere a se stesso, ora cozzando al vento, ora apparecchiandosi indarno a nuovi combattimenti. Così tu a me, Deifira mia; e poichè me stessi ebbi avolto a quelle ferme promesse, quali fino a ora mi tengono a te suggetto, tu subito cominciasti a riderti e pigliare giuoco d’ogni mia pena; tu subito cominciasti a sdegnarmi. Tu, Deifira mia, qual prima tanto eri lieta vedendomi, qual prima, temendo stare qualche giorni sanza spesso rivedermi, lacrimasti, tu ora in pruova mi fuggi e me hai sanza cagione alcuna in fastidio troppo e in odio. Tu, quando mi vedi, troppo ti turbi; tu ancora, ohimè, non raro a gran torto mi bestemmi. Oh Pallimacro sfortunato! Quella nostra Deifira, quale vidi lacrimare, dolendosi se forse, quanto certo dovea, prendevo a ingiuria una e un’altra sua sdegnosa parola, quella medesima, quella Deifira tanto da noi amata, quella Deifira che tanto me amava, testè mai si sazia d’acrescermi ogni dì più e più dolore.
Filarco. Pallimacro, nella vita de’ mortali nulla si truova a chi non stia apparecchiato il suo fine. Troia fu grande e alta, Babillonia fu ricca e possente, furono Atene ornatissime e famosissime, e Roma fu temuta, riverita e ubbidita, quanto tempo il cielo e sua sorte a ciascuna permise. Nè tu adunque pensa se non dovuto, se uno animo volubile e femminile verso di te non è quel che solea. Pazzo, più volte pazzo chi crede in femmina mai essere costanza alcuna. E certo, quando bene in questa una fussi ogni fermezza, pure al vostro amore, quando che sia, si conveniva il suo fine. E stima, Pallimacro mio, che mai lungo amore fu sanza molta copia di sospiri, lacrime e vario dolore. E qualunque avverso caso nello amore, quanto più vien tardi, tanto segue con ruina maggiore. E vuolsi riputare in buona parte, se qui sia il fine de’ tuoi mali, libero d’ogni altro, quali talora vengono fra curucciati amanti grandissimi scandali e calamità. E certo sempre mi parse vero che l’amore sia fatto come il latte, quale tanto piace quanto egli è ben fresco; poi soprastando piglia troppi vizi. Così in amare, quanto gli amanti studiano porgersi accetti e benveduti, tanto lieti vivono, pieni di sollazzo, giuoco e festivi ragionamenti. Poi fermato l’amore, subito vi surgono sospetti, e dai sospetti le gelosie, e dalle gelosie nascono sdegni, e di qui crescono il vendicarsi e le inimicizie. E solo le inimicizie degli amanti si pruovano essere acerbissime. E sono le femmine, quanto di meno consiglio e ragione, tanto più che gli uomini troppo sfidate, sospettose e dispettose, onde per minima cosa si truovano adirate, e poi, per mostrarsi giustamente crucciate, perseverano e crescono ad inimistà. Nè troverai inimico sì capitale, che non forse qualche volta con una tua parola si muova a pietà; solo il cuore della femmina sdegnato indura per lacrime di chi l’ama, e a pena col sangue cancella uno suo conceputo sdegno. Però si vuole non mai scoprirsi amante, se non quando vedi potere subito prima satisfarti che l’amore pigli suo’ vizi. E conviensi col tempo ardire molto più che chiedere. Natura delle femmine che d’ogni cosa in che possa uscirne rossore, loro molto giova potere dire "io non volea"; e godono vinte una e un’altra volta dare quello che più elle negano.
Pallimacro. Oh Filarco mio, e chi non sa quanto poco si possa qualunque cosa troppo disideri?
Filarco. Ahimè, non piangere più, Pallimacro mio, non piangere più. E dimmi qual grandissima cagione mai fu quella che in lei spegnessi sì ardente amore? Sogliono le fiamme amorose spesso abbagliare, sì, ma non sanza grandissima ruina amorzarsi. Piacciati narrarmi ogni cosa. Non fare quale fanno questi altri amanti, i quali, afflitti e mesti, subito si richiudono in solitudine, donde col troppo ripensare stracchi escono sanza aver pensato a nulla. Agli animi affannati nuoce ogni solitudine, e troppo giova appresso gli amici ragionando posare la gravezza delle sue cure. E che fai, Pallimacro, che pur miri a terra fiso e muto? Rispondi, pregoti, e ragionando dimenticherai in parte il tuo male. Fue tuo o pure suo errore cagione di tanta vostra discordia?
Pallimacro. Non fu mio, no, nè in tutto tuo errore, Deifira mia, no. Anzi la iniqua mia fortuna così fa te verso di me essere ombrosa e schifa. E bene presentii e predissi questa ruina, quale ora mi tiene soppresso in tanta calamità. Ma puossi mai chiudere tutte le vie al male che de’ venire? E come all’acqua, quanti più rivi gli otturi, tanto con più impeto rompe in altro corso, così l’avversa fortuna, quanto più te le contraponi, tanto più si carca e irrompe ove mai aresti dubitato, e a uno tempo qui ne viene con quella furia quale in più rami prima si sfogava.
Filarco. Niuna iniqua fortuna, niuno caso avverso mai valse rapire la benivolenza di chi veramente ami. Nè qui sia in argomento altri che te stesso, il quale soffrendo tanto dolore, pure seguiti amando. E quella tua Deifira così verso di te sarebbe certo il simile, se in lei fusse quanto in te fede e fermo amore. Ma qual caso fu questo vostro, tanto da maladirlo?
Pallimacro. Certo sì da maladirlo. Parsegli, Filarco mio, che una e un’altra forse più bella di lei troppo a me si proferisse, quale essa in parte ad altri si proferiva. Parsegli, tristo me, ingiuria del nostro amore, se altri accendeva i suoi lumi al nostro fuoco. Ohimè, quanto son brievi e molto fallaci i dolci spassi d’amore. Parseti, Deifira mia, da credere a chi ti confermava ogni tuo sospetto. Oh miseri amanti, imparate da me, credete a me, il quale molte lacrime e molti dolori hanno in questo già fatto essere maestro. Fuggite tanto male. Tenete e’ gaudi vostri amorosi drento a’ vostri petti ascosi, acciò che invidia alcuna non ve li possa perturbare. E stieno gli occhi vostri sempre volti non altrove se non dove l’animo risiede. Nè mai movete l’usato seggio al già fermo amore. Sia in voi uno solo pensiere, uno solo servire, uno solo amore, se non volete poi com’io adolorati piagnere il vostro errore. E s’io così piango, non avendo errato in altro che solo in non provedere a ogni altrui sospetto, quanta sarà punizione in colui, el quale del suo peccato arà niuna scusa!
Filarco. E questo ancora sarà non poco errore in chi ama, se e’ forse stimerà perfidia non aversi al tutto dedicato a chi verso di lui serva nè fede nè pietà. Stolto chi tende tutti i lacci suoi a uno solo varco. Vuolsi avere più porti dove ridursi da’ contrari venti. E in amare mi piace avere chi me riceva se altri forse mi commiata, Nè può correre se non lento chi non arà con chi e’ gareggi. E vedi quanta utilità qui sarebbe a te, se chi ti si profferiva, avessi da serbare caro la sua parte del tuo amore. Prima tu con arte aresti quegli amori guidati, quanto quello di Deifira, tanto bene e occulto, onde sospetto in lei mai sarebbe fermo; e poi aresti con chi ora giucando dimenticarti ogni altra ricevuta ingiuria. Ma poichè la fortuna tua qui t’ha condutto, misero Pallimacro, resta, quando che sia, essere a te stessi inimico, e giudica perduto quello che sia perduto. Assai vedesti più e più giorni nel tuo amore lieti e felici. Tu allora andavi e stavi dove Deifira voleva; ivi si faceva e diceva cose giocose e liete, quanto a lei piacea, e a te non dispiacea. E così certo furono que’ dì pure chiari e sereni. Ora ella turbata ti fastidia, sanza ragione e cagione alcuna ti sdegna. Adunque tu, Pallimacro mio, con molta ragione non seguire avendo tanto in odio la tua libertà, che tu pur doni te stessi a chi ti sdegna. Se a lei non duole perdere uno fedele amante, nè a te pari dolga uscire di tanta servitù. Parmi ingiuria pur servire a chi non voglia essere servito. Non può se non dolerti una e un’altra volta così lasciare quello che a te solea essere grato e caro. Ma vinci te stesso, e vincerai amore. Non curare vedere chi te mira con dispetto. Non salutare chi drento a sè ti bestemmia. Non essere servo a chi non ti sa essere umano signore. Resta omai essere giuoco a chi gode d’ogni tuo dolore e miseria.
Pallimacro. Che vuoi tu ch’io faccia, Filarco? Io mai potrei indurmi nell’animo fare o dire cosa che a costei dispiacessi: ed èmmi tormento vederla se non lieta e contenta. S’ell’è ingiusta verso di me, quando che sia, se ne pentirà e doleralli. Intanto io fra me mai abbandonerò d’amarla, e in qualunque modo molto servarli onore.
Filarco. Lodoti Pallimacro, e certo in questo mostri quanto in te sia gentilezza e costume. E troppo ti biasimerei, se tu, come questi altri villani e dispettosi amanti, non secondandoli tutte le cose quanto bestiali troppo chiedono, subito con sdegno e minacci vendicandosi, non si vergognano rendere misere e afflitte le infelici amate, quali pure testè loro tanto erano care; nè li pare peccato adoperare ad ingiuria quello che gli sia stato donato per amore e cortesia. Troppo certo sarà contrario a ogni nobile e buona natura, se dello amore nasce inimistà. Lascino e’ gentili amanti usare dispetti e sdegni a’ puri villani, poichè gentilezza sempre fu piena d’umanità e facilità. Gentilezza non serba sdegno, e ogni sdegno verso chi te ami sente d’ingiuria. Ma bene ti conforto, oh Pallimacro mio: quello che tu vedi esserti dalla iniqua fortuna tua vietato, quello che tu pruovi quanto chi facile può, non vuole usare teco pietate alcuna, quel che tu conosci esserti da’ tempi, da’ luoghi e da tutte le cose vietato, nollo volere; delibera, quando che sia, averti libero. Oh che beata cosa vivere a se stesso vacuo d’ogni cura!
Pallimacro. Ohimè, Filarco mio, che poss’io di me, ov’io tutto sono d’altrui? Tuo sono io, Deifira mia, e tuo voglio essere. Tu, quanto di me vuoi, tanto sia. O piacciati provare la pazienza mia vendicandoti, se mai fui non quanto doveo, presto ad amarti, o piacciati gloriarti d’avere amante chi per niuno oltraggio resta di servirti, io non però mai mi dimenticherò le tue molte meco gentilezze. Stannomi scritti drento al mio petto e’ tuoi vezzosi sguardi, dolci atti e dolci parole, colle quali mi vincesti ad amarti. Io sempre verso di te sarò fedele, qual sempre fui. Tale sarà l’ultimo mio dì nel nostro amore, quale stati sono tutti gli altri, quanto vorrai, offiziosi e pronti. Una ora medesima finirà in me vita e amore.
Filarco. E quanta bene troppo mi pare gentilezza, di porto chiamarti in nave e poi lasciarti solo in alto e tempestoso mare, e sè ridursi al sicuro; ove, s’ella così fa per vendicarsi, certo poco merita essere amata. Amore non vuole vendetta. Vendetta viene da nimistà. S’ella così sanza cagione ti strazia, certo ella molto merita essere odiata. Chi sanza ragione ingiuria un suo qual sia forse inimico, costui usa tirannia. Pertanto nuocere a chi te ami, verrebbe troppo da crudelità e bestialità. Ma giudica tu di Deifira, non dico quanto da lei pruovi, ma quanto a te piace. E qui dimmi: quale a te sarebbe più caro, o uscire in libertà o vivere in questi tormenti? Non sarebbono ubbiditi i signori, se non potessino dare e torre a’ suoi dimolti beni. A te può Deifira torre nulla che tuo sia. Chi resta d’amare, perde l’amore, non el toglie ad altrui. E tu adunque, se così vuoi, quanto si conviene, libertà e quiete, disponi non volere da costei cosa ch’ella ti possa dare, e sarai libero. Resta di volere e sarai libero. E poca ti sarà fatica non voler quel che tu già non puoi avere. E vero costei, che potrebb’ella mai darti cosa degna alle tue virtù? Non onore, non ricchezza, non fama, non grado o dignitate alcuna, quali tutte con minore fatiche molto acquisteresti, se tu a quelle tuo tempo e ingegno tanto consumassi. El tempo e la fatica indarno spesa si può chiamare gittata via. E caro a te, se tu da questa tua Deifira non ricevessi pure infiniti dispiaceri. Chè se forse ti piace vedere un bel viso, molti più be’ visi che il suo spesso ti s’aprono lieti e dolci, quando la tua Deifira superba si chiude in troppo sdegno. Se t’è piacere uno grazioso sguardo, molto più vezzosi e angelichi occhi tutto il dì bello t’accolgono, quando la tua Deifira dispettosa ti schifa. Se t’è piacere uno festivo motteggiare, molte più giocose e cortese che lei ti chiamano spesso a ragionarti e ridersi teco, quando la tua Deifira ostinata o solo tace muta o risponde cose che t’adolorano. Ma io veggio l’errore tuo, in che ancora peccano tutti gli amanti, che tengono a viltà non seguire lungo l’amorosa impresa. Stolti amanti, stolti, se pure terrete stretto in mano cosa quale, dove più la stringete, più vi pugne. Forse ancora tu, sciocco Pallimacro, ti credi da costei essere amato. Credimi, Pallimacro, a Deifira, amando te, dorrebbono le pene tue, s’ella non avessi te troppo a odio. Ella certo non potrebbe non piangere vedendoti tanto afflitto. Se questa tua Deifira, Pallimacro mio, fussi d’animo verso te non molto inimicissimo, ella, non dubitare, mai goderebbe così straziarti. Pigliane argumento da te stesso. Perchè tu vero ami lei, troppo ti duole mirarla se non lieta e contenta. Adunque s’ella poco ama te, s’ella tanto t’è inimica, tu qui omai esci di tanta servitù; prendi virile animo di te e buon partito. Una sola volta ti dolerà tagliare quel membro quale al continuo troppo ti tormenta. So io, sì, a te parerà aspro lasciare quanto hai in uso quella e quell’altra ora vederla e salutarla. Ma stima che niuno incarco in amore sta sì grave, el quale non sia molto leggiero a chi lo voglia sopportare; e incarco per sconcio e smisurato che sia, diventa leggiero a chi el depone. L’amore cresce per uso, e per disuso scema, nè si può, no, un lungo amore perdere in un dì. Ma quella via sarà prestissima quale sia sicura. Conviensi posare lo incarco amoroso destro in terra, se esso male te prieme, e non gittarlo in modo che si rompa in su’ piedi tuoi in vendetta e nimistà. Comincia adunque a interlasciare una ora, poi intermetti un dì, e così accresci ogni dì più il dimenticarla, persino che tu stesso aùsi te a stare più e più e dì e ancora mesi sanza vedere chi t’è inimica.
Pallimacro. Ohimè, Deifira mia, come ti crederò io mai essere a Pallimacro tuo inimica? Tu da me mai non in detti, non in fatti offesa; tu sempre da me onorata e adorata. Io mai a te fui grave o importuno se non forse in troppo amarti con fede e mirabile pazienza. E che più poss’io? Che vuoi tu da me, Deifira mia, che vuoi tu da me?
Filarco. Dicotelo io. Ella così vorrebbe mai ricordarsi di te se non quanto ti vede, e te vorrebbe sempre stare adolorato consumandoti e spasimando per troppo amore. E tanto ti rammento, Pallimacro, che la femmina sa solo o amare o troppo odiare. Presto s’incende uno cuore femminile ad amore; molto più s’infiamma presto di crucci e odio, nè in altro serba costanza alcuna la femmina se non in mantenere gare e crucci. E rammentoti, Pallimacro, che alla femmina, quando ama, sempre piace qualunque cosa faccia e dica chi ella ama, e da lui accetta ogni cosa sempre in migliore parte. Vero e così sempre sdegna e riceve a dispetto e interpetra pure in male tutto ciò che facci chi già gli sia in odio. Tu adunque, quante più cose farai per piacerli, tante più gliene dispiaceranno, e più te ne inimicherà.
Pallimacro. Sarà mai tanta avversità nel nostro amore che io possa credere te essere a me, Deifira mia, nimica. E che vita sarà la mia misera e dolorosa?
Filarco. Anzi sarà libera d’ogni cura e sollicitudine la tua, non amerai; e sarà misera vita a Deifira, quando in lei ardono suoi crucci e suoi sdegni
Pallimacro. E potrò io, che, mai rimanere d’amarti, Deifira mia?
Filarco. Mal si sa quel che si può, se non si pruova.
Pallimacro. Ahimè, Filarco mio, a me interviene come a chi ne porta in petto fitto il ferro, onde con esso vive morendo in dolore, nè dubita che subito sanza esso cadrebbe in morte. Te, Deifira mia, porto io drento al mio petto; teco dì e notte fra me mi ragiono; te sola veggo negli occhi e fronte di qualunque altra bella; tu una guidi me e mia vita; tu, Deifira, mi consumi a morte; sanza te nè voglio nè posso vivere.
Filarco. Serbare ostinato il male suo viene da furore. E sogliono i prudenti fra’ primi rimedi a questo male così ricordare, che le faccende maggiori dimenticano gli ozi dell’amore.
Pallimacro. Ehi, Filarco, parti poca faccenda contentare una femmina? Parti poca faccenda contentare se stesso amando?
Filarco. Hau! Anzi una sola femmina a me pare molto e molto male per più uomini che per dodici. Ma pure a levare dall’animo tanti tuoi pensieri acerbissimi e amarissimi, giova pigliare altra faccenda e scostarti dall’animo queste fiamme quali te si consumano. Vorrei io vederti co’ tuoi amici in villa seguitare o ’lupo o l’orso, e così fuggire quest’altra molto più bestiale bestia, non dico femmina, ma amore.
Pallimacro. Questo conosco io per pruova, Filarco, che quanto più scosti la corda dall’arco teso, tanto più ti stracca a contenerla, e tanto con più impeto ritorna qual prima era.
Filarco. E dove questo nulla giovassi, a me pare poca prudenza fuggire tutti gli altri diletti. Sarebbeti utile così al continuo darti tra molti sollazzevoli amici, appresso i quali tu insieme lieto dimenticassi chi t’è molesto.
Pallimacro. Che credi, Filarco, per metter margherite e gemme in uno vaso pien d’acqua, che e’ manco forse traboccassi? In uno animo pieno di tanta tristezza quanto è il mio, nulla più vi si può immettere che non facci sopratraboccare il dolore.
Filarco. Sia così, nè io però mi scoprirei tanto addolorato; e questo per non essere grave a chi me ama, e per non fare contento chi del mio male godessi. E si vuol fingere non curare quel che altri in dispetto fa perchè tu molto curi. Così fallito il suo pensiero, resterà d’esserti in quella parte molesto. Sempre fu utile in oscuro tendere le suo rete.
Pallimacro. Part’egli forse meglio vestirsi d’ortica che mostrarsi nudo?
Filarco. Pare a me certo meglio mostrarsi cruccioso verso chi te ingiuri che addolorato. E parmi cosa troppo servile contro la ingiuria avere nulla se nonne il dolersene. E alcuni incendi sono quali meglio si spengono con ruina che con acqua. E quanto io, offeso a torto, certo a ragione mosterrei mio sdegno per non dare di me licenza ad altri più che a me stessi.
Pallimacro. Non credere che giovi, Filarco, no, portare in mano accese le braci per più scaldare altrui: e col mio cruccio infiammare l’ira a chi può in me quanto e’ vuole, sarebbe uno accrescermi tormento.
Filarco. E per meno sentire questi tormenti, poichè si dice l’uno chiodo caccia l’altro, che non accetti tu qual si sia una di tante bellissime e leggiadrissime donne, quali così tutto il dì a te molto si profferiscono? E’ nuovi piaceri discacceranno i tristi antichi tuoi pensieri.
Pallimacro. Io non so donde a me tanto sia nato uno incredibile fastidio verso tutte le femmine, che non posso sanza grave stomaco mirarne alcuna. Solo tu, Deifira mia, non mi dispiaci. Sola Deifira viene agli occhi miei non ingrata.
Filarco. E beato a te, se quanto l’altre tutte meno a te piacciono che Deifira, così tanto più che l’altre a te quest’una Deifira dispiacesse, chè aresti l’animo tuo libero a maggiori tue e molto eterne lode. Ma poichè qui non dài luogo ad altri più facili rimedi, uno solo ci resta, el quale te possa restituire in libertà. Fuggi, Pallimacro, lungi, dove tu nè vegga nè oda ricordare Deifira, nè madre nè sorelle nè de’ suoi alcuno. Quanto più te scosterai, tanto più si straccherà l’amore a perseguitarti. L’amore non molto nutrito in ozio di lieti sguardi e dolci ragionamenti perisce.
Pallimacro. Misero Pallimacro, tu adunque fuggirai la patria tua, parenti, amici tuoi. E qual tuo vizio tanto te priva di così tue carissime e gratissime cose? Ohimè, amare troppo altri più che me stessi così d’ogni mio male mi sta cagione. E tu adunque, Pallimacro, in istrani paesi fuggirai errando solo e molto piangendo la tua miseria. Sfortunato, troppo sfortunato, e qual tuo peccato a te qui mai a te retribuisce tanta infelicità? Ohimè, servire con troppa fede a chi m’è ingrata fa me così troppo essere infelice. Ehi, meschino Pallimacro, tu adunque in essilio starai soffrendo in te pene della ingiustizia d’altrui. E questi nostri, Deifira mia, fra noi lietissimi risi e copertissimi motteggi ora, tua ingiuria, così a me fruttano aperte lacrime e dolore. E da quelle antiche tra noi dolcissime e vere dolcissime piacevolezze ora così per tua impietà mi truovo caduto in tanta miseria. Oh Iddio! Gli altri amando ricevono di loro fede qualche grazia, benivolenza e cortesia. A me solo, più che gli altri fedelissimo, in premio è dato sdegno, odio ed essilio. Addio, patria mia, addio, amici miei. Pallimacro, troppo fedele e troppo suggetto amante, fugge in terre strane a vivere piangendo in essilio. E tu, Deifira mia, ora sanza me che vita sarà la tua? Chi verrà a salutarti? Chi tornerà spesso a farti lieta? Chi seguirà te molto amando? A chi ti porgerai tu ornata? Chi ti loderà? Chi quanto io mai ti renderà onore? Tu, giovinetta e bella, sederai fra l’altre sanza avere chi molto pregi le tue bellezze, o te piacerà donare a nuovi amanti, poichè tu così hai a torto escluso e gittato chi te più che se stesso amava, ama e sempre amerà. Addio, Deifira mia. Io ne vo in essilio, nè so del tornare.