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232 deifira

quanto più sono grandi e gravi, tanto, benchè tardi mossi, meno si possono in suo corso contenere. Non però rimase da me con ogni astuzia e argumento storli dall’animo quello furore quale, io provo, non è in nostra libertà potere se non ubidirli. E poichè io al tutto provai ogni mia industria ivi essere perduta, Deifira mai tu sai, quant’io conoscea, tanto m’ingegnava che tu amassi con modo e ragione. Ohimè, che ancora io non sapea quanto amando mai si possa in sè tenere ragione alcuna. E come il nocchiero, se mai vento superchio lo urteggia, per non correre con quello impeto in qualche scoglio, suole accomandare a poppa qualche peso, quale trainato ritenga il troppo furioso corso della nave, così io a te, Deifira mia, non per darti, qual mi dolea così darti, affanno, ma per raffrenare il tuo disciolto amore, ora con metterti uno e un altro pure utile sospetto, ora con mostrarti uno e un altro pericolo, ritardava il troppo ardito tuo correre ad amarmi. Tu vedi ch’io soffero il mio male sanza tuo sconcio, ma del sinistro tuo caso troppo mi sarebbe doluto. E per rendere in te meno ardente quelle fiamme, le quali ora consumano me, io ti profersi fare e dire, quanto poi sempre feci, qualunque cosa a te piacessi.

Filarco. Oh pazzo Pallimacro! Tu adunque sì poco stimasti la libertà tua? Tu stolto così te facesti servo d’una femmina? Tu in tutto sì matto stimasti pietà fare a te uno umile servo essere signore? Non è pietà così nuocere a sè per compiacere altrui. Non sapevi tu che le cose promesse non sono più di chi le promise? Non dando quello che tu prometti, acquisti odio; e dove il dai, non però a te cresce grazia. Tu adunque in un tratto perdesti quello di che più volte a te ne sarebbe, donandolo, stata referita grazia.

Pallimacro. Perdetti sì, Deifira mia. Se tu così perseveri verso di me essere ingrata, e se in queste bellezze sta sì grande impietà, certo in te commise il cielo grande errore ponendo fra tanti beni un male sì grande. Ma io pure conobbi il danno mio, e savio e prudente entrai sotto ’l giogo. Ma così parse a me officio d’animo nobile, ove diliberai amare, ivi non porre altro termine all’amore se non, quanto facea, tanto amare te quanto io potea.

Filarco. Tu adunque stimasti debito a chi ama, diventare servo?